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King e il cinema mainstream, It e Il miglio verde, due approcci diversi

CAPITOLO 4 – Adattamenti e riscrizioni, analisi del mondo audiovisivo kinghiano

4.2 King e il cinema mainstream, It e Il miglio verde, due approcci diversi

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personaggio di Torrance ha compiuto un itinerario estremo, scandito da un loop temporale che copre sessant’anni, eppure la sua immagine è fissa e immobile.

Va ricordato che Stanley Kubrick nasce come fotografo e scorrendo tra le sue foto12 realizzate in giovinezza si può notare la costante presenza di figure sospese, costrette all’immobilità e caricate di un enorme forza nello sguardo. Per il regista la fotografia diventa «il condensamento della dialettica tra movimento e immobilità»13. Essa si insinua quindi nel film come forma necessaria di una temporalità sospesa, che altro non è che la realtà del male senza fine, destinato a ripetersi in eterno ciclicamente, il male dell’Overlook Hotel.

La differenza sostanziale tra l’opera letteraria e quella cinematografica sta quindi in quel ribaltamento dell’esplorazione empatica in un eccesso di immagine e visione, che per Kubrick rappresenta la vera dimensione del terrore. Il regista priva King della sua forma primigenia per imporre la propria, quella del cinema e dell’immagine, lasciando invariati gli altri elementi alla base.

L’oltreumano è per il regista un elemento onnipresente, manifestato sempre all’esterno delle cose. È possibile individuare questa caratteristica in tutto il cinema del regista americano: come descrive sempre Daniele Dottorini14, esiste l’oltre umano del bambino cosmico in 2001: Odissea nello spazio, della guerra come meccanismo antiumano in Full metal jacket ed Orizzonti di gloria oppure della violenza del desiderio come avviene in Arancia Meccanica o in Eyes Wide Shut. Ogni oltreumano si genera nella filmografia del regista americano tramite l’immagine e lo sguardo esterno, in bilico tra movimento e fissità. Si tratta quindi di una poetica d’autore che Kubrick infonde anche in Shining ed è per questo che è necessario tradire Stephen King, scavalcare la fedeltà alla materia originale in favore di una coerenza artistica che prevede un disegno univoco, ovvero quello del regista stesso.

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vita e ogni inquadratura viene concepita con la precisa idea di animare il romanzo, il secondo, invece, prevede di adeguarsi alla materia in maniera sommaria e superficiale, annullando qualsiasi approfondimento e raccontando una storia che faccia riferimento al mondo kinghiano ma senza spessore ne indagine. Non si tratta, tuttavia, di un procedimento matematico, poiché esistono pellicole che si collocano nel mezzo di questi estremi, né esistono logiche sempre uguali per ogni adattamento.

Analizzando prima il film Il Miglio Verde, e poi in un secondo momento la trasposizione in due parti di IT, sarà possibile osservare le caratteristiche di questi approcci e come essi si leghino ad elementi esterni, plasmandosi talvolta al gusto del pubblico e di conseguenza ad opere e prodotti audiovisivi che non hanno a che fare con Stephen King, ma piuttosto con un disegno produttivo più ampio, volto ad accontentare un certo tipo di intrattenimento.

Uscito nel 1999 e firmato alla regia da Frank Darabont, regista «kinghiano»15 per eccellenza, Il Miglio verde rappresenta la massima essenza della fedeltà alla materia di base. Il regista decide di mettere in gioco una regia che sia il più possibile mimetica e minuziosa, ma allo stesso tempo invisibile e impersonale. Laddove Stanley Kubrick e gli altri autori quasi esageravano con la tecnica e la potenza dell’immagine, la regia di Darabont deve dimostrarsi contenuta e trasparente, combaciando con quanto raccontano le pagine del romanzo. L’atmosfera è costantemente sottotono, di inesorabile attesa, in grado di legare tra di loro i detenuti del braccio della morte e le guardie che accompagnano le loro giornate. King racconta tuttavia secondo un tempo che scorre quieto, segnato dal caldo torrido e una sudorazione costante sul viso dei personaggi, dettagli che amplificano il carattere oppressivo del carcere. La regia lo replica, lo copia, si muove lenta attraverso una macchina da presa che scorre piano, enfatizzando i dettagli con l’uso dei primi piani e focalizzandosi sull’importanza dei dialoghi tramite un montaggio continuo da fuori e dentro le celle. Emblematiche in questo senso, come riportato da Lugi Boccia16, le scene di confronto tra Paul e John, la guardia all’esterno e il gigante all’interno. Entrambi si scambiano battute e il montaggio scandisce continuamente l’alternarsi della conversazione, esattamente come si susseguono i dialoghi scritti su carta, solo quando King si focalizza su un dettaglio (John che tocca Paul sui genitali per guarirlo) allora la macchina da presa si permette a sua volta di catturarlo, staccando dai volti.

La magia nella realizzazione di Frank Darabont sta quindi nella capacità di cogliere sfumature e dettagli, poiché in questi risiede la chiave per mostrare come al centro della narrativa di King ci sia una fascinazione per la resistenza dello spirito umano in condizione di forte logorio. Il braccio della morte, nella sua minimale essenza architettonica, è una prigione nella prigione e allo stesso tempo la

15 Così definito da L. Boccia AA.VV, Il cinema di Frank Darabont, MVM Factory, 2018.

16 Ivi, p. 56.

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metafora di un viaggio della vita, e perché questo viaggio abbia senso, è necessario che ogni essere umano conosca la realtà delle cose e dell’orrore insito nella realtà. Di assoluta importanza è quindi la capacità del cinema di confarsi alla pagina letteraria, mostrando John Coffee per come era stato concepito da Stephen King. Non un guaritore, bensì un «mediatore»17, un uomo in grado di separare e ridistribuire. Attraverso la scena dell’uccisione di Wild Bill, enfatizzata da un montaggio serrato nel momento dell’uccisione, sospeso per qualche istante grazie ai precedenti due primi piani che vedono prima la giardia inespressiva e poi il vaneggiamento ebbro di Wild Bill, Darabont enfatizza la parentesi di male e violenza che è propria anche di John Coffee. Nella scrittura de Il Miglio verde, la volontà di Stephen King era raccontare come il male fosse insito nella natura stessa della realtà, insidiato negli angoli più nascosti dell’animo umano e allo stesso tempo onnipresente e visibile alla luce del sole. La realizzazione di Darabont si muove esattamente su questo piano: si respira una pesantezza amara nel film, anche nelle scene al di fuori del braccio della morte, e allo stesso tempo, la regia si muove e indaga da vicino, nelle stanze, sui volti e nei ricordi, isolando il male e catturandolo in immagine, come il ghigno malefico di Wild Bill e l’urlo disperato di John Coffee.

Questa capacità così singolare di Frank Darabont di cogliere il dettaglio, attraverso una macchina da presa consapevole e di ampio respiro, si individua anche negli altri lavori del regista che lo vedono coinvolto negli altri adattamenti da Stephen King. Le Ali della libertà e The Mist rappresentano due poli opposti: un dramma personale di fuga e redenzione il primo e uno sci-fii corale claustrofobico e di assedio, segnato dal fallimento, il secondo. Eppure, il tocco di Darabont riesce a cogliere in entrambi i casi la volontà dello scrittore. Questo perché il regista è in grado e soprattutto e disposto a adattarsi, comunicando quello che voleva comunicare King nella sua narrazione, alle volte riducendo, altre volte potenziando, ma sempre rimanendo fedele. Frank Darabont potrebbe così paradossalmente essere considerato a sua volta un autore, un autore kinghiano inconfondibile e capace di lasciar parlare lo scrittore? Come spiega Ian Nathan18 parlando di Darabont, ma anche di altri registi come Rainer e Synger, quello che differenzia i solidi professionisti da personalità eccentriche come Stanley Kubrick o David Cronenberg, è il rispetto della poetica originale. Darabont non vuole comunicare una sua visione delle cose, così come non intende farlo Rainer, ma vuole far sì che la poetica di Stephen King prenda vita e diventi immagine. Nel caso degli autori, come si è detto, King non ha più voce in capitolo, non c’è traccia della sua visione delle cose, perché questa è stata detronizzata dalla poetica del regista.

17 Espressione utilizzata da M. Lazzarotto Muratori in G. Calzoni, (A cura di), op. cit. p. 140.

18 I. Nathan, op. cit. p. 111.

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Queste argomentazioni cambiano radicalmente il proprio profilo quando si assiste ad una trasposizione come IT, appartenente allo stesso emisfero, ma dal risvolto opposto. Il film di Andy Muschietti, uscito nel 2017, esemplifica al meglio quello che Pier Maria Bocchi definisce un

«autocitazionismo fine a sé stesso e la cinefilia commerciale senza sbocchi»19. Un adattamento disastroso, caratterizzato da quella pratica di approccio alla materia superficiale e senza alcun tipo di approfondimento. Come evidenziato sopra, il merito del film di Darabont era di cogliere e analizzare le sfumature e i dettagli presenti in un libro denso di avvenimenti e far sì che trasparissero sullo schermo, comunicando allo spettatore la poetica di King per immagini. Diviso in due parti nettamente distinte per ovvi motivi di incasso, la produzione del film IT, firmata dalla Warner Bros ha origine, con tutta probabilità, da quel rinnovato clima di clownfobia che terrorizza gli Stati Unita già nell’agosto del 201620 e vede il regista argentino alle prese con un testo ancora più complesso di quanto potevano essere quelli trasposti da Frank Darabont o dagli altri solidi professionisti. It è considerato, quasi all’unanimità, il capolavoro di Stephen King; un romanzo-fiume la cui portata allegorica sconfina in più tematiche, dall’essenza del male, al razzismo fino alla complessità della dimensione infantile.

Uno degli elementi che hanno compromesso la riuscita della trasposizione è stata sicuramente la scelta di dividere l’adattamento in due parti nettamente separate a livello cronologico. Mentre nel libro, le sfumature e i dettagli emergono soprattutto grazie all’abilita dello scrittore di intrecciare con fluidità le due narrazioni, il primo capitolo dell’IT di Muschietti si incentra quindi esclusivamente sugli eventi che coinvolgono i protagonisti da ragazzini, ma frana rovinosamente nel trasportare tutte le vicende dal 1957 al 1989. Questa scelta è dettata dalla volontà di inserire un film destinato all’incasso stellare nella scia del recente revival della cultura anni Ottanta. È impossibile non notare numerose similitudini tra le scene che riprendono i ragazzini del gruppo dei perdenti e le avventure dei personaggi della serie Stranger Things, che secondo Andrea Pirruccio21 rappresenta proprio l’apoteosi di questo rinnovato interesse per la cultura di quella decade così determinate per la cultura popolare. Ma se una scelta del genere può considerarsi legittima, giacché altre volte King è stato tradito, seguire alcuni avvenimenti presenti nel libro senza tener conto dello slittamento temporale ha portato innegabilmente certe situazioni a risultare decontestualizzate e prive della stessa importanza della controparte cartacea. Un esempio è la gravità di certi atti di bullismo: risulta piuttosto difficile

19 P.M Bocchi, Brivido caldo. Una storia contemporanea del neo-noir, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2019, p. 7.

20 Per approfondimenti sul concetto della clownfobia si veda L. Boccia, Chi è Penniwise? Weird Book, Roma, 2016 p.

61-67 e I. Nathan, op. cit. p. 190.

21 A. Pirruccio in G. Calzoni (A cura di) op, cit. p. 179.

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credere che alla fine degli anni Ottanta un ragazzino di tredici anni possa incidere una lettera nella pancia di un coetaneo senza che la giustizia faccia il proprio corso così come i preconcetti sul razzismo, che obbligano il personaggio di Mike a lavorare nella fattoria, risultano innegabilmente ingiustificati. La regia di Muschietti plana quindi frettolosa sopra gli avvenimenti, con un montaggio rapido e nessun avvicinamento alle dinamiche tra i personaggi. Le uniche sfumature che si riescono a cogliere riguardano il tentativo, in parte riuscito, di restituire ai bambini kinghiani la propria identità cartacea. Uno dei pregi dello scrittore del Maine e della sua abilità nel narrare l’infanzia, è quella di sbattere in faccia al lettore il bambino che probabilmente ognuno di noi è stato, con i suoi lati chiari, oscuri e sporchi. I bambini di King puzzano, sudano, hanno un linguaggio scurrile e sanno essere crudeli e conflittuali. Osservando il capitolo primo dell’adattamento firmato dal regista argentino, si potrebbe affermare che i bambini del film siano veri come quelli del romanzo. Questa fedele rappresentazione dei giovani perdenti viene però completamente annullata quando si tratta di mettere in scena il loro confronto con quella malvagità primordiale rappresentata da Pennywise, in cui la regia mostra tutto il suo essere approssimativa. Muschietti, scrive sempre Andrea Pirruccio22, sembra saccheggiare l’immaginario dell’orrore altrui, tenendosi a distanza dalle descrizioni kinghiane, per ovviare ad una mancanza di inventiva. Il clown di Bill Skasgard appare come un contorto connubio tra un’estetica rinascimentale e un’iconografia medievale, un impatto visivo che viene paradossalmente rovinato dalla possibilità di sfruttare in maniera massiccia la CGI. Si sceglie quindi di richiamare il macabro orientale, la plasticità delle creature carpenteriane e qualche atmosfera dell’esordio cinematografico del regista rappresentato da La madre, ma in queste manifestazioni dell’orrore non c’è traccia di quelle allegorie che invece permeano il romanzo di Stephen King. Ad essere svuotata di tutta la sua portata tematica è proprio la creatura IT, ridotta qui ad un villain macchiettistico estraneo a qualsiasi origine cosmica e lovecraftiana. Nel romanzo, il mostro rappresenta la malvagità assoluta, spettro di qualsiasi fallimento o ingiustizia e nella narrazione cartacea traspare evidente come essa sia intrinseca in ogni situazione quotidiana vissuta dai Perdenti e come sia in realtà un unico organismo che unisce a sé la città e i suoi abitanti. Se in IT capitolo due, non c’è alcuna traccia di questo elemento, nella prima parte una scena può effettivamente richiamare questo meccanismo: si tratta della scena dello scontro fisico e mentale tra Beverly Marsh e il padre, in cui la macchina da presa si colloca in prossimità dei volti dei personaggi, scandendo le espressioni e i ghigni di sogghignante rabbia sul volto del padre e la reazione della figlia. Il montaggio è meno serrato rispetto alle altre scene, e nel lungo carrello che inquadra la vasca da bagno si manifesta efficacemente la tensione in grado di comunicare come dietro l’uomo ci sia il mostro e viceversa,

22 Ivi, p. 181.

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lasciando supporre quasi una morbosità di carattere sessuale. Si tratta, tuttavia, di un lampo febbricitante, una parentesi destinata a non ripetersi e a perdersi in un montaggio ripetitivo, segnato in principio dal meccanismo «bambino-clown-jumpscare» attraverso cui vengono presentati i giovani protagonisti.

Il Miglio verde e i due capitoli dell’adattamento di IT rappresentano due estremi dello stesso insieme: uno riuscito, efficace, e l’altro disastroso. L’intento è lo stesso, ma cambia l’approccio, profondo e di ampio respiro nel primo caso, approssimativo e fin troppo serrato nel secondo. Esistono poi film che si collocano in una via di mezzo tra questi due estremi. Film gradevoli, passabili, oppure semplicemente modesti. Il cinema ad alto budget di King si muove su una linea i cui estremi sono rappresentati da opere similari a quelle citate. Il modo in cui viene trasposta La Torre nera, ad esempio, prevede lo stesso meccanismo fallimentare applicato in IT, così come l’occhio rivelatore del mondo kinghiano della macchina da presa di Frank Darabont può essere considerato affine a quello di Rob Rainer che osserva da vicino i meccanismi conflittuali tra Anne Wilks e Paul nella trasposizione di Misery. Tutto il già citato cinema delle mancanze tratto da Stephen King, potrebbe collocarsi nel pieno centro di questo meccanismo. Tentativi in parte riusciti di far parlare lo scrittore tramite le immagini, senza riuscire a far emergere la sua voce, ma senza neanche ridurlo alla stregua del silenzio.