3.2 Il dialetto romagnolo e ferrarese
3.2.1 Italo Balbo
La caratterizzazione linguistica di Balbo assume sfumature comiche dovute alla combinazione dell’altezzosità del personaggio con un difetto di pronuncia comunemente oggetto di canzonatura: ad essere esaltata è proprio la stridente contrapposizione tra la volontà del ‘Maresciallo dell’Aria’ di vantare i prestigiosi titoli ottenuti e l’imperfezione locutiva, a causa della quale ogni tentativo di auto glorificazione si presta ad una facile ridicolizzazione.
La blesità è resa nel testo mediante la sostituzione delle consonanti /s/ e /ʃ/ con le f:
«Balbo a Ferrara tornava spesso, rilucente e trionfante, carico di maiuscole reverenziali: Quadrumviro, Membro del Gran Consiglio del Fascismo, Comandante della Milizia, Sottosegretario e poi Ministro dell’Aeronautica, Eroico Trasvolatore e perciò Maresciallo dell’Aria… Dalla minuscola frazione di Quartesana, era giunto alla ribalta mondiale. Tornava a Ferrara e con le smorfie, con tutto il corpo fasciato nella divisa chiedeva: «E ’lora vift? A fon partí da Quartgiana, e iv vift cuf ca fon dvantà?» Ah, già, molti non lo sanno: quando parlava, Balbo al s’inzizlava. – Sarebbe a dire?
In Bassitalia direbbero che aveva la zeppola, da altre parti la lisca. Insomma al posto della s pronunciava una sorta di f sputazzata: «Il faffifmo», «gli eroici fquadrifti», «fiate fieri di effere italiani!»310.
Si noti come l’autore, con un certo gusto per i geosinonimi, affianchi all’espressione dialettale ‘al s’inzizlava’, che indica la blesità, altre forme regionali (zeppola e lisca) con lo stesso significato.
Si menziona, inoltre, la frase in dialetto che, posta a seguito dell’esegesi dei misfatti compiuti da Balbo, descrive icasticamente l’abuso di violenza perpetrato dall’aviatore fascista, avvezzo all’uso del bastone come arma e non come emblema di onorificenza:
«Al ritorno era stato nominato maresciallo dell’aria, e il bastone di maresciallo era venuto a riceverlo a Ferrara, in pompa magna. In città si era malignato: – Prima volta c’al rizév lú bastón invenzi che dar ’l in cò a qualcdun!»311.
76 Questo passo coniuga all’aspetto puramente espressivo la componente relativa al modus operandi e all’atteggiamento dei fascisti, i quali sono saliti al potere in virtù degli atti di violenza compiuti a nocumento della popolazione.
3.3 Il dialetto veneto
Alla luce delle modalità d’impiego delle varietà linguistiche nel romanzo, è possibile individuare i contesti d’uso di ognuna di esse. L’italiano di Roma è la varietà linguistica delle rêveries spazio-temporali, dei confronti e delle elucubrazioni intellettuali; il ferrarese è la varietà delle rêveries mitologiche, della dimensione familiare e dello sfogo liberatorio. Il veneto è la varietà attraverso la quale vengono comunicate le novità del panorama politico internazionale, le quali, a loro volta, danno adito a ottimistiche congetture sull’attesa caduta del regime fascista.
Il dialetto veneto è saldamente connesso alla figura del bibliotecario di Ventotene. Storicamente, Mario Maovaz, durante gli anni del regime, si adoperò per la costruzione della biblioteca sull’isola di confino e, come riporta l’ex confinato Jacometti nelle sue memorie su Ventotene, si atteggiava a profeta, cercando di predire la caduta del regime312. Nella ricostruzione romanzesca di Wu Ming 1, il personaggio Maovaz ricopre lo stesso ruolo cruciale, difatti, personifica il desiderio di libertà, trasmesso attraverso iterate ottimistiche previsioni circa la prossimità della dissoluzione del regime mussoliniano:
«Mentre parlava, gli ultimi soldati italiani venivano cacciati dal suolo ellenico. – Sta andando male, – commentò Maovaz. – Mi ve lo digo: in Grecia comincia a cascare il fascismo. In un anno xe finidi. / – Un anno? – si schermirono un po’ tutti. – Non ti sembra di esagerare? – Al massimo un anno e mezzo. Scometemo?»313; «– E che coraggio! – aggiungeva Ravaioli. – Col paese in guerra, lo sciopero è reato di tradimento. Ci saranno arresti, processi, forse condanne a morte. / – Scoltème, casca prima il fascismo! – diceva Maovaz. – Stavolta ghe semo per bon, è il momento! Pasta-e-fasoi finissi co le gambe per aria!»314; «Il 10 Luglio, gli alleati sbarcarono in
Sicilia. / – Ghe semo! Mussolini cade! / – Lo dici da due anni, Mario. / – Dieci giorni. Al massimo due settimane. Scometemo?»315.
311 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 98.
312 Jacometti, Ventotene, p. 108.
313 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 294. 314 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 298. 315 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 300.
77 Più interessato all’attualità che ai testi custoditi, dei quali ad ogni modo riconosceva l’importanza, Maovaz si dedica all’esegesi della carta stampata in quel dialetto ‘venetoide’ che è il triestino, dal momento che Trieste (e in generale il tratto di costa adriatica del Friuli Venezia Giulia), non rientrando nelle aree della regione di varietà friulana, è di dialetto veneto316.
Il confinato triestino afferma in diverse occasioni la sua predilezione per i giornali, fondamento del suo vaticinare sulla direzione degli eventi:
«– È curioso, Mario, sei il bibliotecario e non ti vedo mai leggere libri... / – No go tempo pei libri, è più importante leger i giornai. Nei giornai se trova tuto, se te zerchi ben»317; «Un giorno Maovaz
lesse a voce alta un titolo e un catenaccio della ‘Stampa’ di Torino: (…). / – Te ga sentí? Troppi aggettivi. Se la prima cosa che i scrivi xe ‘morale altissimo’, vol dir che el xe ’sai basso. Se si premurano di dire l’opera di soccorso la xe ‘intensa’, vol dir che i danni xe peggio de quel che i disi. E così via. Xe questo el modo de leger i giornai!»318; «– Io li conosco, i Balcani, – diceva
Maovaz due giorni dopo, il giornale aperto davanti a sé, tenuto a distanza di braccia. (…) Il giornale di Trieste era il primo su cui metteva le mani, lo riteneva il meno ‘abbottonato’ nel seguire gli esteri. – Mi li conosso, i Balcani! Vedrete che i gnochi no i ghe vien più fora! – I gnochi erano i tedeschi»319.
La descrizione del dialetto veneto si è basata sui manuali Profilo linguistico dei dialetti italiani di Loporcaro, Geografia e storia dell’italiano regionale di De Blasi, con riferimenti a Grammatica veneta di Belloni320.
Si rintracciano nel testo alcuni tra i fenomeni più caratterizzanti del dialetto veneto, alcuni tra i più noti a livello nazionale:
- Forma dialettale dei verbi essere e avere
«– Cos’ te ga, Squarzanti?» (p. 188); «– No go tempo pei libri» (p. 199); «(…) Se la prima cosa che i scrivi xe ‘morale altissimo’, vol dir che el xe ’sai basso» (p. 223)
- Uscita – emo nella I persona plurale nel presente indicativo
«– Al massimo un anno e mezzo. Scometemo?» (p. 294); «– Ghe semo! Mussolini cade! / – Lo dici da due anni, Mario. / – Dieci giorni. Al massimo due settimane. Scometemo?» (p. 300)
316 Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani, p. 111. 317 Wu Ming 1, La macchina del vento, p.199.
318 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 223. 319 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 252.
320 De Blasi, Storia e geografia dell’italiano regionale, pp. 75-76; Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti
78
- Sistema dei pronomi personali con le forme toniche mi, ti ecc. e i proclitici me, te, el, la, i, le, da esprimere obbligatoriamente, anche in presenza di soggetto espresso da un sostantivo o nome proprio:
«Cos’ te vol? – disse Mario Maovaz, alzando gli occhi dal giornale» (p. 186); «– Cos’ te ga, Squarzanti? Ti senti poco bene?» (p. 188); «– Se pol ordinarlo, se te vol.» (p. 197); «Nei giornai se trova tuto, se te zerchi ben» (p. 199); «– Te ga sentí? Troppi aggettivi. Se la prima cosa che i scrivi xe ‘morale altissimo’, vol dir che el xe ’sai basso. Se si premurano di dire l’opera di soccorso la xe ‘intensa’, vol dir che i danni xe peggio de quel che i disi» (p. 223); «– Mi li conosso, i Balcani! Vedrete che i gnochi no i ghe vien più fora!» (p. 252)
- Ricorso all’articolo i con parole che iniziano con gn-
«Vedrete che i gnochi no i ghe vien più fora!» (p. 252)
- Impiego del clitico ghe corrispondente alle forme italiane ci, vi, ne
«Vedrete che i gnochi no i ghe vien più fora!» (p. 252); «– Ghe semo per bon, è il momento!» (p. 298); «– Ghe semo! Mussolini cade!» (p. 300)
- Desinenze del participio passato con sonorizzazione della dentale o caduta della sillaba finale
«– Te ga sentì?» (p. 223); «In un anno xe finidi» (p. 204) - Degeminazione delle consonanti doppie
«– No go tempo pei libri, è più importante leger i giornai. Nei giornai se trova tuto» (p. 199); «– Al massimo un anno e mezzo. Scometemo?» (p. 204); «Vedrete che i gnochi no i ghe vien più fora!» (p. 252)
- Sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche
«– Sta andando male, – commentò Maovaz. – Mi ve lo digo: in Grecia comincia a cascare il fascismo» (p. 204)
- Scomparsa della consonante laterale in posizione intervocalica
«– No go tempo pei libri, è più importante leger i giornai» (p. 199); «– (…) Pasta-e-fasoi finissi co le gambe per aria!» (p. 298)
79 - Assenza della consonante fricativa palatale sorda /ʃ/ sostituita dalla fricativa
alveolare sonora /s/ (che viene resa doppia come semplice espediente grafico)
«Mi li conosso, i Balcani!» (p. 252); «– (…)Pasta-e-fasoi finissi co le gambe per aria!» (p. 298)
- Consonanti fricative palatali /s/ e /z/ corrispondenti alle affricate palatali /tʃ/ e /dʒ/ del toscano
«– (…) Pasta-e-fasoi finissi co le gambe per aria!» (p. 298) - Dittongo -uo- ridotto a -o-
«Vedrete che i gnochi no i ghe vien più fora!» (p. 252)
- Eguagliamento della terza persona plurale alle terza persona singolare
«– (…) vol dir che i danni xe peggio de quel che i disi» (p. 223); «Vedrete che i gnochi no i ghe vien più fora!» (p. 252)
Dall’analisi appena presentata si evince che i tratti della varietà veneta di Mario Maovaz corrispondono ai tratti principali del dialetto veneto, col risultato di un personaggio ben caratterizzato linguisticamente, grazie alla mimetica riproduzione di aspetti morfologici fondamentali della varietà. Tuttavia è bene precisare che nelle occasioni in cui vengono riportati dialoghi di Maovaz, le espressioni in dialetto veneto sono, nella maggior parte dei casi, accompagnate da frasi introduttive o conclusive in italiano standard, come in «– Ghe semo, casca prima il fascismo»321, «– Sta andando male (…) Mi ve lo digo»322, oppure si nota l’alternanza d’uso di forme dialettali e forme in italiano, come in «– No go tempo pei libri, è più importante leger i giornai»323 e «la prima cosa che i scrivi xe ‘morale altissimo’»324, dove si alternano le forme verbali xe e è per la terza persona singolare presente.
Per quanto concerne il lessico, il termine ‘gnochi’ rimanda maggiormente al substrato culturale triestino del personaggio. ‘Gnochi’, forma degeminata di ‘gnocchi’, è un appellativo, con una componente nettamente dispregiativa, che a Trieste è riservato ai tedeschi, poiché nella città, in quanto terra di confine, il popolo ha prodotto una serie di sinonimi spregiativi per indicare i popoli contigui, come quello tedesco o quelli croati e sloveni.
321 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 300. 322 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 294. 323 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 199. 324 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 223.
80 Oltre agli interventi diretti, il dialetto è impiegato in un breve discorso riportato nel narratum («– Quando sei diventato bibliotecario, Pontecorboli era ancora qui? / Si grattò la testa, certamente pensando: uno è qui tranquillo che legge il giornale e varda ti che seccatori arrivano»325), in cui il narratore congettura il pensiero elaborato dal bibliotecario ed è impiegato il verbo guardare nella forma dialettale ‘varda ti’.
Giova qui considerare anche ‘foresti’ e ‘s’ciavo’. Il primo termine è impiegato nel passo in cui il narratore introduce Maovaz e sintetizza le vicende a cui prese parte: «aveva fatto il marinaio e si era trovato a Odessa proprio nel 1905, allo scoppio della prima rivoluzione russa. Era stato uno dei pochissimi foresti – così diceva lui – a prendervi parte»326. Si deduce dal contesto che il significato del termine, riportato dal narratore in corsivo, sia ‘forestiero’, ‘straniero’. L’immissione del vocabolo trova una plausibile spiegazione nell’assidua ricerca di mimetismo ed espressività che si traduce nell’introduzione di dialettismi in numerosi luoghi del testo, in particolar modo nel narratum, come elementi ricostruiti nel racconto di Erminio.
Il secondo termine è presente nel discorso raccontato, inquadrato nella più ampia cornice dell’elencazione delle ragioni sufficienti per essere spediti al confino durante il Ventennio:
«Ti mandavano al confino perché eri sloveno o croato e con tua moglie e i tuoi figli, s’ciavo testardo, continuavi a parlare in sloveno o croato, ma il posto dove stavi era diventato Italia, come Trst o Gorica o Rijeka, e dovevi parlare solo italiano. Primo perché era la lingua di Dante, e ho detto tutto. Secondo, perché loro dovevano saperlo, cosa andavi cianciando. Metti che raccontavi una barzelletta sul duce: quelli non capivano una parola, ma vi vedevano scompisciarvi. Mica ci voleva un genio per concludere che li pigliavate per i fondelli, e allora prendevano a nerbate te e gli amici tuoi, e poi vi mandavano al confino»327.
Il termine s’ciavo in area veneta e triestina ha mantenuto il significato originario ed è quindi un riferimento alla provenienze geografica e all’etnia di qualcuno. Schiavo, in veneto s’ciavo, deriva dal latino medievale sclavum – a sua volta, dal greco bizantino sklabós – ed è riferito ad una persona che proviene «dalla costa orientale dell’Adriatico o dalle regioni circostanti della Schiavonia o Slavonia»328. Ha assunto una connotazione spregiativa in quanto appellativo da utilizzare per enfatizzare l’inferiorità razziale di chi non parla italiano, di chi proviene da una regione considerata povera e arretrata. Quindi, il
325 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 188. 326 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 188. 327 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 13.
81 termine rientra in quel lessico del fascismo dal quale l’autore ha attinto per emulare usi della lingua tipici del Ventennio che oggi stanno cadendo in disuso e sono fortemente sanzionati dal punto di vista sociale.
In italiano, il termine schiavo deriva, dunque, da slavo, in quanto in antichità, il traffico degli schiavi che venivano venduti a Venezia era basato sulla compravendita di prigionieri di origine slave.
3.4 Il toscano
Nello Traquandi, storicamente e nella finzione romanzesca, fu un influente leader di Giustizia e Libertà di origini toscane, infatti era nativo di Firenze. Nel romanzo di Wu Ming 1 è un personaggio secondario, tuttavia non privo di una certa caratterizzazione linguistica.
L’individuazione e la descrizione dei fenomeni del toscano si sono basate sui manuali Profilo linguistico dei dialetti italiani di Loporcaro e Geografia e storia dell’italiano regionale di De Blasi329.
In Toscana sono presenti numerose varianti dialettali, i cosiddetti vernacoli, che presentano caratteristiche anche molto diverse fra loro. Nelle zone della Lunigiana la sfera linguistica afferisce ai dialetti settentrionali, di tipo ligure o emiliano (a seconda della località), all’estremo settentrione della provincia fiorentina l’area è prettamente romagnola, infine nella Toscana orientale e meridionale emergono fenomeni dell’area dialettale mediana.
Al fine dell’analisi della varietà adottata da Bui, si prendono in considerazione i tratti più diffusi nell’intera regione, con particolare attenzione rivolta ai fenomeni del toscano centrale, vernacolo attribuito al personaggio fiorentino Nello Traquandi.
I tratti più diffusi nei dialetti toscani, in particolar modo quelli centrali, sono la convergenza di -u e -o finali latine in -o (es. LUPUM > lupo), la dittongazione di -e- e -o- toniche latine in -ie- e -uo- in sillaba aperta accentata, lo sviluppo di -ri- in -j- (es. CORIUM > cuoio), il raddoppiamento fonosintattico causato da ogni vocale tonica (es. da ccasa), ma soprattutto il fenomeno della gorgia toscana, ovvero «un caso particolare di lenizione» che «consiste nella spirantizzazione (…) delle consonanti occlusive sorde (…) in posizione intervocalica, sia all’interno di parola sia in fonosintassi»330. Più diffusa la
329 De Blasi, Geografia e storia dell’italiano regionale, pp. 86-93; Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti
italiani, pp. 113-120.
82 spirantizzazione della -c-, che interessa anche le province di Pisa e Livorno, invece ridotta alla sola area fiorentina la spirantizzazione di -t- e -p-.
Altri fenomeni di un certo rilievo sono il mantenimento del sistema tripartito dei dimostrativi (questo, codesto, quello), la riduzione a -o- del dittongo -uo- nel parlato, la caduta della fricativa labiodentale intervocalica (es.avea/aea per aveva) e la riduzione del possessivo in una forma unica (es. la mi mamma).
Nel racconto, Traquandi compare la prima volta quando Giacomo si avvicina alla mensa del gruppo politico di Giustizia e Libertà. È descritto come un capo energico, impegnato nella gestione dei viveri destinati al sostentamento dei suoi compagni:
«Il capo della mensa giellista era Nello Traquandi, che la dirigeva come se ne dipendesse la rivoluzione. Era uno dei nove pericolosissimi, ma tra le pareti della cucina lo sentivano esclamare frasi di questo genere: – Sono finite l’ova! O ’un dovean durare fino a domenica? E ’un ci siamo, maremma zucchina! ’Un ci siamo proprio pe’ nulla!»331
Nella stessa occasione del passo sopracitato, Traquandi presenta gli altri commensali e le loro abilità al nuovo confinato Pontecorboli:
«Mentre i commensali lo gustavano, Traquandi, che era sempre rimasto in piedi, li presentò a Giacomo. – Il sottoscritto e Fancello già li conosci. Costui è Dino Roberto. Di tutti noi è l’unico che ha conosciuto da vicino Pasta-e-fagioli, sicché sa molte storie di prima mano su quel pallone gonfiato. (…) – Costí, accanto a te, invece, l’ingegner Vincenzo Calace, per tutti ‘Cencio’. È il nostro liutaio: costruisce dal nulla chitarrini e mandolini, e purtroppo li sona pure. Ti farà una testa così!»332
Si osserva l’impiego di alcune caratteristiche forme del toscano, quali la negazione ’un (per ‘non’) resa graficamente con l’apostrofo in funzione disambiguante, la caduta della fricativa labiodentale intervocalica in ‘dovean’ (per dovevano) e la monottongazione di /wɔ/ in ‘ova’ (per uova).
Si noti anche l’articolo determinativo [l] di fronte al sostantivo ‘ova’: si tratta dell’uso di un articolo debole che viene impiegato nei vernacoli toscani per ogni genere e numero. È plausibile ritenere che l’imprecazione ‘maremma zucchina’ sia stata inserita sia per rispettare i criteri di espressività e spontaneità, sia per restituire nel testo la vivacità del vernacolo toscano, soprattutto in base alle aspettative dovute all’immaginario collettivo.
331 Wu Ming 1, La macchina del vento, pp. 43-44. 332 Wu Ming 1, La macchina del vento, pp. 45-46.
83 Al contempo, giova considerare una imprecisione nel controllo della varietà toscana, o meglio un elemento nel quale non sono state applicate quelle caratteristiche necessarie a mantenere l’intera battuta coerente all’idioma che si voleva riportare. Si tratta dell’infinito ‘durare’, con terminazione – are, con il mancato troncamento dell’infinito che denota propensione verso il fiorentino, unico ‘vernacolo’ toscano che tendenzialmente non presenta l’infinito apocopato: nella maggioranza dei vernacoli toscani l’infinito è sottoposto a troncamento (durare > durà). Tale propensione verso il fiorentino, con la presenza di questo infinito senza troncamento (che non rientra tra i fenomeni presentati in modo irregolare nel testo) è dovuta alla caratterizzazione linguistica del personaggio di origini fiorentine.
Diffuso a livello regionale, l’avverbio di luogo ‘costì’ (in codesto luogo) deriva dalla locuzione latina *(ec)cum istīc ed è connesso al sistema tripartito dei dimostrativi questo, codesto, quello (garantendo che venga segnalata anche la prossimità di qualcosa o qualcuno rispetto all’interlocutore). Di nuovo si nota la monottongazione di /wɔ/ in ‘sona’ (per ‘suona’).
In un’altra apparizione, il leader di Giustizia e libertà impiega il verbo garbare (con l’accezione di ‘piacere’, ‘volere’), una di quelle voci «un tempo proposte come modello per l’italiano e avvertite (…) come italiane dai toscani [che] hanno subìto un ripiegamento verso una dimensione regionale»333:
«Giacomo passava e ripassava davanti all’orologio in piazza, guardandolo e rimuginando. – Non preoccuparti, che sta bene! – Lo canzonò un giorno Traquandi. – Fa come gli garba, a differenza di noi!»334
Infine, si menziona un passaggio che vede nuovamente intrecciarsi l’esperienza confinaria di Giacomo Pontecorboli con quella di Nello Traquandi, il quale, in quanto compagno politico del fisico romano, con regolarità continua a fargli visita anche nei momenti più bui della malattia:
«Ogni tanto Traquandi si guardava attorno: le pareti, gli armadietti, le brande… e i due manciuriani, che subito abbassavano gli occhi. Non solo non parevano tisici, ma avevano proprio l’aria da spie. – C’è pieno di pillacchere in ’sto piattolaio! – sentenziava Traquandi, alzando la voce»335
333 De Blasi, Geografia e storia dell’italiano regionale, p. 91. 334 Wu Ming 1, La macchina del vento, p. 66.
84 Il lessico impiegato, con i termini ‘pillacchere’ (macchia, schizzo di fango)336 e ‘piattolaio’ (luogo sporco, pieno di piattole)337 segnala la tendenza a marcare la fiorentinità del personaggio. Ed anche nel narratum, viene riportata una parola che il narratore attribuisce al lessico di Traquandi. Si tratta della voce ‘arrocchiare’338 (in corsivo) che rientra a pieno titolo nei termini d’uso fiorentino ed è marcata come obsoleta, ormai in disuso:
«I giellisti lo andavano ancora a trovare, ma lui peggiorava e loro non sapevano più che dire. I discorsi si arrocchiavano, come diceva Traquandi, si attorcigliavano su sé stessi. E mettevano malinconia»339
Ancora in merito al lessico si rintraccia il termine ‘minuzzolo’, riportato nel discorso narrato come vezzeggiativo adoperato da Rossi per chiamare la figlia di Colorni:
«I confinati socialisti e giellisti adoravano le due bambine e tenevano volentieri Silvia – Rossi la chiamava ‘Minuzzolo’340, un toscanismo per briciola, granellino – facendola giocare, mentre