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Kubrick e King, la doppia visione di Shining

CAPITOLO 4 – Adattamenti e riscrizioni, analisi del mondo audiovisivo kinghiano

4.1 Kubrick e King, la doppia visione di Shining

Il legame che sussiste tra il terzo romanzo di Stephen King e l’undicesimo lungometraggio di Stanley Kubrick è complesso e contrassegnato da numerose sfumature. In prima istanza, si tratta di due opere artistiche che nel momento della loro rivelazione al pubblico, sono state recepite non come tra le migliori dei due autori. Enrico Ghezzi1, ad esempio, nella sua monografia su Stanley Kubrick, comunica un vero e proprio disprezzo per il romanzo, definendolo alquanto «modesto»2, reputando invece il film di Kubrick un punto di svolta per la cinematografia mondiale. Riccardo Aragno3, invece, espande la sua critica negativa anche nei confronti della pellicola del 1980, riportando come per lui si tratti di una caduta di stile. Ad ampliare enormemente gli interventi e gli studi critici su entrambe le opere nel corso degli anni ha sicuramente contribuito l’esplicito risentimento dello scrittore Stephen King nei confronti dell’adattamento kubrickiano. Il demerito del regista è stato quello di trasformare un film caldo, che terminava con il fuoco, in qualcosa di estremamente freddo e distaccato, che chiude la narrazione nel ghiaccio e nel gelo4. L’intento di questa analisi non è quella di innescare un confronto filmologico e filologico tra romanzo e film, bensì analizzare, come suggerisce Daniele Dottorini5, quanto inconciliabili siano l’idea di scrittura e l’idea di cinema che stanno alla base delle due realizzazioni e in che modo Kubrick sia arrivato a dissociarsi così tanto dalla materia originale pur di enunciare la sua poetica di cinema. In On Writing6, Stephen King suggerisce che la propria idea di scrittura si basi sulla creazione di una forte empatia tra scrittore e lettore, in cui la parola, il ritmo, la durata del paragrafo e la costruzione dei dialoghi costituiscono i tasselli e gli attrezzi che sorreggono questo legame spaziotempo reciproco. Come già analizzato nel capitolo precedente, il processo di adattamento che vede un autore approcciarsi alla materia

1 E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro, Milano 1995.

2 Ivi, p. 134.

3 D. Dottorini in G. Calzoni (A cura di) Stephen King dal libro allo schermo, minimum fax, Roma, 2020. p. 42.

4 M. Bozza, Stephen King, Il maestro del terrore, Area 51 Publishing, 2021.

5 D. Dottorini in G. Calzoni (A cura di) op. cit. p. 42-44

6 S. King, On Writing: Autobiografia di un mestiere, Sperling & Kupfer, 2017 Milano, p. 61-63.

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kinghiana, richiede una rimozione dello scrittore dalla sua stessa opera. Una detronizzazione; togliere King da King.

Stanley Kubrick applica uno scarto netto: se c’è qualcosa che le immagini composte dal regista non cercano è proprio quell’empatia che possa legarsi tra i fotogrammi e lo spettatore; si tratta di una torsione funzionale a rispettare una precisa idea di cinema che permea di sé tutte le opere del regista americano. Viene da domandarsi perché proprio questo romanzo e cosa individui Kubrick di così interessante nelle pagine scritte da King.

Il primo elemento su cui è necessario porre l’attenzione è la questione del punto di vista. Il regista vede nello stile letterario applicato da Stephen King l’altro volto della propria concezione di sguardo.

L’idea è quindi quella di ribaltare completamente la prospettiva e costruire un film che si basi profondamente sul concetto di sguardo ma risulti privo di un punto di vista riconoscibile, come invece accade nel romanzo. Nella fattispecie, la struttura classica del libro passa a più riprese dalla terza alla prima persona, accentuando la dimensione soggettiva e immergendo il lettore nei mondi costituiti dalle psicologie dei personaggi, approfonditi anche attraverso la dinamica del flashback. Tutto questo viene rovesciato nella pellicola cinematografia poiché si assiste ad un’incapacità di relazionarsi con un punto di vista preciso. Sempre Enrico Ghezzi7 parla di una miriade di immagini puzzle, frammentate e irrisolvibili, che generano infinite interpretazioni possibili e quindi un mosaico senza una figura uniforme, le cui tessere possono essere isolate, analizzate, intrecciate con le altre o trattate come unici emisferi. Secondo Alessandro Gnocchi8, Stephen King si pone come umanista, interno allo spettatore, Stanley Kubrick si pone come esteta, esterno e relativista.

Stanley Kubrick fa sì che ad essere il punto di vista centrale della narrazione sia la geometria che compone l’Overlook Hotel, produttore di immagini e fulcro vero e proprio del film. Il regista permea il susseguirsi delle immagini con una tecnica specifica, volta ad annullare quel continuo immergersi nella dimensione del male del romanzo, e anzi a stabilizzarsi su una dialettica in bilico tra fluidità e immobilità. Questa caratteristica viene accentuata enormemente dall’utilizzo della steadicam9, attraverso cui si alternano fluidi long take e improvvisi primi piani, frontali e immobili, volti a falsificare la continuità del movimento. Questa particolare macchina da presa viene quindi utilizzata come non-soggettiva di un’entità non umana che mostra costantemente la sua presenza, uno sguardo di un personaggio che però non esiste. Grazie ad essa, tutto si muove nell’hotel e tutto rimane fermo,

7 E. Ghezzi, op. cit. p. 133.

8 A. Gnocchi, I segreti di «Shining». King contro Kubrick, Barney, Milano, 2015.

9 Le informazioni sulla steadicam sono contenuto in G. Brown, «The steadicam and The Shining», in American Cinematographer, agosto, 1980.

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identico a sé stesso. Sempre Daniele Dottorini10 riporta come emblematica la scena in cui la steadicam si muove alle spalle del piccolo Danny, mentre questi si muove sul triciclo tra i corridoi.

L’avanzamento della macchina da presa sembra procedere di pari passo con il personaggio, fino a che Danny non si ferma e l’inquadratura prosegue, per poi interrompersi e trasformarsi in una semi-soggettiva, una sequenza di stacchi rende disorientante la composizione dell’immagine, fino al frame sulle due gemelle e allo stacco netto che cattura Jack Nicholson nel salone. Le inquadrature e la loro composizione risultano quindi in movimento, interrotto da squarci di staticità. Tutto appare quindi ridondante, ma non si tratta di una ridondanza casuale, poiché l’immagine rende chiaro quale sia l’origine di ogni sguardo, ovvero l’albergo stesso. È quindi questo il primo elemento che Kurbick ribalta direttamente da King: la sua visione empatica della narrazione amplificata dalla tecnica viene qui annullata; non c’è empatia, ma solo la potenza del cinema, del dispositivo di creazione e distruzione dell’immagine. Nel romanzo di King, il regista americano vede prima di tutto la possibilità di incarnare in uno spazio architettonico determinato la potenza del cinema e la sua capacità di creare visioni.

I concetti di mobilità e immobilità sono quindi due pilastri su cui si basa la scrittura del romanzo e di conseguenza la trasposizione di Kubrick. Leggendo il romanzo di Stephen King, si nota come l’autore sia in grado di rendere dinamici momenti narrativi in cui i personaggi sono invece immobili.

Questo perché la dimensione dell’umano, dei suoi pensieri e della sua lotta interiore, è la dimensione che maggiormente interessa allo scrittore. Durante l’arco narrativo del romanzo, i personaggi sono limitati nei loro spostamenti, segregati in un hotel e liberi solo nella dimensione del flashback, ma il punto di vista soggettivo adottato da King, consente alla narrazione di assumere un aspetto del tutto dinamico e mobile. L’umano, in un modo nell’altro, si sposta e l’orrore lo segue, generando un itinerario che passa continuamente dai movimenti fisici a quelli psicologici. Per Stanley Kubrick, la visione è opposta: l’immobilità, per il regista, rappresenta la cifra dell’orrore, il segno dell’esistenza di qualcosa che immobilizza il vivente. Si tratta quindi nuovamente di una visione che arriva dall’esterno e che ha nella fissità, nell’idea di non movimento delle cose, la sua portata più grande. I personaggi di Kubrick, paradossalmente, compiono continuamente percorsi all’interno dell’Overlook, ma il loro animo umano è fermo e immutabile, e vige quindi la sensazione che non ci sia alcuno spostamento, nessun avanzamento. Come indica Ian Nathan11, la doppia morte di Jack, nel ghiaccio e nella foto risalente al 1920, è estremizzata dalla fissità della macchina da presa. Il

10 D. Dottorini in G. Calzoni (A cura di) op. cit. p. 51.

11 I. Nathan, Stephen King sul grande e piccolo schermo, Rizzoli 2020, Milano p. 27.

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personaggio di Torrance ha compiuto un itinerario estremo, scandito da un loop temporale che copre sessant’anni, eppure la sua immagine è fissa e immobile.

Va ricordato che Stanley Kubrick nasce come fotografo e scorrendo tra le sue foto12 realizzate in giovinezza si può notare la costante presenza di figure sospese, costrette all’immobilità e caricate di un enorme forza nello sguardo. Per il regista la fotografia diventa «il condensamento della dialettica tra movimento e immobilità»13. Essa si insinua quindi nel film come forma necessaria di una temporalità sospesa, che altro non è che la realtà del male senza fine, destinato a ripetersi in eterno ciclicamente, il male dell’Overlook Hotel.

La differenza sostanziale tra l’opera letteraria e quella cinematografica sta quindi in quel ribaltamento dell’esplorazione empatica in un eccesso di immagine e visione, che per Kubrick rappresenta la vera dimensione del terrore. Il regista priva King della sua forma primigenia per imporre la propria, quella del cinema e dell’immagine, lasciando invariati gli altri elementi alla base.

L’oltreumano è per il regista un elemento onnipresente, manifestato sempre all’esterno delle cose. È possibile individuare questa caratteristica in tutto il cinema del regista americano: come descrive sempre Daniele Dottorini14, esiste l’oltre umano del bambino cosmico in 2001: Odissea nello spazio, della guerra come meccanismo antiumano in Full metal jacket ed Orizzonti di gloria oppure della violenza del desiderio come avviene in Arancia Meccanica o in Eyes Wide Shut. Ogni oltreumano si genera nella filmografia del regista americano tramite l’immagine e lo sguardo esterno, in bilico tra movimento e fissità. Si tratta quindi di una poetica d’autore che Kubrick infonde anche in Shining ed è per questo che è necessario tradire Stephen King, scavalcare la fedeltà alla materia originale in favore di una coerenza artistica che prevede un disegno univoco, ovvero quello del regista stesso.