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Mostri assetati di sangue, il cinema minore di Stephen King

CAPITOLO 4 – Adattamenti e riscrizioni, analisi del mondo audiovisivo kinghiano

4.3 Mostri assetati di sangue, il cinema minore di Stephen King

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lasciando supporre quasi una morbosità di carattere sessuale. Si tratta, tuttavia, di un lampo febbricitante, una parentesi destinata a non ripetersi e a perdersi in un montaggio ripetitivo, segnato in principio dal meccanismo «bambino-clown-jumpscare» attraverso cui vengono presentati i giovani protagonisti.

Il Miglio verde e i due capitoli dell’adattamento di IT rappresentano due estremi dello stesso insieme: uno riuscito, efficace, e l’altro disastroso. L’intento è lo stesso, ma cambia l’approccio, profondo e di ampio respiro nel primo caso, approssimativo e fin troppo serrato nel secondo. Esistono poi film che si collocano in una via di mezzo tra questi due estremi. Film gradevoli, passabili, oppure semplicemente modesti. Il cinema ad alto budget di King si muove su una linea i cui estremi sono rappresentati da opere similari a quelle citate. Il modo in cui viene trasposta La Torre nera, ad esempio, prevede lo stesso meccanismo fallimentare applicato in IT, così come l’occhio rivelatore del mondo kinghiano della macchina da presa di Frank Darabont può essere considerato affine a quello di Rob Rainer che osserva da vicino i meccanismi conflittuali tra Anne Wilks e Paul nella trasposizione di Misery. Tutto il già citato cinema delle mancanze tratto da Stephen King, potrebbe collocarsi nel pieno centro di questo meccanismo. Tentativi in parte riusciti di far parlare lo scrittore tramite le immagini, senza riuscire a far emergere la sua voce, ma senza neanche ridurlo alla stregua del silenzio.

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tutto quello che concerne l’adattamento di un romanzo nell’ottica del cinema minore, quell’insieme all’ombra dei giganti, che tuttavia rappresenta un vastissimo sottobosco audiovisivo di radicale importanza.

Il romanzo di Cujo si pone come il secondo romanzo ambientato nella cittadina immaginaria di Castle Rock, e facente parte della serie che comprende La zona morta (1979), La metà oscura (1989), Cose preziose (1991), il racconto Il corpo (in Stagioni diverse, 1988) e altri racconti brevi pubblicati in svariate raccolte. I romanzi e racconti ambientati a Castle Rock possiedono tutti un filo conduttore, in alcuni casi esplicito, in altri più difficile da percepire, ma in ogni caso, ogni opera è pregna di rimandi alle altre, creando così un reticolo tematico il che permette un’analisi approfondita di ogni aspetto che interessi alla poetica di Stephen King.

Il romanzo in questione pone al centro il tema della morte, elemento che viene accentuato da una conclusione verosimile poiché essa non lascia alcuna speranza e costringe i due personaggi principali ad affrontare il resto della loro esistenza con la consapevolezza di aver perso quanto di più prezioso avevano: il figlio di quattro anni. Inoltre, Stephen King non si limita a porre il lettore di fronte a una situazione tragica, ma gli trasmette inconsciamente l’idea che siano state proprio le paure dei genitori a causare la morte involontaria del loro unico bambino. Il cane rabbioso è prima di tutto uno strumento, utilizzato nel romanzo per generare situazioni che pongano i protagonisti in condizioni estreme. Attraverso di esso si potrebbe affermare che l’autore non cerca soltanto di mettere in evidenza la fragilità umana e le paure di cui ognuno dei personaggi è vittima ma anche la fatalità di determinati eventi il cui decorso sembra dettato dalle scelte, consce o inconsce, che essi compiono.

Cujo è quindi l’allegoria del destino crudele. Quando la protagonista Donna si trova faccia a faccia con il San Bernardo idrofobo, non è l’animale che vede, ma quello che si nasconde dietro ad esso, un essere che l’ha aspettata per tutta la vita, una forza della natura con un unico scopo, inesorabile. Di conseguenza anche la morte del bambino nel finale ha un suo scopo preciso, quello di dimostrare che i mostri esistono e che negarne l’esistenza, purtroppo, non serve a nulla.

Insieme alla morte, King osserva da vicino anche la tematica della paura: Il piccolo Tad Trenton ha paura dell’ipotetico mostro nascosto nel proprio armadio; Vic Trenton ha paura di perdere il lavoro perché coinvolto, insieme al collega Roger, nella pubblicità di un prodotto che si è rivelato pericoloso per la salute; Charity Camber teme che il marito manesco finisca per fare del male al figlio Brett;

Steve Kemp ha paura d’invecchiare e di non essere più così seducente per le donne; Gary Pervier, veterano di guerra, combatte ogni giorno con i fantasmi del suo passato e Donna Trenton è afflitta da un perenne sentimento di paura nei confronti di ogni singolo evento della sua vita: il trasferimento in un’altra città; l’amante che non si allontana da lei; il tempo che passa inesorabile; il bambino che cresce e non sta più sempre con lei; un marito poco presente e, ovviamente, il cane Cujo. In un

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passaggio del libro, Vic Trenton chiede alla moglie le ragioni del tradimento e lei risponde con un discorso che riassume bene il senso di vuoto percepito:

«Gli uomini… loro sanno che cosa sono. Loro hanno un’immagine di quello che sono. Non riescono mai a essere all’altezza del loro ideale e ciò li distrugge e forse è la ragione per cui tanti uomini muoiono infelici e prima del tempo, ma almeno sanno che cosa dovrebbe voler dire essere adulti. Hanno degli obiettivi, per i trent’anni, per i quaranta, i cinquanta. Loro non sentono il vento, oppure, se lo sentono, si trovano una lancia e ci combattono contro, pensando che sia un mulino o qualche altra diavoleria che va fatta fuori. Mentre quello che fa una donna, quello che ho fatto io, è stato di ritrarmi, di sfuggire alla trasformazione. Mi spaventava il silenzio della casa, quando Tad era fuori. Una volta […] ho creduto per un istante che dal ripostiglio di Tad sarebbe venuta fuori Joan Brady, senza la testa e con il sangue sui vestiti e mi avrebbe detto: ‘Sono morta in un incidente d’auto a diciannove anni mentre tornavo dalla pizzeria e non me ne frega niente»25.

Al contrario, il marito esorcizza le proprie paure cercando il più possibile di ignorarle e di fingere che tutto vada bene:

«Se un uomo attraversa una stanza buia dove c’è una voragine, se ci passa a pochi millimetri non c’è bisogno che sappia che c’è mancato un pelo a cascarci dentro. Non c’è bisogno d’avere paura. Basta che le luci restino spente»26.

Nel romanzo, in mezzo al contrasto emotivo tra i due personaggi, si inseriscono i pensieri del cane.

Una psiche che Stephen King dipinge come una vittima degli eventi, un docile animale da compagnia trasformato suo malgrado in mostro. Il San Bernardo nasce come un essere educato a rispettare certe regole ma che ad un certo punto si trova, di colpo, indotto a infrangerle. Il cane, in quanto tale, non è in grado di gestire le proprie emozioni e segue unicamente l’istinto. Eppure, nella follia causatagli dalla malattia è come se convogliasse tutte le paure degli abitanti di Castle Rock per poi farle esplodere verso l’esterno. Cujo diventa la personificazione dei loro peggiori incubi, quegli incubi che per anni li hanno tormentati e che non hanno mai avuto il coraggio di affrontare. Tad Trenton non può sconfiggere il mostro perché è un bambino e non ha sufficiente

25 Stephen King, Cujo, Speling & Kupfer Editori, Milano 1983, traduzione di Tullio Dobner, pp. 113-114.

26 Ivi, p. 98.

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conoscenza del mondo, ma nemmeno sua madre può riuscirci, perché quel mondo che conosce benissimo non ha mai imparato a dominarlo. Alla luce di questa analisi, risulta evidente come Cujo si ponga in continuità con tutta la bibliografia kinghiana: l’incipit oscilla tra l’horror e il thriller ma l’approfondimento tematico non ha niente da invidiare rispetto agli altri lavori del re del brivido. L’adattamento cinematografico che ne è stato tratto stravolge notevolmente il significato di fondo, poiché non si limita a cambiare il finale ma fornisce un’interpretazione diversa degli eventi narrati nel romanzo, approcciandosi ad esso con tutt’altra pretesa.

Il regista Lewis Teague adatta il romanzo di King cosciente di non poter approfondire la portata tematica tanto quanto richiesto da una trasposizione che ne analizzi ogni sfumatura e concetto.

Il film si avvale di una struttura semplice: un lungo preludio e poi l’esplosione di violenza. La seconda parte, in particolare, si incentra quasi tutta intorno a un’ammaccata Ford Pinto, in cui la protagonista Donna e il figlio vengono assediati dal cane idrofobo, tramite una serie di attacchi montati e orchestrati in maniera impeccabile.

Il regista evita, tuttavia, di limitarsi a raccontare una banale storia di mostri assassini e fa sì che la storia del San Bernardo idrofobo si inserisca in un contesto più ampio, mettendo in scena una reazione agli orrori più concreti e reali della vita dei personaggi. Applica questo approccio in maniera efficace: rispettando tutti i limiti di un cinema di genere puro e semplice, basilare e privo di interesse, sempre consapevole di non poter ricreare con fedeltà la pagina scritta. Si ferma quindi alla superfice, non approfondisce la complessità dei rapporti umani, né applica il punto di vista dell’animale come invece accade nel romanzo. Cujo diventa quindi quello che apparentemente è, ovvero un cane idrofobo assassino, attraverso cui il regista racconta come il peggior nemico dell’uomo sia, in fondo, l’uomo stesso. Da qui i drastici cambi presenti nella sceneggiatura: la morte di Tad, nel finale, avrebbe perso tutto il significato acquisito nel libro. Per questo motivo il bambino si salva e la madre, pur essendo sempre sopraffatta dalle sue paure, riesce a reagire in tempo e a trasformarsi in un’eroina. L’evoluzione psicologica della protagonista è qui al centro della narrazione: Donna Trenton acquisisce anche caratteristiche che nel romanzo non possiede:

la sua forza interiore ha la meglio sulle sue fragilità e sulla difficoltà della situazione; dopo tre giorni di assedio dal San Bernardo, Donna capisce che se qualcuno deve salvarla, è lei stessa; lei e il figlio sopravvivono non per l’intervento tempestivo di un uomo ma grazie al coraggio e all’autostima di una madre sola. Nel rappresentare tutto questo, Lewis Teague realizza un film vigorosamente privo di sentimentalismo. La freddezza contemplativa dell’inizio del dramma è spazzata via dalla feroce violenza, resa ancora più credibile da tutto il gusto artigianale ed effettistico impiegato nella realizzazione: quattro cani addestrati, con cui nessuno può interagire a macchina da presa spenta, che si alternano a pupazzi meccanici e ad un uomo vestito da San

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Bernardo. Ognuno di loro ha il muso ricoperto di albumi d’uovo e zucchero per simulare la bava della rabbia27. Come in Alligator, precedente opera da lui firmata, Lewis Teague adopera una regia pulita e invisibile, funzionale ad un montaggio che renda ben orchestrati e al cardiopalma gli attacchi di Cujo ed esasperi tutto il gore richiesto dalle scene di violenza.

Tra i mostri assetati di sangue che rappresentano i protagonisti di tutto il cinema minore tratto da Stephen King si collocano anche i morti viventi, o una visione di essi, come avviene nel caso di Pet Sematary. Si è già discusso di come il romanzo di King scritto nel 1984 rappresenti una angosciosa riflessione sul tema del lutto e della perdita, oltre che sull’ineluttabilità del dolore e di come l’efficacia della dimensione orrorifica venga perfettamente rappresentata da tutti quei dettagli e sfumature che rappresentano l’essenza di ogni storia narrata dallo scrittore. Sarebbe stato quindi impossibile per la trasposizione realizzata da Mary Lambert caricarsi di una portata tematica simile, ma questo è un limite che neanche lo stesso King probabilmente era consapevole di dover riconoscere. Questo elemento va sottolineato poiché la sceneggiatura porta la firma dello scrittore stesso, che ha qui modo di essere in larga parte fedele al proprio testo, ignaro che la sua parola sullo schermo sia destinata a rimanere in parte silenziosa. Quella che su carta era una riflessione sullo smarrimento e l’incomprensibilità difronte al ciclo delle cose attuata tramite l’indagine psicologica, diventa qui una gradevole pellicola dell’orrore dalle atmosfere inquietanti e dalle sequenze ben orchestrate, ma senza alcuna velleità o attenzione al dettaglio. Si potrebbe parlare del film Cimitero Vivente come uno zombie-movie in piena regola, distante dalle tematiche politiche e dall’estetica romeriana (che avevano visto il loro apice nel 1985 con Day of the dead) e più vicino ad una costruzione drammatica e romantica, un horror quasi da camera, che «sembra chiudere un decennio di drammi famigliari e di lacrima movies con un ghigno cadaverico che non lascia molte speranze»28. Giacomo Calzoni29 paragona le atmosfere e le dinamiche di Cimitero vivente a quelle del film Deathdream di Bob Clark, o al più modesto e commediale House, diretto da Steve Miner, dove in quattro mura e attraverso pochi personaggi, si consumano dinamiche che vedono i rapporti famigliari o amichevoli (come nel caso di House) compromessi dal ritorno di qualcuno dalla morte.

Si potrebbe pensare di suddividere le produzioni del cinema minore kinghiano in due emisferi separati: da un lato le produzioni degli anni Ottanta, dall’altro il secondo blocco relativo agli anni Novanta. Si è già discusso di come il secondo decennio preso in considerazione sia stato segnato

27 Gli approfondimenti sui dettagli relativi alla realizzazione di Cujo sono contenuti in I. Nathan, op. cit. p. 33

28 P.M Bocchi, Invasion Usa, cit., Bietti Heterotopia, Milano, 2016, p. 91.

29 G. Calzoni in G. Calzoni (a cura di) op. cit. p. 87.

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da un innegabile crisi del cinema horror e di come questo lato abbia influenzato enormemente anche gli adattamenti da Stephen King. Il mercato audiovisivo, sempre più vorace e ramificato, si amplia e necessita continuamente di materiale da proporre ad un sempre più crescente numero di spettatori. Ogni produzione proveniente dal materiale dello scrittore viene concepito con l’idea esisterà sempre una nicchia di pubblico pronta ad assorbirlo. È probabilmente in questo contesto che si collocano anche le produzioni dal risultato più incerto, se non talvolta rovinoso, che applicano lo stesso principio visto in Cujo, ma falliscono, o hanno i maggiori limiti, proprio nella messinscena. Tra i tanti che si potrebbero citare, La Creatura del cimitero potrebbe rappresentare un esempio emblematico. Laddove il racconto, riporta Giacomo Calzoni30, si poneva come un omaggio esplicito al romanzo I Topi di James Herbert, oltre che un divertissement di Stephen King ricco di fantasiose sfaccettature contro cui inveisce contro i ratti e il mondo che dominano, il film diretto da Ralph S. Singleton si pone come un B-Movie in piena regola, privo di qualsiasi velleità, che tenta di mantenere alta una tensione forse fin troppo evanescente, visti gli evidenti limiti di budget e l’impossibilità di mostrare da subito il fulcro della narrazione, ovvero la creatura mutante.

Il risultato è quindi una riuscita sensazione di disgusto godibile per quegli spettatori appassionati, ma che conserva di King solo il nome e l’incipit, spostando tutto secondo le coordinate di un cinema minore. Il quesito da porsi per riconoscere le dinamiche del cinema minore è quindi cosa sarebbe accaduto se a maneggiare quella creatura ci fosse stato John Carpenter, o se l’idea contenuta nel racconto Secondo turno di notte fosse stata adattata da una grande produzione.