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Il cinema minore tratto da Stephen King

CAPITOLO 3 – Il cinema tratto da Stephen King

3.4 Il cinema minore tratto da Stephen King

Affrontare la produzione cinematografica minore tratta dagli scritti di Stephen King significa analizzare un territorio completamente diverso. Vanno messi in secondo piano gli autori come Cronenberg e De Palma, che hanno piegato la materia alla base ad una visione personale, così come non si riscontreranno casi simili ai solidi professionisti, come Rainer o Kubrick, che hanno saputo applicare la propria sapiente regia per lasciar parlare la voce dell’autore. In un certo senso, quando si parlerà di come avvenga, talvolta, un approccio superficiale alla storia cartacea, sarà possibile evidenziare una qualche analogia con il cinema kinghiano meno riuscito, ovvero quello che si basa si sulla materia dello scrittore, ma si ferma solo alla superfice.

La produzione minore tratta da King costituisce un sottobosco audiovisivo di notevole dimensione, non sempre piacevole e non necessariamente degno di lode, ma che ha contribuito a scrivere una parte della storia del cinema horror, pur collocandosi «all’ombra dei giganti»43. È possibile collocare l’inizio di questo sottoinsieme nel 1983, lo stesso anno che vede protagonisti Cronenberg e Carpenter con La Zona Morta e Christine e nel quale esce il film Cujo. Questa coincidenza risulta fondamentale, poiché rappresenta come, in un periodo di forti cambiamenti circa la produzione audiovisiva, allo sguardo autoriale nei confronti di King, si aggiunga anche quello di artigiani di un cinema che molto spesso viene definito come di serie B. È questo il tratto fondamentale che accomunerà tutte le opere minori: mestieranti alla regia, budget bassi, attori minori e un attaccamento alla materia kinghiana più estetico, superficiale e quindi spesso meno profondo e interiore. Il principale artefice di questi mutamenti cinematografici è il contesto culturale degli anni Ottanta dei quali il cinema assorbe e riflette l’aria politica, il pensiero e le dottrine, una caratteristica che investe anche le produzioni horror e di fantascienza. Un periodo in cui anche le mini-major e il cinema indipendente vantano un certo tipo di trionfo, e in cui in cinema horror classico sembra ricodificato verso l’assemblamento ad altri generi44. Il cinema di questi anni tratto dallo scrittore del Maine è qui assimilabile ad un simbionte,

43 Espressione utilizzata da G. Calzoni in G. Calzoni (A cura di) op. cit. p. 61.

44 Il riassunto di alcune caratteristiche degli anni Ottanta fa riferimento ai saggi P.M Bocchi, Invasion Usa, op. cit, p 12-14 e L. Cozzi, Il cinema horror. Storia e critica, Profondo Rosso, Roma, 2017.

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che segue i percorsi del cambiamento e si adatta alle esigenze del pubblico rimanendo fortemente rispettoso di regole e codici, spesso sotto il vigile sguardo delle forze produttrici. Per questo motivo, l’invisibilità che caratterizza questo tipo di cinema, complice la pressoché costante passività volontaria dei registi, è causa molto spesso di una perdita dell’immaginario kinghiano e di tutti i suoi elementi di profondità, caratteristica che tuttavia non è sinonimo di non riuscita dei prodotti in questione. L’opera di King viene presa e trasportata sullo schermo con pretese differenti dalla controparte cartacea, e i caratteri dei materiali di base vengono adattati solo superficialmente, poiché

«quello che è veramente intraducibile nei romanzi di King non sono i demoni o i diavoli, i fantasmi o gli spiriti maligni, quanto piuttosto gli stati d’animo»45. Per ciò, risulta spesso più vantaggioso per il cinema minore raccontare e mostrare i mostri e i demoni nella loro dimensione estetica senza riprodurne, se non superficialmente, la portata allegorica.

Il primo dei film a dare avvio a questo sottogruppo è Cujo, firmato alla regia da Lewis Teague.

L’opera in questione, che rispetta tutti i limiti di un cinema di genere puro e semplice senza alcuna pretesa, risulta interessante per la sua capacità di adattarsi superficialmente alla pagina kinghiana per raccontare un beast movie, violento e squisitamente artigianale nella messinscena, ma improntato sul voler mettere in scena uno spilberghiano46 microcosmo domestico la cui tranquillità quotidiana viene incrinata dall’ombra dell’adulterio della protagonista Donna, mentre il San Bernardo rappresenta, come scrive Giacomo Calzoni «lo strumento attraverso il quale raggiungere quella riconciliazione e quella quiete messe in pericolo dalla crisi famigliare»47. Dell’anno successivo è invece il film Grano rosso sangue (Children of the corn), dell’esordiente Fritz Kiersch, basato su un racconto contenuto nell’antologia a volte ritornano del 1977 che affrontava in chiave fantastica il tema delle sette religiose e della loro radicalizzazione negli Stati Uniti, che in quegli anni diventavano sempre più presenti nelle pagine di cronaca, come il massacro di Jonestown e il suicidio collettivo della comunità

«Tempio del popolo»48 del 1978 a cui il racconto cartaceo, I Figli del Grano, sembra velatamente rivolgersi. L’obiettivo, in parte riuscito, è quello di sfruttare il racconto di King per narrare una storia che recuperi le atmosfere di genere come il folk horror, nel quale si esplora una dimensione rurale connotata dall’assenza di istituzioni e dove predomina una concezione pagana dell’esistenza. Inoltre, il film di Kiersch omaggia esplicitamente questo immaginario, con rimandi espliciti a film come Il

45 N. Andrews, Horror Films, Multimedia Publications, Milano, 1985, p. 90.

46 Così definito da I. Nathan in op. cit. p. 35

47 G. Calzoni, op. cit. p. 66

48 Per approfondimenti si veda Enrico Pozzi, Il carisma malato. Il People's Temple e il suicidio collettivo di Jonestown, Liguori, Napoli, 1992.

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Villaggio dei Dannati (Wolf Rilla) o il celebre The Wicker Man (Robin Hardy) Rendere l’operazione vantaggiosa anche da un punto di vista legato all’incasso ai botteghini costringe la scrittura del film a ripiegarsi su dinamiche meno violente: si tratta sempre di una coppia che raggiunge un villaggio sperduto in Nebraska dove i bambini venerano una divinità pagana e hanno massacrato la popolazione adulta, ma l’happy ending diametralmente opposto a quello del romanzo e l’ammorbidimento della relazione tra i due protagonisti, non più in crisi come nella controparte cartacea, rendono la pellicola più appetibile al pubblico cinematografico.

Il procedimento avvenuto con i due film Cujo e Grano rosso sangue è così costruito: l’opera letteraria di King viene ripercorsa superficialmente, vengono lasciati immutati i meccanismi e gli elementi di base e si depotenziano, o annullano, tutti gli elementi di maggiore complessità in modo che ne risulti un’opera con pretese estetiche e d’intrattenimento, dove tuttavia non è escluso che emergano alcuni dei tratti salienti che caratterizzano la scrittura di Stephen King. Quando si tratta di adattamento, il cinema può fermarsi, non addentrarsi nei dettagli, evitando di intraprendere lo stesso percorso di analisi affrontato dalle opere scritte. Può porsi un proprio evento principale, ovvero un elemento narrativo o stilistico che ne sancisca genere e obiettivi49. Cujo, ad esempio, rappresenta un caso emblematico: nella sua realizzazione, non ci si pone l’intendo di attuare «l’approfondimento analitico dell’ingerenza simbolica della paura sul vissuto infantile e adulto»50, bensì la metamorfosi demoniaca dell’animale, basando tutto su un confronto esteriore e quindi estetico, contrassegnato da un elevato grado suspense e gore, che Marcello Gagliani Caputo51 vede contestualizzato nell’ambito dell’animal-drama, individuando nella sequenza dell’assedio in macchina una citazione diretta a Gli Uccelli (The Birds, 1963) del maestro Alfred Hitchcock. Questo procedimento non sfocia in quella passività negativa che affliggerà invece i lavori del nuovo millennio, poiché è in grado di garantire, come avvenuto con i lavori di Lewis Teague e di Fritz Kiersch, una certa indipendenza dalla pagina scritta, che invece non si riscontra in alcuni dei lavori che vedono Dino De Laurentiis alla produzione che, attratto dall’appeal commerciale di Stephen King, diede il via alla realizzazione di una serie di pellicole iniziate con Fenomeni Paranormali Incontrollati (Firestarter) nel 1980 e terminata con Brivido (Maximum Overdrive) nel 1986. Proprio queste due produzioni rappresentano al meglio i punti più bassi che il cinema kinghiano degli anni Ottanta possa raggiungere. In merito al primo film, diretto da Mark L. Lester, è possibile notare come una scrittura avventata e superficiale e un regista

49 Per approfondimenti si veda A. Fumagalli, L’adattamento, da cinema a letteratura, Volume I, Dino Audino, 2020, Roma, p. 169-170.

50 D. Arona, op. cit. p. 99.

51 M. Gagliani Caputo, op. cit. p 34.

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«piatto, rigido e imbalsamato»52, rappresentino i principali difetti del film, che si limita a seguire la pagina kinghiana senza alcuno spirito ne scopo, arrancando faticosamente nei momenti salienti e appiattendo completamente la profondità dei personaggi. Questi difetti risultano ancora più accentuati nel film Brivido diretto dallo stesso Stephen King, tratto da un racconto che si poneva come la perfetta rappresentazione delle paure ataviche dell’uomo moderno, a metà tra La notte dei morti viventi di George Romero e Gli uccelli di Alfred Hitchcock, dove si racconta un’apocalisse, in cui le macchine impazziscono, da un punto di vista di un ceto medio/basso, che è costretto a fare i conti e subire le conseguenze di un evento irrazionale. Sullo schermo, il tono pessimista e apocalittico vira bruscamente sull’ironia e sul semplice intrattenimento, dimenticandosi della profondità che aveva contraddistinto i personaggi e scadendo in una comicità di bassa lega.

Nel capitolo primo si è fatto riferimento a come sia necessario trattare l’opera letteraria e il conseguente adattamento come due universi separati; tuttavia, un film come Fenomeni Paranormali Incontrollati contiene un elemento che rende legittimo il confronto: parafrasando quanto riporta Giacomo Manzoli, la comparazione risulta sensata nel momento in cui il film decide di legarsi fedelmente alla propria fonte con l’idea di conseguire un obiettivo che solo tale fedeltà può permettere. Nel momento in cui questa superflua e vuota, risulta inutile. L’unico obiettivo del film di Laster sarebbe quello di intrattenere, così come di Brivido, ma entrambi risultano inconcludenti su questo fronte. La scrittura di entrambi i film fallisce proprio nei momenti culminanti e nelle successive risoluzioni53.

Le due opere nel mezzo di questa catena di montaggio, L’Occhio del gatto (Cat’s Eye) e Unico indizio luna piena (Cycle of the werewolf) rappresentano, pur nella loro medietà, due operazioni di intrattenimento riuscite. Il primo, girato nuovamente da Lewis Teague, ricorre alla suddivisione in episodi, e vanta il suo pregio più riuscito nel tentativo di emulare il precedente Creepshow del 1982, mettendo in scena un’umanità per la quale sembra impossibile provare empatia verso il prossimo. Per quanto concerne invece l’adattamento di Cycle of the werewolf, a stupire è il modo in cui lo stesso Stephen King, autore della sceneggiatura, riesca a mantenere intatta la connotazione malinconica che caratterizzava il romanzo breve alla base; questo elemento si dimostra determinante, in quanto riesce a compensare la messinscena approssimativa e senza personalità del regista Daniel Attias.

52 P.M Bocchi, Fenomeni Paranormali Incontrollabili, in Stephen King – Guida al cinema del re del brivido, Dossier Nocturno p. 32.

53 Per approfondimenti si veda S. Field, La Sceneggiatura, Lupetti, Milano, 2016, p. 137 e R. Mckee, Story, contenuti, struttura, stile, principi della sceneggiatura per il cinema e la Fiction Tv, Omero, Roma, 2010, p. 454-455.

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Mentre nel 1987 si cercava di sfruttare il nome di King per la produzione di alcuni sequel spuri, come Creepshow 2 (Michael Gornicke) e I Vampiri di Salem’s Lot (A Return to Salem's Lot Larry Choen) riconosciuti all’unanimità come operazioni fallimentari, nelle sale approdava anche l’adattamento da un’opera di Richard Bachmann, ovvero lo pseudonimo utilizzato dallo stesso King.

L’opera in questione è L’uomo in fuga (The Running Man), pubblicato nel 1982; uno scritto che rappresenta una parentesi anomala, non solo per il genere di appartenenza, ovvero la fantascienza distopica degli anni Cinquanta e Sessanta, ma soprattutto per uno stile e contenuto di scrittura più ruvido e diretto, decisamente orientato verso la letteratura pulp che non alla magniloquenza dickensiana tipica dello scrittore. Uno stile di scrittura che facilmente transita nel film di Paul Michael Glaser, che dal romanzo prende sostanzialmente lo spunto iniziale per poi orientarsi sull’action muscolare tipico degli anni Ottanta, incarnato nella figura di Arnold Schwarzenegger. Se nella sua azione fine a sé stessa, il film riesce ad anticipare alcune tematiche tutt’altro che scontate, come la manipolazione delle immagini attraverso il morphing, l’estetica si avverte più come un riciclo che oscilla tra il look post-atomico della saga di Mad Max, e l’iconografia di alcuni cult come Rollerball (Norman Jewison, 1975) o Orwell 1984 (Nineteen Eighty-Four, Michael Radford). Chiude il cerchio degli anni Ottanta la trasposizione di quello che viene riconosciuto all’unanimità come uno dei migliori romanzi di King, Pet Semetary, specchio della dimensione del dolore e dell’angoscia e dello smarrimento dinanzi alla perdita e all’incomprensibilità delle cose. L’adattamento di Mary Lambert si appoggia su una sceneggiatura scritta dallo stesso Stephen King, che conferisce una lettura del morto vivente più intima e raccolta, prendendo volutamente le distanze dall’intenzione di porsi come una disperata riflessione sulla morte, sul lutto e sull’elaborazione di quest’ultimo. Si tratta di un prodotto di genere direttamente legato al suo periodo di produzione, iconograficamente debitore a tutto l’horror del decennio, esplicito e talvolta persino didascalico nella sua concezione e gestione della paura, ma contrassegnato da sequenze di grande impatto emotivo: dalla morte di Gage agli inquietanti flashback che tormentano il protagonista Lewis. Secondo Giacomo Calzoni54, nello scrivere la sceneggiatura, King cerca inutilmente di replicare quel vortice di inquietudini e terrore che nella propria epica letteraria è generato principalmente dai dettagli, ignorando il mondo di differenze che separa i due linguaggi: nella fattispecie, scrive che ad essere inquietante non è tanto il momento della profanazione della tomba del figlio, «bensì la descrizione di tutti gli attimi che lo precedono:

l’ultimo sguardo terrorizzato di sua figlia […], il vicino Jud che fuma nervosamente mentre attende spiando dietro la finestra il suo ritorno a casa, la telefonata della moglie da Chicago»55.

54 G. Calzoni, op. cit. p. 88

55 Ibidem.

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Dopo Pet Semetary, che rappresenta l’ultima pellicola kinghiana degli anni Ottanta, i successivi anni Novanta saranno chiamati a raccogliere la pesante eredità del decennio precedente e mostreranno la rapida, seppur temporanea, crisi del cinema horror. Negli anni Ottanta, quello stesso genere era stato in grado di intercettare e rielaborare artisticamente le tensioni di un’epoca non facile, mentre nel successivo decennio si dimostrerà in seria difficoltà a relazionarsi con un periodo scevro di forti turbolenze sociali e culturali, in cui il cinema catastrofico e di fantascienza diventa lo strumento privilegiato per esorcizzare il terrore della distruzione negli Stati Uniti. Una crisi strutturale, quella degli anni Novanta, che in un modo o nell’altro colpisce anche gli autori più illustri del genere: David Cronenberg si allontana progressivamente dall’orrore per abbracciare un cinema più drammatico, così come accade a Sam Raimi, che dopo Army of Darkness del 1993, vira sul western e il drammatico. Il maestro John Carpenter rimane legato al genere, segnando gli anni Novanta con il capolavoro Il Seme della Follia (In The Mounth of madness, 1994), ma come evidenzia Luigi Boccia56, è in questi anni che si accentua la sua difficoltà a reperire i finanziamenti per i suoi film. Molti altri registi sono segnati da un declino o dall’allontanamento dal genere, come Clive Barker, Tobe Hooper o il già citato caso di Romero, che passerà il successivo decennio dopo l’uscita del film La Metà Oscura a lavorare su progetti che non vedranno mai la luce. In questo contesto, in cinema kinghiano è chiamato a adeguarsi a questo clima di incertezza, privo di qualsiasi punto di riferimento forte e condizionato da un mercato che tende sempre più vertiginosamente al rapido consumo serializzato e all’espansione del mercato home video.

Gli anni Novanta rappresentano il momento in cui gli autori e i registi smettono di guardare a King come un punto di partenza per sviluppare un discorso sull’orrore. In questo periodo, il cinema tratto dalle opere dello scrittore del Maine inizia ad incanalarsi lungo la scia tracciata dal film di Rob Rainer Stand By Me e a prediligere quindi la materia kinghiana meno ancorata ai generi. Insieme a Misery, questa tendenza è dimostrata dai già citati Le Ali della libertà, L’ultima Eclissi, L’allievo e il film di Scott Hicks Cuori in Atlantide, uscito nel 2001, che tentava, non senza un’eccessiva approssimazione e prevaricazione della materia di base, di ricalcare i toni dei film di Rainer e Darabont. Giacomo Calzoni57 evidenzia come il cinema kinghiano rappresenti ancora una fonte inesauribile di materiale ed esistano altre due tendenze in merito al suo impiego per il mondo audiovisivo: la prima è quella di trasporre i romanzi-fiume, come IT e L’Ombra dello scorpione, sul piccolo schermo mentre la seconda è rappresentata nuovamente dal cinema di serie minore, che approda sullo schermo

56 L. Boccia, John Carpenter. L'antieroe del cinema americano, Weird Book, Roma, 2020.

57 G. Calzoni, op. cit. p. 93.

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attingendo principalmente dai racconti brevi. Lo dimostrano i film che timidamente guardano al decennio passato, come I Delitti del Gatto Nero, La Creatura del cimitero e l’ultima produzione kinghiana di Dino de Laurentiis: A volte Ritornano. Il primo, film a episodi sulla falsa riga di Creepshow, si collega a Stephen King solo tramite il secondo episodio, che si rivela essere anche il meno convincente per mancanza di ritmo e originalità. Tuttavia, la forma secca e coincisa del segmento a episodio riesce a far emergere quella brillantezza della sceneggiatura, scritta da George A Romero, risparmiando il film all’oblio cinematografico. Diversamente accade con A Volte Ritornano, dove la volontà di rimanere fedeli al materiale di partenza si traduce nell’impossibilità di sostenere la durata di un lungometraggio compiuto. Emerge l’impossibilità per il mestierante McLoughlin di stravolgere e altresì lasciar trasparire la pagina scritta. Le coordinate tracciate da King vengono seguite da una regia anonima e poco ispirata e il risultato finale soffre di un mancato approfondimento di qualsiasi tematica, che appare solo superficialmente abbozzata. Un destino simile avrebbe potuto riguardare anche La Creatura del Cimitero, ma il regista esordiente Ralph S.

Singleton ha la buona intuizione di fermarsi in superficie, realizzando dalla novella Secondo Turno di Notte, un B movie in piena regola che racconta la storia di una fabbrica infestata da ratti e altri abomini. Come scrive Ian Nathan58 quel che più conta qui è creare disgusto, senza tempi morti e un riuscito clima d’attesa, con rimandi estetici alla creatura che rimandano a capolavori come La Cosa e Alien. Un film come La creatura del cimitero rappresenta il fulcro centrale del cinema kinghiano minore: esso può riuscire ad emergere solo se si limita alla superfice della materia di base, senza per forza seguirne pedissequamente i passaggi cercando di approfondire elementi che, per budget limitati o incompetenza registica, risulterebbero intrattabili. Lo dimostra chiaramente il film del 1997 The Night Flier – il volatore notturno, girato dall’esordiente Mark Pavia, che chiude la produzione khingiana degli anni Novanta. Il film, scrive sempre Ian Nathan59, ha il suo massimo pregio nell’atto di porsi in antitesi con il teen-horror che imperversava nella seconda metà del decennio. Lo fa attraverso una messinscena che crea un’atmosfera plumbea e malsana, senza limiti di gore, dove nessun personaggio è degno dell’empatia dello spettatore e il vampiro braccato è qui riportato attraverso le sue fattezze più classiche: mostruoso e purulento. Una parentesi particolare è rappresentata dai film precedenti a The Night Flier, ovvero The Mangler – La macchina infernale del 1995 e il successivo L’occhio del male del 1996. A rendere interessante il primo dei due film citati è la presenza di Tobe Hooper alla regia; una personalità che negli anni Novanta era segnata dal fardello

58 I. Nathan, op. cit. p. 79.

59 Ivi, p. 121.

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di un costante declino60, e che aveva già incrociato il proprio destino con quello di Stephen King nel 1979, girando la miniserie Le Notti di Salem. Giacomo Calzoni61 definisce The Mangler come l’ultimo colpo di coda di un regista che, dopo questa parentesi riuscita solo parzialmente, andrà in contro ai film che porranno definitivamente fine alla sua carriera. Adattando il racconto Il Compressore, che racconta di una macchina posseduta dal diavolo in una lavanderia, Hooper cerca di amplificare il lato più politico del racconto tramite il personaggio di Robert Englund, che rappresenta l’incarnazione del capitalismo sporco e assetato, capace di sacrificare la propria prole al demonio affinché la macchina produttiva vada avanti. Il tasso di violenza e la scenografia, fatta di luoghi malsani e privi di luce, aggiunge molto alla portata di un film in grado di mostrare ancora una ferocia non ancora estinta in Hooper che però non riesce a portare fino in fondo le proprie idee, scadendo in un finale che, nel tentativo di emulare quello di King, risulta involontariamente ridicolo anziché catastrofico e apocalittico. L’occhio del male, tratto invece da Thinner, è un adattamento da un romanzo pubblicato sotto lo pseudonimo di Richad Bachmann, che rappresenta un caso non troppo dissimile al film L’allievo, poiché avviene un’esasperazione di tematiche e intuizioni brillanti che nel romanzo vengono solo suggerite, accostandole a questioni scottanti come la malattia, il contagio e lo spettro dell’AIDS. La storia segue le vicende di Billy Halleck, brillante avvocato in forte sovrappeso che viene colpito da una maledizione che lo porta a perdere peso velocemente fino a scomparire. Il regista Tom Holland, a metà tra propositi autoriali e pragmatiche esigenze produttive, riesce satirizzare l’America più edonista e spregiudicata, mostrando senza filtri volti divorati e sfregiati da malattie e mutazioni, allegoria di un’umanità, avida, ingorda e razzista.

Alla luce di quanto argomentato, il cinema minore tratto da Stephen King si pone dunque come un vasto territorio di produzioni dal sapore artigianale, che oscillano tra il pregevole e il fallimento totale, non senza squarci di rara bellezza e forte spinta artistica, e che spesso centrano il loro obiettivo nel momento in cui scelgono di fermarsi alla superfice della materia kinghiana, trattando i mostri per quello che sono, senza tentare di traslitterarli sullo schermo con la stessa profondità con cui King racconta l’orrore della propria realtà. Una serie di titoli costituita da generi e sottogeneri, che tramite la propria natura di sismografo è in grado di far riflettere sullo stato di salute del cinema, non solo horror, e di tutta la produzione audiovisiva. Parallelamente a questo, il King su schermo si muove su altri due binari, destinati a procedere longevi fino ad oggi: il cinema mainstream, di cui si è già parlato, e tutto quello che concerne il piccolo schermo, la televisione.

60 Le informazioni su Tobe Hooper sono contenute in F. Zanello, Il cinema di Tobe Hooper, Falsopiano, Alessandria, 2002.

61 G. Calzoni, op. cit. p 107.