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José Ángel Valente racconta don Francisco de Quevedo y Villegas

Valente considera Quevedo un poeta profondo e impegnato nella vita pubblica, e in qualche modo si riconosce in lui. Come Borges, anche Valente mostra di apprezzare la poesia di Quevedo. Ma se il poeta argentino racconta Quevedo in tutte le sue sfaccettature, sia metafisiche che satiriche, lo spagnolo preferisce l'aspetto amoroso e metafisico.

E tuttavia sia l'uno che l'altro citano i due più famosi sonetti del poeta barocco: Cerrar podrá mis ojos la postrera e Faltar pudo su patria al grande Osuna. Come abbiamo visto Borges analizza il sonetto amoroso in due occasioni, nei saggi Menoscabo y grandeza de Quevedo e Un soneto de don Francisco de Quevedo, considerando le due terzine una prova di ineguagliabile bellezza. L'ultimo verso (“Y tu epitafio la sangrienta luna”) del sonetto Faltar pudo su patria al grande Osuna lo possiamo trovare nel sonetto di Borges A un viejo poeta.

Il modo che usa Valente per raccontare Quevedo è diverso da quello di Borges. Valente infatti non si occupa del poeta baracco dal punto di vista critico, cita invece quasi letteralmente alcuni versi dei suoi sonetti più famosi. Per esempio «Serán ceniza...», la poesia che dà inizio alla raccolta A modo de esperanza del 1955, contiene già nel titolo la citazione di un verso dell'ultima terzina di Cerrar podrá mis ojos la postrera:

su cuerpo dejará, no su cuidado; serán ceniza, mas tendrá sentido; polvo serán, mas polvo enamorado.6

In questo sonetto, considerato uno dei migliori lavori e oggetto di numerosi studi, Quevedo riprende l'originale tema dell'unione dell'amore e della morte

6

già presente nel poeta latino Properzio e poi ripreso dalla tradizione petrarchista dell'amore che continua anche dopo la morte. Il poeta arriva ad affermare che anche dopo la sua morte le sue ossa saranno polvo enamorado. L'anima, sfidando la severa legge del fato, si porterà sull'altra riva del fiume le pene e gli affanni, le passioni e le bramosie. L'amante continuerà ad amare Lisi anche dopo morto con quello che rimane del proprio corpo.

Valente fa una rivisitazione in chiave moderna del sonetto quevediano e ci dice che anche se la morte non si può combattere e arriva per tutti, con la persona amata al suo fianco non si sente solo. Va fiducioso verso la morte perché anche nella cenere c'è speranza. L'ultimo verso di questa poesia dà il titolo alla raccolta A modo de esperanza ed è caratterizzata da una lirica cruda e da un linguaggio diretto, a volte secco. Il tema della morte è legato alla preoccupazione metafisica per il tempo e per l'identità:

«SERÁN CENIZA...»

Cruzo un desierto y su secreta desolación sin nombre.

El corazón

tiene la sequedad de la piedra y los estadillos nocturnos de su materia o de su nada.

Hay una luz remota, sin embargo, y sé que no estoy solo;

aunque después de tanto y tanto no haya ni un solo pensamiento

capaz contra la muerte, no estoy solo.

Toco esta mano al fin que comparte mi vida y en ella me confirmo

y tiento cuanto amo, lo levanto hacia el cielo

y aunque sea ceniza lo proclamo: ceniza. Aunque sea ceniza cuanto tengo hasta ahora, cuanto se me ha tenido a modo de esperanza.7

L'altro sonetto quevediano che Valente mostra, come Borges, di apprezzare, è Faltar pudo su patria al grande Osuna. Lo si trova citato nel componimento A don Francisco de Quevedo, en piedra, dove ne riporta quasi letteralmente l’incipit “Falta su patria a Osuna”, contenuto nella raccolta Poemas a Lázaro del 1960..

Questa poesia, in cui Valente parla a Don Francisco, è composta da versi liberi, alessandrini, endecasillabi e settenari, e oltre al sonetto amoroso e a quello funebre, il poeta di Ourense cita anche altri due sonetti di Quevedo che riflettono il tema della brevità della vita.

Come epigrafe Valente utilizza l'ultimo verso del sonetto metafisico ¡Fue sueño ayer; mañana será tierra! (“Cavan en mi vivir mi monumento”) dove il poeta, seguendo il pensiero di Seneca e degli stoici per cui ha un'evidente passione, riflette sulla brevità della vita, sul problema del tempo come vita e morte. Questo sonetto, secondo l'analisi di Arellano e Schwartz Lerner8, si apre con un chiasmo al primo verso:

¡Fue sueño ayer; mañana será tierra! ¡Poco antes, nada; y poco después, humo!

¡Y destino ambiciones, y presumo

7

J. Á. Valente, Poesía y prosa, cit., p. 69.

8

F. de Quevedo, Poesía selecta, Edición, estudio, bibliografía y notas de Lía Schwartz Lerner e Ignacio Arellano, Barcelona, PPU, 1989, pp. 86-87.

Apenas punto al cerco que me cierra!

Nella seconda quartina possiamo vedere la metafora della guerra tra il poeta barocco e la morte:

Breve combate de importuna guerra, en mi defensa, soy peligro sumo; y mientras con mis armas me consumo, menos me hospeda el cuerpo, que me entierra.

La vita è un luogo di passaggio, il corpo è come un sepolcro:

Ya no es ayer; mañana no ha llegado; hoy pasa, y es, y fue, con movimiento que a la muerte me lleva despeñado.

Azados son la hora y el momento que, a jornal de mi pena y mi cuidado,

cavan en mi vivir mi monumento.9

Monumento, protagonista del verso usato da Valente come epigrafe alla sua poesia, ha valore di tomba, sepolcro. Il tempo fabbrica il nostro monumento funebre.

In A don Francisco de Quevedo, en piedra, attraverso strofe di lunghezza variabile e l'alternanza di versi corti e versi più lunghi e narrativi, Valente si dirige alla statua del poeta barocco chiamandolo per nome come se fosse un suo amico. Valente racconta alla statua che lo vede tutte le mattine e che vorrebbe poter parlare con lui:

9

Yo no sé quién te puso aquí, tan cerca - alto entre los tranvías y los pájaros - Francisco de Quevedo, de mi casa.

Tampo sé qué mano organizó en la piedra tu figura

o sufragó los gastos, los discursos, la lápida, la cerimonia, en fin, de tu alzamiento.

Porque arriba te han puesto y allí estás y allí, sin duda alguna, permaneces,

imperturbable y quieto, igual a cada día, como tú nunca fuiste.

Il poeta galiziano parla con Quevedo facendolo entrare nel quotidiano, secondo una tecnica tipica dei niños de la guerra; lo guarda tutte le mattine dalla finestra di un bar:

Bajo cada mañana al café de la esquina,

resonante de vida, y sorbo cuanto puedo

el día que comienza.

Desde allí te contemplo en pie y en piedra, convidado de tal piedra que nunca

de tu propia cojera

a sentarte en la mesa que te ofrezco.

Arriba te dejaron como una teoría de ti mismo, a ti, incansable autor de teorías

que nunca te sirvieron

más que para marchar como un cangrejo en contra de tu propio pensamiento.

Sa che Quevedo non scenderà mai dal piedistallo di pietra della sua statua e si chiede cosa faccia il poeta tutto il giorno lassù. Lo chiama maestro, padre, amico:

Yo me pregunto qué haces allá arriba, Francisco de Quevedo, maestro,

amigo, padre con quien es grato hablar,

difícil entenderse, fácil sentir lo mismo: cómo en el aire rompen un sí y un no sus poderosas armas,

y nosotros estamos para siempre esperando

la victoria que debe decidir nuestra suerte.

Nei versi successivi compaiono altre citazioni quevediane. I versi “Fue el soy un será, pero el polvo / un ápice hay de amor que nunca muere”

costituiscono la riscrittura di due sonetti: il metafisico «¡Ah de la vida!...»… ¿Nadie me responde? e l'amoroso Cerrar podrá mis ojos la postrera tante volte ricordato da Borges:

Yo me pregunto si en la noche lenta, cuando el alma desciende a ras de suelo,

caemos en la especie y reina el sueño, te descuelgas

de tanta altura, dejas tu máscara de piedra, corres por la ciudad, tientas las puertas

con que el hombre defiende como puede su secreta miseria

y vas diciendo a voces: - Fue el soy un será, pero el polvo

un ápice hay de amor que nunca muere.

¿O acaso has de callar en tu piedra solemne,

enmudecer también, caer de tus palabras, porque el gran dedo un día

te avisara silencio?10

Il verso “Fue el soy un será...” costituisce una riscrittura dell'endecasillabo “soy un fue, y un será, y un es cansado” del sonetto metafisico di Quevedo (già ripreso in precedenza da jorge Guillén in un sonetto dove professa la propria

10

felicità di vivere) «¡Ah de la vida!...»… ¿Nadie me responde?, in cui il poeta si interroga sulla brevità della vita, concettualmente ridotta a un istante nel quale presente e passato si uniscono.

“Pero en el polvo / un ápice hay de amor que nunca muere” è invece la riscrittura di Cerrar podrá mis ojos la postrera.

Infine un terzo sonetto, il funebre Faltar pudo su patria al grande Osuna, compare verso la fine della composizione:

Dime qué ves desde tu altura. Pero tal vez lo mismo. Muros, campos,

solar de insolaciones. Patria. Falta

su patria a Osuna, a ti y a mí y a quien

le necesitas. Estamos

todos igual y en idéntico amor podría comprenderte.

Hablamos

mucho de ti aquí abajo, y día a día te miro como ahora, te saludo

en tu torre de piedra, tan cerca de mi casa, Francisco de Quevedo, que si grito

me oirás en seguida.11

Al duca di Osuna don Pedro Girón, vicerè della Sicilia e di Napoli, Quevedo, quale suo confidente e ministro in Italia per alcuni anni, dedicò altri sonetti e una canzone. In questo sonetto ricorda le campagne militari del duca,

11

quella nella Fiandre e quella contro i turchi nel Mediterraneo: la Sangrienta luna infatti è il simbolo dell'impero ottomano. Anche i monti rendono omaggio a don Pedro: Partenope è l'antico nome di Napoli che, personificato, accende il Vesuvio come Trinacria (la Sicilia) accende il Mongibello, nome colto dell'Etna. Anche gli astri lo celebrano: Marte, dio della guerra e pianeta, gli trova un posto d'onore nella sua sfera. I fiumi dell'Europa piangono la morte del duca:

Dionle el mejor lugar Marte en su cielo: la Mosa, el Rhin, el Tajo y el Danubio murmuran con dolor su desconsuelo.12

Valente conclude il poema raccontando a Quevedo che anche gli altri poeti lo ammirano, sono in molti a parlare di lui. Lo vede tutti i giorni e lo invita a scendere dalla statua, aggiungendo anche un dato biografico del poeta barocco, il fatto cioè che fosse zoppo (come gli era stato rimproverato da Góngora):

Ven entonces si puedes, si estás vivo y me oyes

acude a tiempo, corre

con tu agrio amor y tu esperanza – cojo, mas no del lado de la vida – si eres

el mismo de otras veces.13

Del ciclo dei Poemas a Lázaro fa parte un'altra poesia, «¡Ah de la vida!...» datata 1956, dove Valente cita Quevedo sia nel titolo che in alcuni suoi versi. Anche in questo caso il sonetto di riferimento è «¡Ah de la vida!...»… ¿Nadie me responde?.

12

F. de Quevedo, Poesía original completa, cit., p. 252.

13

«¡AH DE LA VIDA!...» De noche, mientras

el cuerpo del amor yace hondo en su sueño, me he puesto en pie de pronto,

abandonando el lecho oscuro que a un olvido

suave me encadena. Me he puesto en pie y he visto

entrar la blanca luna, larga como la pena,

en las alcobas, violar los secretos,

robar los besos, señalar las caricias.

Alquien nos mira -dije-, alquien acecha lejos. Más allá de la noche una mano está alzada, un golpe hay en suspenso...

¡Ah de la vida, ah de los dormidos!...

Sobre el húmedo ritmo de las respiraciones una mano está alzada. Tal vez ésta es la hora.

(Con pie desnudo entran a saco por los sueños.)

¡Ah de la vida aquí, ah de la vida!...

Como un tambor de piedra golpeé la tiniebla (¡ah de la vida aún!...)

y no tuve respuesta.14

Attraverso la ripetizione anaforica dell'esclamazione che aveva costituito l'incipit del celebre sonetto quevedesco “¡ah de la vida!”, il poeta interroga il tempo, si chiede se sia giunta la sua ora. È una domanda che egli si fa guardando la luna di notte che entra nella stanza e spia i due amanti e che in questo caso è blanca e non sangrienta. Se Quevedo chiede “¿Nadie me responde?”, Valente afferma “Y no tuve respuesta”. Una mano alzata è in attesa di giudicarlo e il poeta spaventato colpisce l'oscurità. Secondo la caratteristica propria della poesia di Valente di attribuire alle pause e allo spazio bianco della pagina un valore semantico imprescindibile15, anche in questo componimento il poeta gioca con le pause e predilige i versi corti, in prevalenza settenari.

La raccolta Nada está escrito (1952-1953) comprende un componimento diviso in sezioni, Donde estuvo la voz, e la terza è preceduta dal verso di Quevedo posto a epigrafe: “Yace la vida envuelta en alto olvido16”. Questo verso riprende un verso della silva quevedesca ¿Con qué culpa tan grave:

14

J. Á. Valente, Poesía y prosa, cit., pp. 806-807.

15

Cfr. J. Á. Valente, Per isole remote. Poesie 1953-2000, cit., p. 9.

16

Con sosiego agradable se dejan poseer de ti las flores;

mudos están los males; no hay cuidado que hable: faltan lenguas y voz a los dolores,

y en todos los mortales yace la vida envuelta en alto olvido.17

È una silva amorosa che invoca el olvido come una pace lontana, irraggiungibile per l'amore insonne. È un componimento che fa parte dei poemi amorosi di Quevedo, dove el olvido compare anche come segno negativo predominante. Secondo l'analisi che ne fa Gonzalo Sobejano18, vista l'indole cortese e petrarchista di questo tipo di poesia, l'amore si nutre di cuidado, di tristezza e di dolore e respira una perpetua insoddisfazione. È un amore che mai dimentica il suo soggetto amoroso e la cui pena più costante è el olvido lontano, l'indifferenza della donna amata.

Dall'analisi di queste poesie possiamo notare in Valente due tecniche princiali per raccontare il poeta barocco: ricontestualizza il Quevedo metafisico, funebre e amoroso, sia attraverso epigrafi che attraverso citazioni, e lo personifica tramite la statua con cui parla tutte le mattine mentre prende il caffè.

17

F. de Quevedo, Poesía original completa, cit., pp. 394-396.

18

G. Sobejano, Aspectos del olvido en la poesía de Quevedo, Alicante, Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, 2009.

CAPITOLO V

La intución original de la poesía de Gimferrer invoca la posibilidad de ver la otra cara de la realidad. (Jordi Gracia)

5.1. Pere Gimferrer e i novísimos

Pere Gimferrer (1945), poeta nato a Barcellona, fa parte dei cosiddetti novísimos, giovani intellettuali di una nuova generazione, la Generación de los 70, portavoce di un rinnovamento della poesia spagnola. Le caratteristiche comuni di questo gruppo sono la rottura con il realismo della poesia precedente, l'influenza della cultura di massa, come cinema e televisione, e la rivalutazione del culteranismo con un'insistente attenzione nei confronti di Góngora e della lirica del Siglo de oro. Nello stile dei novísimos si assiste a un abbandono delle forme tradizionali e all'utilizzo di nuovi stili come il collage, la poesia è vista come un'unione delle arti. Il linguaggio dei nuovi poeti è spesso sarcastico e sfocia con frequenza nel barocchismo espressivo.

Secondo Carlos Clementson19 Gimferrer ha avuto un ruolo di primaria importanza nel recupero della poesia in lingua spagnola, grazie alla raccolta lirica dal titolo chiaramente gongorino Arde el mar 20 con cui vinse, il 20 dicembre 1966, il “Premio Nacional de Literatura José Primo de Rivera”, nella sezione poesia. Clementson aggiunge che Gimferrer con questo poema:

19

C. Clementson, “La estirpe de Góngora”, introduzione a Cisne andaluz: Nueva antología poética en honor de Góngora (de Rubén Darío a Pere Gimferrer), Madrid, Eneida, 2011, pp. 15-89.

20

Il titolo della raccolta riprende il sonetto gongorino del 1596 Cuantas al Duero le he negado ausente, e in particolare il verso “arde el río, arde el mar, humea el mundo” (Cfr. L. de Góngora, Sonetos completos, cit., p. 141).

Marca un auténtico cambio en los rumbos de la poesía española, en aras de un exclusivo predominio de los valores puramente estéticos y cultistas, aunado a una sabia atención por otras voces de tradiciones literarias cosmopolitas y una atención por el mundo del cine y los mass-media.21

Per quanto riguarda il titolo della raccolta, pare che al momento di metterla insieme Gimferrer non conoscesse il sonetto di Don Luis e che la valenza gongorina fosse filtrata da due epigrafi, uno di Rafael Alberti e l'altro di Octavio Paz:

¡Ardiendo está todo el mar! (Rafael Alberti)

Hoy en la tarde desde un puente Vi al sol entrar en las aguas del río

Todo estaba en llamas

Ardían las estatuas las casas los pórticos Llameaban los cuerpos sin quemarse. (Octavio Paz)22

Giulia Poggi nello studio Frammenti di un discorso poetico23 ha visto come le tracce gongorine nella poesia spagnola degli anni Settanta siano numerose. Si tratta di singole immagini, frammenti di immagini decontestualizzate, di cadenze e rime riconoscibili, di interi sonetti. È soprattutto il Góngora culto, l'inventore dei grandi poemi, quello che più interessa i rappresentanti delle giovani generazioni e che riscoprono e commentano. Gimferrer e gli altri nuovi poeti ripropongono la grande esplosione linguistica delle Soledades attraverso frammenti istantanei o immagini calligrafiche.

21

C. Clementson, “La estirpe de Góngora”, cit., p. 85.

22

P. Gimferrer, Arde el mar, Edición de Jordi Gracia, Madrid, Ediciones Cátedra, 1994, p. 103.

23

G. Poggi, “Frammenti di un discorso poetico”, Id. in Gli occhi del pavone. Quindici studi su Góngora, Firenze, Alinea Editrice s.r.l, 2009, pp. 255-267.

È una riscoperta del barocco e di Góngora, sulla scia dei poeti della Generación del 27. Ma, se per i poeti del 27 Góngora è un modello di metafore, per quelli degli anni Settanta, come ci dice Giulia Poggi, è il simbolo di un linguaggio lirico naufragato:

schegge di senso, connessioni sintattiche, versi mutilati e scheletri metrici che periodicamente riemergono e si impongono a dispetto del tempo e delle intemperie.24

Rubén Darío e l'estetica modernista sono per i poeti novísimos tra le caratteristiche base della loro poetica, consapevoli del contributo che il modernismo europeo e americano ha apportato al loro modo di fare poesia. Gimferrer ha sempre avuto un'ammirazione per l'opera di Darío, considerandolo il suo poeta preferito e vedendo in lui il poeta grazie al quale ha scoperto la poesia (tanto che qualcuno lo ha definito el segundo Darío25). Partendo da questo presupposto e con la convinzione che l'arte moderna sia tale solo quando è interrogazione, indagine e critica dell'arte stessa, nel 1969 Gimferrer pubblica la Antología de la poesía modernista, antologia che raccoglie una selezione di poeti modernisti più o meno conosciuti. L'intento del poeta barcellonese è di riavvicinare il lettore alla poesia modernista, perché secondo il poeta catalano:

En España, presumo que la aridez dominante en el lenguaje poético de postguerra ha distanciado tanto a los posibles lectores de la expresión modernista como la diversidad antagónica de los temas tratados con respecto a los comunes posteriormente. […] La acusación de vacua trivialidad estetizante es la más común de cuantas se dirigen contra el modernismo. [… ] El modernismo fue la última escuela poética en castellano que fundó su experiencia verbal en la

24

G. Poggi, “Frammenti di un discorso poetico”, in Gli occhi del pavone, cit., p. 266.

25

experimentación sobre la estrofa clásica y la rima consonante.26

Uno dei componimenti che Gimferrer sceglie di Darío è la sezione I, Yo soy aquel que ayer no más decía, della raccolta Cantos de vida y de esperanza, dove il poeta nicaraguense cita le sue opere precedenti, Azul... e Prosas profanas ed elenca motivi a lui cari (ruiseñor, cisnes, rosas, jardín, góndolas e liras) insieme con chi li aveva trattati (Hugo, Verlaine, Góngora):

Yo soy aquel que ayer no más decía el verso azul y la canción profana

[...]

Como la Galatea gongorina me encantó la marquesa verleniana,

y así juntaba la pasión divina