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I molteplici volti di Stephen King sul piccolo schermo

CAPITOLO 4 – Adattamenti e riscrizioni, analisi del mondo audiovisivo kinghiano

4.4 I molteplici volti di Stephen King sul piccolo schermo

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da un innegabile crisi del cinema horror e di come questo lato abbia influenzato enormemente anche gli adattamenti da Stephen King. Il mercato audiovisivo, sempre più vorace e ramificato, si amplia e necessita continuamente di materiale da proporre ad un sempre più crescente numero di spettatori. Ogni produzione proveniente dal materiale dello scrittore viene concepito con l’idea esisterà sempre una nicchia di pubblico pronta ad assorbirlo. È probabilmente in questo contesto che si collocano anche le produzioni dal risultato più incerto, se non talvolta rovinoso, che applicano lo stesso principio visto in Cujo, ma falliscono, o hanno i maggiori limiti, proprio nella messinscena. Tra i tanti che si potrebbero citare, La Creatura del cimitero potrebbe rappresentare un esempio emblematico. Laddove il racconto, riporta Giacomo Calzoni30, si poneva come un omaggio esplicito al romanzo I Topi di James Herbert, oltre che un divertissement di Stephen King ricco di fantasiose sfaccettature contro cui inveisce contro i ratti e il mondo che dominano, il film diretto da Ralph S. Singleton si pone come un B-Movie in piena regola, privo di qualsiasi velleità, che tenta di mantenere alta una tensione forse fin troppo evanescente, visti gli evidenti limiti di budget e l’impossibilità di mostrare da subito il fulcro della narrazione, ovvero la creatura mutante.

Il risultato è quindi una riuscita sensazione di disgusto godibile per quegli spettatori appassionati, ma che conserva di King solo il nome e l’incipit, spostando tutto secondo le coordinate di un cinema minore. Il quesito da porsi per riconoscere le dinamiche del cinema minore è quindi cosa sarebbe accaduto se a maneggiare quella creatura ci fosse stato John Carpenter, o se l’idea contenuta nel racconto Secondo turno di notte fosse stata adattata da una grande produzione.

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schermo. La struttura del secondo romanzo di King, Salem’s Lot, plasmata direttamente dall’influenza di Dracula, aveva attirato da principio l’attenzione dell’autore George Romero, ma la produzione, in mano a Richard Kobritz31, scelse alla fine il regista dell’orrore Tobe Hooper che aveva a sua volta colpito lo stesso Stephen King dopo il film Non aprite quella porta, del 1973. Era quindi destino che a adattare la storia di una cittadina sperduta del Maine invasa dai vampiri dovesse essere in qualche modo un autore in grado di fare della scrittura di King un punto di partenza per veicolare poi la propria poetica e la propria idea di cinema e Tobe Hooper vede nella storia in questione molti elementi in comune con il proprio profilo registico. Scavalcando forse meno Stephen King di quanto avrebbero fatto altri autori pochi anni dopo la realizzazione de Le Notti di Salem, Hooper realizza una pellicola fortemente personale, in cui ad ogni inquadratura si percepisce il senso di smarrimento nell’aggirarsi in una cittadina sperduta e dimenticata da tutti. Esattamente come nei meandri del Texas visti nel capolavoro Non aprite quella porta, autorità e regolamenti sembrano non arrivare nella cittadina di Jerusalem’s Lot, dove vige un caos silenzioso, in cui tutti sanno tutto, ma nessuno agisce, soprattutto durante l’epidemia di vampirismo finale.

Viene ridotto l’intreccio narrativo basato sui rapporti tra i personaggi, tanto che il personaggio di Susan Norton esce di scena quasi all’improvviso, e appena accennato il concetto che il vero vampiro sia scrittore protagonista Ben Mears, che guadagna e quindi si nutre delle disgrazie altrui; dominano invece un incondizionato senso gotico di terrore esasperato da una macchina da presa che «è quasi sempre in movimento»32. Il vampiro Kurt Barlow, fulcro dell’orrore, viene modellato da Hooper sul modello del Nosferatu di Frederich Murnau e diventa nel film un essere silenzioso, che non pronuncia alcuna battuta e sibila in maniera stridente. Il senso di terrore generato dal mostro assume così un profilo simile a Leatherface33, che nel precedente lavoro di Hooper non è in grado di parlare, emette solo lamenti e mugolii e la sua pericolosità risulta proporzionale all’incapacità di esprimersi. Come indicato sempre da Giacomo Calzoni34, Tobe Hooper decide di lavorare sulla presenza di Barlow per sottrazione, distillando con parsimonia le sue apparizioni e lasciando intuire la sua presenza anche laddove la macchina da presa non lo cattura direttamente. Ad essere complice di tutto questo meccanismo è la scenografia, che si muove tra omaggi indiretti a Psyco e interni che in un certo senso anticipano quello che sarà poi l’Overlook Hotel dell’anno successivo in Shining. Casa Marsten è il

31 I dettagli sulle vicende produttive di Le Notti di Salem sono contenute in I. Nathan, op. cit. p 20.

32 Ivi, p. 20.

33 Per approfondimenti sul cinema di Tobe Hooper si veda F. Zanello, Il cinema di Tobe Hooper, Falsopiano, Milano, 2002.

34 G. Calzoni in G. Calzoni (A cura di) op. cit. p. 209.

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nido del male, che attira uomini del male e che genera a sua volta il male. Proprio come analizzato in merito alla creazione di Stanley Kubrick, la scenografia del nido in cui vive il vampiro Kurt Barlow è generatrice di immagini e di terrore. Le scene negli interni risultano maggiori di quanto vorrebbe il romanzo di King, e ogni volta che la macchina da presa si insinua nel covo dei vampiri, momenti dinamici si alternano ad altri statici, generando nello spettatore un senso di spaesamento del tutto simile a quelle riprese mosse e dalla fotografia sgranata a cui si era assistito, ancora una volta, nel capolavoro di Hooper del 1973. I limiti del medium televisivo impediscono al regista di far esplodere l’orrore in tutta la sua potenza, ma già l’estetica dei vampiri risulta un audace attacco nei confronti di una censura che ai tempi si dimostrava sicuramente più restrittiva rispetto a quella odierna.

Le Notti di Salem rappresenta quindi una parentesi unica. Non soltanto per l’impronta autoriale firmata da Tobe Hooper ma anche perché si tratta della prima trasposizione destinata al medium televisivo. Bisognerà attendere il 1990 prima che approdi sul piccolo schermo un’altra trasposizione che si basi su un’opera di Stephen King. In quegli anni, il format della miniserie televisiva risulterà lo stratagemma ideale per l’adattamento di quei libri definibili come inadattabili, a causa della loro complessità e lunghezza. I romanzi fiume come L’ombra dello scorpione e IT hanno rappresentato un’attrazione per molti registi e autori, tra cui spicca sempre il nome di George Romero, e si collocano nella storia degli adattamenti kinghiani come tentativi di seconda mano di nutrire un mercato che necessita costantemente di prodotti che arrivino dalla mente dello scrittore del Maine. È quindi questa una delle possibili declinazioni dei lavori di Stephen King sul piccolo schermo, o almeno lo è stata per un arco di tempo di oltre un decennio: una sorta di secondo cinema in cui continuare in qualche modo a sfruttare la popolarità dello scrittore adattando le opere minori, i racconti contenuti nelle varie raccolte e, paradossalmente, i romanzi più lunghi e complessi. Tutte queste opere sono accomunate da un approccio alla materia non troppo dissimile da quello osservato nel cinema minore tratto dallo scrittore del Maine. I limiti alla riuscita delle pellicole risultato dovuti, innanzitutto, alla ristrettezza del budget e, in secondo luogo, all’impossibilità di poter procedere diversamente. Nel 1990 non c’era altro modo di trasporre sullo schermo Pennywise, se non tramite la miniserie che vede Tim Curry nel ruolo di clown assassino, annullando qualsiasi portata tematica e riducendosi alla superfice, con la conseguenza che anche la quantità di violenza contenuta nel romanzo viene limitata da una censura che nel 1990 era sicuramente più intrusiva di quanto potesse esserlo al cinema. La miniserie di It non è quindi un’indagine allegorica sulla dimensione dell’infanzia, né tantomeno un riflesso della società americana delle piccole cittadine o sulla circolarità del male, e non si pone neanche l’obiettivo a priori di esserlo. Rappresenta, invece, un metodo secondario ma sempre valido per trasporre nuovamente King, non preoccupandosi di dover essere fedele al materiale originale; di esso, infatti, rimane iconica

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solo «l’incarnazione più riuscita del burlone psicopatico Pennywise»35, di Tim Curry. È interessante notare come le logiche produttive della televisione dipendessero in larga parte dal medium cinematografico, elemento che si rivelerà pressoché inesistente con l’evoluzione del piccolo schermo:

Giacomo Calzoni36 riporta che l’allora vicepresidente della network ABC Allen Sabinson ritenne che a decretare la produzione della miniserie su IT fosse stato il successo cinematografico delle pellicole Cimitero Vivente e Stand By Me – Ricordo di un’estate. A sua volta, l’inspiegabile successo della produzione televisiva con protagonista Pennywise contribuì a fomentare l’interesse per Stephen King, sia sul grande che sul piccolo schermo. Seguirà poi oltre un ventennio di produzioni televisive che tra film tv e serie di stampo generaliste manterranno vivo il nome di Stephen King sul piccolo schermo e dove la riuscita delle opere dipenderà pressoché dalla capacità del regista di dialogare con la parola scritta senza tradire del tutto lo spirito dei romanzi.

Sarà poi necessario attendere la nuova dimensione del consumo culturale, definita l’era post network37, per far sì che la televisione riveli una nuova declinazione dell’adattamento kinghiano.

Sempre Giacomo Calzoni38 definisce 22.11.63 il primo vero prestige drama, capace di mettere a frutto i nuovi assetti industriali e linguistici, realizzando un’opera «capace di giocare sullo stesso livello del cinema per creare un intrattenimento di qualità altamente concorrenziale, per sforzo produttivo, attenzione spettatoriale e spessore del discorso critico generato»39. Il risultato finale, si pone alla stregua di uno degli emisferi kinghiani già analizzati, ovvero il mainstream che più riesce a lasciar parlare la voce dello scrittore, animando tramite le immagini quanto raccontato nel romanzo.

Si tratta di un’impresa complessa perché 22.11.63 è un romanzo che si allontana radicalmente dagli altri. Come riporta Ian Nathan40, si tratta del primo romanzo che si ambienta nella luce piena di una storia documentata, relativa ad alcune delle ore più buie della storia americana, attorno alla quale ruotano sia fatti storici che teorie complottistiche non verificate. Stephen King, racconta quindi una storia che ha vissuto e proprio come il libro, la serie 22.11.63, come detto anche in precedenza, è un viaggio alla scoperta dell’ineluttabilità della storia, dal passo lento, emotivo ed introspettivo che tenta di riaccendere e ricostruire le sorti di una nazione distrutta attraverso una strada e lunga e tortuosa, e

35 I. Nathan, op. cit. p. 75.

36 G. Calzoni in G. Calzoni (A cura di) op. cit. p. 211

37A. Lotz, Post Network, La rivoluzione della tv, minimum fax, Roma, 2017, p. 74.

38 G. Calzoni in G. Calzoni (A cura di) op. cit. p. 276.

38 Ibidem.

40 I. Nathan, op. cit. p. 186.

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come tutte le cose inciampa in numerosi ostacoli che, come lascia intuire lo stesso King nella narrazione, non erano previsti. Eventi che non comprendono sempre situazioni negative, se viste sotto una luce diversa, ma il contesto implica alcune scelte, alcune deviazioni. Una storia complessa, che racconta di rischi e compromessi. Ritorna, quindi, quell’attenzione ai dettagli e alle sfumature che avevano contraddistinto i lavori di Frank Darabont, ma a permetterlo, questa volta, è proprio il medium televisivo, che suddivide la narrazione in un ten hour movie di ampio respiro, capace di concedere alla macchina da presa tutto il tempo necessario per analizzare nel profondo i vari meccanismi che legano personaggi e situazioni.

Il meccanismo della televisione odierna può poi assumere traiettorie ancora più sfaccettate e molteplici, scegliendo ad esempio un approccio simile a quello visto in La Nebbia, che sfrutta solo l’idea principale dello scritto e riscrive da capo le coordinate narrative della storia, influenzandole con tematiche più attuali nella cultura moderna, come l’attenzione al mondo queer, oppure di costruire affreschi seriali come Mr Mercedes, dove lo sviluppo psicologico dei personaggi prevale su qualsiasi altra dinamica, emergendo battuta dopo battuta, in maniera più simile al romanzo dello scrittore. La profondità della narrazione di King da cui provengono le trasposizioni non cambia, bensì, varia l’approccio che il piccolo schermo decide di dare a quanto narrato su carta e la complessa varietà della televisione odierna permette di assistere ad una quantità tale di declinazioni che risultano difficili da riassumere nella loro interezza.

Si potrebbe concludere il discorso asserendo che il profilo di Stephen King sul piccolo schermo sia cambiato parallelamente a come è cambiata la televisione stessa: un primo e unico approccio autoriale nel 1979 con Salem’s Lot, una sorta di metodo fruitivo di riserva per sfruttare a pieno il nome di King e poi una diramazione di situazioni derivate dalla complex tv e da tutte le sfaccettature che questa, ancora adesso, è in grado di assumere.

107 CONCLUSIONI

Alla luce di quanto argomentato, risulta quindi evidente quanto l’opera letteraria di Stephen King nella sua totalità si sia radicata nella cultura cinematografica e in tutto quello che concerne la sua realizzazione, da un punto di vista sia artistico che prettamente commerciale. Il motivo del suo stretto legame con il mondo audiovisivo è da ricercare sicuramente nella sua popolarità, ma non si tratta di una popolarità esclusivamente sancita dal consumo e dalle vendite. In Stephen King c’è un livello ulteriore. Dietro il terrore, l’orrore o perfino la repulsione c’è sempre un significato.

Il suo vissuto si imprime in maniera indelebile nelle storie che popolano i suoi romanzi e ovunque, anche nelle opere minori, risiede sempre la volontà dell’artista di raccontare qualcosa attraverso l’orrore e non per l’orrore. In merito a questa posizione, il cinema e la televisione possono quindi scegliere di percorrere strade diverse. Stanley Kubrick ha letto in Shining un possibile veicolo per la sua idea di immagine, di cinema e di sguardo, e questo lo ha portato a eliminare King e lasciare la base, per sfruttarla come binario su cui scorrere. Frank Darabont ha poi lasciato parlare la poetica di King attraverso le immagini, mentre Lewis Teague si è trovato a realizzare un beast-movie con protagonista un cane idrofobo. La materia è la stessa, cambia il modo in cui la si osserva. In numerosi casi, al cinema come in televisione, i produttori hanno puntato sulla rapida soluzione del disgusto o per un approccio grossolano alla materia, lasciando che di Stephen King rimanesse la superfice di quanto raccontato nelle sue pagine. Inoltre, nell’arco di oltre quarant’anni di produzioni, si è visto come il medium televisivo sia stato in grado di declinarsi secondo tutte le opzioni possibili, dall’approccio autoriale, al film di serie minore, arrivando poi ai meccanismi della televisione stratificata e della riscrittura, connettendosi con tutto il mercato di intrattenimento odierno.

È quindi nella sua posizione di equilibrio tra popolarità e contenuto, tra intrattenimento e messaggio, tra genere e allegoria, che va ricercata la motivazione per cui ogni possibile declinazione del mercato audiovisivo abbia guardato con interesse alla monumentale opera di Stephen King.

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