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L’azione di responsabilità esperita verso l’amministratore di fatto

L’art. 146 l.fall. non contempla l’ipotesi della responsabilità dell’amministratore di fatto135.

Il D.Lgs. n. 61/2002 ha espressamente introdotto la figura dell'amministratore di fatto nel nuovo art. 2639 c.c.. Detta norma prevede infatti che, per i reati ivi richiamati, ‹‹al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della

funzione prevista dalla legge civile è equiparato [...] chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione››136.

Il precedente che solitamente viene richiamato, come primo intervento della

133 Art. 2941 c.c. Sospensione per rapporti tra le parti: “La prescrizione rimane sospesa… 7) tra le persone giuridiche e i loro amministratori, finché sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di essi”.

134 LO CASCIO G., Codice commentato del fallimento, 2008, pag. 1347.

135 L’amministratore di fatto è colui che, senza una formale investitura, si ingerisce nella gestione,

esercitando in via continuativa funzioni riservate dalla legge agli amministratori di diritto, senza che i medesimi a ciò si oppongano.

136 CASSANI S., Responsabilità dell’amministratore di diritto e dell’amministratore di fatto, in Le Società, n.10, 2013, pag. 1057.

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Suprema Corte civile in materia di amministratore di fatto, è la sentenza n. 234 del 12 gennaio 1984137. Sulla scia di questa pronuncia, a lungo la giurisprudenza civile

individuava l'elemento essenziale, perché si potesse affermare la sussistenza dell'amministratore di fatto, nel presupposto formale della nomina, seppur irregolare o invalida.

La ratio della regola enunciata veniva individuata nella correlazione tra poteri dell'amministratore, di necessità dipendenti dall'atto di nomina, e i correlativi obblighi e responsabilità: in difetto dei primi, e quindi in difetto di una nomina, non si sarebbero potuti affermare i secondi e le relative responsabilità.

Il perno attorno al quale ruotava la nozione consisteva quindi nella costituzione formale del rapporto di amministrazione.

È importante sottolineare che, nella concreta applicazione, il presupposto formale veniva tuttavia ritenuto sussistere con una certa ampiezza ed elasticità, ad esempio anche ove vi fosse una nomina tacita o implicita e quindi mancasse del tutto una nomina formale.

Dopo la pronuncia del 1984 si era aperto un vivace dibattito dottrinale volto a superare l'approccio formalistico della Suprema Corte, che era stato confermato in più occasioni.

Molteplici erano le possibili soluzioni alternative suggerite dalla dottrina per rendere applicabile le norme relative agli amministratori di diritto anche a chi avesse svolto di fatto le funzioni di amministratore, nel tentativo di andare al di là dell'approccio formalistico di cui alla pronuncia del 1984.

Parte della dottrina qualificava l'amministratore di fatto quale direttore generale138,

utilizzando il disposto dell'art. 2396 c.c.139, per rendere allo stesso applicabili le

disposizioni che regolano la responsabilità degli amministratori.

Altra parte invece, invoca la disciplina della negotiorum gestio di cui agli artt. 2028 ss. c.c. e per suo tramite, grazie al richiamo di cui all'art. 2030 c.c., la disciplina del mandato. Altri ancora la disciplina del sostituto del mandatario di cui all'art. 1717

137 Secondo la quale “perché sorgano obblighi e responsabilità previsti dalla legge per gli amministratori

occorre un atto di preposizione o di nomina da parte dei competenti organi della società. Tale nomina può anche essere irregolare (non pubblicata o invalida) o implicita”.

138 Al riguardo si segnala che la Suprema Corte nel 2008 ha escluso espressamente l'applicazione

analogica o estensiva dell'art. 2396 c.c.

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Nello stesso senso vedasi BARTALI G., La responsabilità degli amministratori e dei direttori generali

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c.c. Ferma la possibilità di applicare in via residuale le regole della responsabilità aquiliana.

Le soluzioni proposte per superare l'approccio formalistico risultavano, tuttavia, non completamente soddisfacenti o comunque disagevoli sotto il profilo argomentativo e applicativo.

Successivamente è intervenuta la Suprema Corte che nel 1999, con le sentenze n. 1925 del 6 marzo e n. 9795 del 14 settembre, ha mutato in modo radicale la linea tracciata dalla pronuncia del 1984, passando da un approccio formalistico, incentrato sulla necessità di un atto di nomina, a un approccio funzionalistico, incentrato, invece, sulle concrete funzioni esercitate dalla persona che si voglia qualificare come amministratore di fatto.

La ratio decidendi delle decisioni della Corte, in particolare della sentenza del 6 marzo 1999, fa perno sui rapporti contrattuali di fatto e sulla responsabilità da contatto sociale: il nostro ordinamento riconosce che alcuni fatti possano dare vita ad obbligazioni in capo a terzi indipendentemente da una fonte negoziale e il concreto svolgimento di funzioni amministrative integrerebbe uno di questi fatti. In sintesi, secondo la Corte, l'attività gestoria dell'amministratore di fatto integra gli estremi del ‹‹contatto sociale›› che rientra tra gli atti e fatti di cui all'art. 1173 c.c., idonei a produrre obbligazioni in conformità all'ordinamento giuridico.

Già nelle decisioni del 1999 viene poi chiarito che l'elemento essenziale affinché possa configurarsi un amministratore di fatto è l'esercizio delle funzioni gestorie, esercizio che però deve potersi qualificare come sistematico: si è quindi escluso che il compimento di singoli atti di natura eterogenea ed occasionale possa farne ricorrere la figura.

Sulla base di queste argomentazioni la Corte ritiene che siano applicabili all'amministratore di fatto ‹‹le regole che disciplinano l'attività degli

amministratori›› in quanto regole relative al ‹‹corretto svolgimento

dell'amministrazione della società›› e, come tali, ‹‹applicabili non solo a coloro che

sono stati immessi, nelle forme stabilite dalla legge, nelle funzioni di amministratore, ma anche a coloro che si sono ingeriti nella gestione della società senza aver ricevuto da parte dell'assemblea alcuna investitura, neppure irregolare o

66 implicita››140.

Per completezza si segnala che la riforma del diritto societario del 2003, sebbene non abbia introdotto una norma che direttamente preveda l'amministratore di fatto quale figura autonoma e giuridicamente rilevante nel nostro ordinamento, ha d'altra parte regolato espressamente alcune ipotesi che presentano forti assonanze con l'amministratore di fatto, il che può essere letto come ulteriore elemento di conferma rispetto al riconoscimento giurisprudenziale del 1999. In particolare, si richiama l'art. 2497, comma 2, c.c. in materia di responsabilità da attività di direzione e coordinamento, che afferma la responsabilità solidale di ‹‹chi abbia comunque preso

parte al fatto lesivo››.

La nuova linea ricostruttiva inaugurata dalla Suprema Corte nel 1999 ha aperto il dibattito giurisprudenziale e dottrinale circa gli indici sulla base dei quali si possa concludere che ricorra la figura dell'amministratore di fatto. La chiave di volta è stata individuata nelle funzioni concretamente esercitate dal terzo. La pronuncia del 14 Settembre 1999 chiarisce che dette funzioni debbano avere carattere sistematico e non possano, quindi, esaurirsi nel compimento di singoli atti di natura eterogenea e occasionale141. Inoltre, si dovrà trattare di attività svolta senza subordinazione, e

quantomeno sul piano di un rapporto paritario di cooperazione, se non di superiorità, con il soggetto investito formalmente dei poteri amministrativi. Al riguardo parte della dottrina ha specificato che si deve trattare di atti tipici dell'amministratore, ponendo però al contempo in evidenza la problematicità di tale qualificazione. È indubbio che atti tipici dell'amministratore siano in primo luogo quelli direttamente relativi all'organizzazione sociale come ad esempio procedere agli adempimenti relativi alla tenuta dei libri sociali e agli adempimenti pubblicitari, e più in generale quelli relativi a poteri non delegabili.

I casi più frequenti riguardano al contrario atti che possono qualificarsi come atti di gestione, delegabili in quanto tali, e che quindi non debbono necessariamente avere,

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La linea tracciata dalla Suprema Corte nel 1999 è stata più volte confermata dalla giurisprudenza.

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Trib. Milano 18 Ottobre 2007 enuncia che a prescindere dalle investiture formali, si avrà amministratore di fatto qualora si abbia “l'esercizio dei poteri tipici dell'amministratore: escluso che un singolo atto possa essere sufficiente, o possa bastare la considerazione di alcuni atti eterogenei. Si ritiene che sia necessario l'esercizio di un'attività di amministrazione intesa come un insieme di atti coordinati sul piano funzionale dalla unità dello scopo”.

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quale loro autore, un amministratore142.

L'applicazione dei primi due criteri di valutazione, ossia quello della sistematicità e quello dell'autonomia, parrebbe risolvere la citata problematicità relativa al requisito della tipicità degli atti, fornendo un adeguato parametro qualitativo per distinguere gli atti propriamente amministrativi da quelli che rientrerebbero, per la loro levità od occasionalità, nelle competenze di figure subordinate o ancillari all'organizzazione societaria.

Parte della dottrina ha aggiunto che l'amministratore di fatto deve agire con una sorta di supremazia generale. Se però è ragionevole ritenere che amministratore di fatto debba essere solo un terzo che abbia gestito come un amministratore, non parrebbe completamente condivisibile richiedere che tale gestione si sia caratterizzata nel senso di una supremazia sugli altri amministratori o sull'intera gestione della società: ove, si aderisse a questa impostazione si potrebbe infatti arrivare a concludere che solo colui che ha agito come amministratore delegato possa qualificarsi amministratore di fatto.

Una volta integrato il presupposto oggettivo della funzione concretamente esercitata che fa del terzo gestore un amministratore di fatto, secondo la giurisprudenza, sarebbero a lui applicabili in via diretta, la sentenza n. 1925 del 1999 non pare lasciare spazi per applicazioni diverse, ‹‹le norme che disciplinano l'attività degli

amministratori di una società di capitali››143.

Il punto da porre in evidenza è il riferimento al corretto svolgimento dell'amministrazione, elemento di grande importanza perché fornisce il criterio per distinguere tra le norme che sono applicabili all'amministratore di fatto e quelle che non lo sono: in altre parole il criterio guida per la cernita dovrà essere costituito dalla ratio della norma che si voglia applicare, ratio che dovrà consistere nel regolare il corretto gestire e nel sanzionarne le violazioni.

In via generale parrebbe indubbio che l'amministratore di fatto debba gestire con

142 Gli amministratori di una società di capitali possono delegare terzi per il compimento, in nome e per

conto della società, di atti di gestione, tuttavia tale delega non deve risolversi nella sostanziale abdicazione della gestione in favore del terzo delegato.

143 La lettura della massima della sentenza n. 1925 del 1999 e della motivazione della pronuncia fa

cogliere il fine ed in modo preciso la ratio decidendi della legge, ovvero che “le regole che disciplinano

l'attività degli amministratori regolano, in realtà, il corretto svolgimento dell'amministrazione della società e sono quindi applicabili non solo a coloro che sono stati immessi, nelle forme stabilite dalla legge, nelle funzioni di amministratore, ma anche a coloro che si sono ingeriti nella gestione della società senza aver ricevuto da parte dell'assemblea alcuna investitura, neppure irregolare o implicita”.

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diligenza e nel rispetto della legge, astenendosi, ad esempio dal compiere atti in conflitto di interessi.

Ciò posto è stato da subito messo in evidenza come altre norme relative all'attività degli amministratori sarebbero di difficile applicabilità all'amministratore di fatto: si pensi al diritto-dovere di convocare l'assemblea dei soci o a quello di procedere agli adempimenti pubblicitari.

Un caso sul quale la dottrina si è particolarmente soffermata è quello della necessità o meno della delibera dell'assemblea dei soci per esercitare nei confronti dell'amministratore di fatto l'azione sociale di responsabilità. La risposta sul punto parrebbe negativa attesa la mancanza di un atto di nomina: potrebbe quindi essere ragionevole ritenere che detta norma si giustifichi in un contesto di organizzazione societaria e non possa invece applicarsi nei casi in cui si prescinda dalle regole relative a detto profilo organizzativo. Al riguardo si segnala, in ogni caso, che il tema ha rilevanza solo ove l'azione venga esperita al di fuori del fallimento: infatti, ove l'azione venisse esperita, come nella maggioranza dei casi, dal curatore fallimentare ai sensi dell'art. 146 l.fall., la necessità di delibera ovviamente sarebbe comunque esclusa.

A completamento delle precedenti considerazioni, si segnala che tra le norme applicabili figura senz'altro quella che dispone la responsabilità solidale degli amministratori. Infatti ai sensi degli artt. 2392 e 2476 c.c. gli amministratori di società di capitali sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza dei doveri a essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo.

L'applicazione di tale regola in presenza di un amministratore di fatto porta che questo sia responsabile degli atti di mala gestio posti in essere da parte degli amministratori di diritto e che questi ultimi siano responsabili di quelli dell'amministratore di fatto144. Sebbene la regola codicistica appaia semplice, essa in

realtà nasconde elementi di complessità: disciplina infatti unicamente la

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REDEGHIERI BARONI A., Azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di fatto e

prova del danno, in Le Società, n.12, 2008, pag. 1521: La giurisprudenza civile nel corso del tempo ha individuato i comportamenti che caratterizzano il rapporto di amministrazione di fatto, ovvero:

1) gestione della società sotto un profilo contabile e amministrativo; 2) attività di organizzazione interna della società;

3) organizzazione dell'attività esterna della società tenuto conto dell'oggetto sociale; 4) formulazione di programmi;

5) selezione delle scelte; 6) emanazione di direttive.

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responsabilità degli amministratori, ma nulla dice circa i doveri la cui violazione faccia scaturire la responsabilità solidale.

È necessario in primo luogo distinguere tra doveri che gravino all'amministratore come singolo, come l’obbligo di non concorrenza o quello di non agire in conflitto di interessi, e doveri che invece incombano agli amministratori con riferimento alla loro attività collegiale, tra i quali, in primo luogo, i doveri relativi alla corretta gestione della società.

2.4 I presupposti per l’esercizio dell’azione tramite l’autorizzazione del