• Non ci sono risultati.

La quantificazione del danno risarcibile

Secondo la casistica giurisprudenziale si può ben notare che la maggior parte delle azioni di responsabilità sono esercitate in sede fallimentare e proprio in relazione a ciò è importante andare a determinare e quantificare il danno risarcibile nel momento in cui la società non è più in bonis.

L'evoluzione giurisprudenziale, nel tentare di quantificare il danno risarcibile, ha progressivamente abbandonato l'approssimativo criterio forfetario del deficit fallimentare, il quale individuava l’ammontare facendo una mera differenza aritmetica tra attivo e passivo149 (anche se tale principio è stato sovente applicato

come regola di giudizio)150, a favore dell'accertamento del nesso di causalità tra la condotta illecita e il danno subito e la determinazione del pregiudizio riferibile a tale

149 LEONE T., L'azione di responsabilità del curatore fallimentare: profili generali, in Le Società, n.7,

2007, pag. 864: “…Il predetto metodo, senz'altro semplice e immediato, prevede che il danno da risarcire

a carico dell'amministratore debba identificarsi nella differenza tra attivo e passivo alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, limitandosi, quindi, a un semplice conteggio, a una mera differenza matematica tra due distinti valori che appaiono peraltro facilmente identificabili: l'ammontare del passivo concorsuale e dell'attivo fallimentare realizzato dalla procedura nel corso della liquidazione. Si tratta, dunque, di un modus operandi che presuppone un assoluto automatismo nella determinazione dell'ammontare del danno, ancorandolo esclusivamente allo sbilancio fallimentare, prescindendo dall'analisi dell'an debeatur e, quindi, rendendo superfluo accertare come la formazione di detto deficit patrimoniale sia riconducibile alle condotte lesive o negligenti degli amministratori.

Tale criterio è stato ampiamente criticato da ultimo anche dalla Corte di cassazione che lo ha definito «insostenibile, dal punto di vista concettuale, semplicistico e sbrigativo» oltre che privo di coerenza con le disposizioni generali dell'ordinamento in materia di risarcimento danni, in quanto finisce per esimere il curatore che agisce in responsabilità dalla necessità di dare prova dell'esistenza dell'eventus damni e del nesso di causalità tra tale pregiudizio patrimoniale e gli atti fonte di responsabilità, nesso la cui sussistenza si finisce, pertanto, per presumere. Ulteriori punti di debolezza concettuale possono poi rinvenirsi sia in eccesso, in quanto il danno individuato per differenza fra i sopradescritti valori contabili può essere senz'altro influenzato da una pluralità di circostanze esterne alla realtà societaria, esogene e, pertanto, non direttamente controllabili o imputabili alla condotta degli amministratori o anche da scelte gestionali infelici ma non per questo censurabili sul piano della legittimità; sia in difetto, trascurando di considerare che il disavanzo fallimentare può essere inferiore alla perdita derivante dall'atto di mala gestio, per esempio nel caso in cui alcuni creditori abbiano rinunciato ad insinuarsi al passivo”.

150 Cass. Civile 3483/1998, Cass. Civile 6493/1985, Cass. Civile 2671/1977, Cass. Civile 1281/1977,

Cass. Civile 21/1972, App. Bologna 5 Febbraio 1997, App. Milano 14 Gennaio 1992, App. Milano 27 Aprile 1982, App. Torino 9 Luglio 1975, Trib. Torino 18 Maggio 1999, Trib. Catania 21 Novembre 1992, Trib. Genova 16 Settembre 1992, Trib. Genova 20 Gennaio 1992, Trib. Torino 14 Maggio 1991, Trib. Torino 9 Aprile 1991, Trib. Torino 11 Febbraio 1989, Trib. Genova 19 Settembre 1988, Trib. Venezia 5 Novembre 1987, Si segnala, altresì, una diversa sfumatura di tale interpretazione, in base alla quale il danno dev'essere quantificato nella differenza tra il passivo alla data di dichiarazione di fallimento ed il passivo alla data in cui l'attività doveva cessare. In tal senso: Trib. Milano 7 Febbraio 2003, Trib. Roma 13 Marzo 2000, Trib. Napoli 17 Giugno 1998, Trib. Catania 8 Maggio 1998, Trib. Genova 24 Novembre 1997, Trib. Genova 2 Marzo 1992, Trib. Milano 18 Gennaio 1990.

Il parametro del deficit fallimentare si è rivelato fallace ma però in alcuni casi ne è stato necessario l’utilizzo, come ad esempio nel caso in cui per fatto imputabile agli organi sociali, si sia determinato il dissesto della società e la conseguente sua sottoposizione a procedura concorsuale. Si tratta di situazioni nelle quali le condotte degli amministratori sono state la causa determinante del fallimento e soprattutto della lesione degli interessi dei creditori, non giustificabili sulla base di valutazione della business

judgement rule. Vedasi Trib. Roma 13 Maggio 1964, Cass. Civile 9252/1997 e App. Bologna 12 Gennaio 2004.

72

condotta151; a tal fine si richiede la dimostrazione del nesso di causalità tra il pregiudizio subito dai creditori e la mala gestio degli amministratori. Si tratta, quindi, di liquidare il danno al cui risarcimento deve essere condannato l'amministratore, isolando fra i comportamenti illeciti compiuti, quelli rivelatisi effettivamente pregiudizievoli e lesivi, determinando il risultato economico che abbiano generato per poi calcolarne l'incidenza sul patrimonio sociale. La puntuale determinazione del danno è e resta, tuttavia, problematica qualora, riscontrino nella contabilità sociale irregolarità o falsità tali che non consentono, o comunque, rendono difficile identificare e/o quantificare il pregiudizio sulla base della comparazione dei netti patrimoniali individuati nei diversi momenti dell'attività sociale. In tale frangente, parte della giurisprudenza recupera il criterio di imputabilità agli amministratori dell'intera differenza tra attivo e passivo fallimentare, sul presupposto che, in tali casi, l'impossibilità di ricostruire le vicende patrimoniali della società attraverso una compiuta disamina dei dati evincibili dai libri contabili obbligatori, imporrebbero di ritenere gli amministratori presuntivamente Autori di condotte contrarie agli obblighi di conservazione del patrimonio e quindi responsabili del deficit riscontrato dagli organi della procedura, ferma restando comunque la possibilità per i convenuti di fornire la prova contraria sia in ordine all'insussistenza di condotte emendabili, sia con riferimento alla non riconducibilità del saldo negativo tra l'attivo ed il passivo acquisito al fallimento, al comportamento tenuto da costoro152. Altra parte della giurisprudenza, ritiene, invece,

preferibile fare ricorso ad una valutazione equitativa del danno153. Alla luce del più

151 SIGNORELLI F., Azione di responsabilità ex art.146 l.fall. e determinazione del danno, in Il Fallimento, n.10, 2010, pag. 1191 ss.

Cass. Civile 1375/2000, Cass. Civile 10488/1998: “non appare rispondente all'esigenza di una rigorosa

verifica della sussistenza di un rapporto di conseguenzialità causale tra la condotta illecita e il danno. Il rispetto di tale esigenza si risolve nella riaffermazione del principio che agli amministratori deve essere accollato il risarcimento dei danni che si pongano quale conseguenza immediata e diretta dalle commesse violazioni e nella misura equivalente al detrimento patrimoniale che non si sarebbe verificato se la condotta illecita degli amministratori non fosse stata attuata: da ciò derivano, nella maggior parte dei casi, conseguenze concretamente meno gravose per i responsabili, grazie alla esenzione dal risarcimento di quei danni che possano essere stati provocati da fatti a loro non imputabili: ma non è da escludere che ne consegua, come nel caso in esame, il riconoscimento di un più pesante onere risarcitorio rispetto a quello che si vorrebbe delimitare in funzione del solo deficit fallimentare”, Cass. Civile 9252/1997, App. Milano 30 Marzo 1982, Trib. Napoli 17 Gennaio 2007, Trib. Milano 24 Gennaio 2007, Trib. Salerno 25 Ottobre 2006, Trib. Marsala 23 Maggio 2005, Trib. Milano 29 Maggio 2003, Trib. Milano 20 Febbraio 2003, Trib. Milano 8 Ottobre 2001, Trib. Milano 7 Giugno 2001, Trib. Milano 10 Maggio 2001.

152 Cass. Civile 3483/1998, Trib. Catania 25 Ottobre 2000, Trib. Napoli 4 Aprile 2000 e Trib. Torino 18

Maggio 1999.

73

recente orientamento che va progressivamente formandosi in punto di azione di responsabilità nei confronti degli organi sociali, trattasi in entrambi i casi di criteri di liquidazione del danno che presuppongono, tuttavia, il previo accertamento, il cui onere probatorio grava in capo al curatore, del compimento da parte degli amministratori di atti (quali, ad esempio, il compimento di nuove operazioni sociali) pregiudizievoli per la società, atteso che, le mere violazioni formali imputabili agli amministratori, in special modo nella redazione del bilancio o nella tenuta della contabilità, sono violazioni che di per se stesse non costituiscono fonte di pregiudizio per la società o per i terzi se non quando siano causa di un ulteriore evento di danno154.

Con il fallimento della società, si trovano casi in cui il danno sia stato quantificato, in via equitativa, nella differenza tra l’ammontare del patrimonio netto risultante dal bilancio nel momento in cui l’amministratore convenuto acquisisce la consapevolezza del dissesto e quello che sussiste al tempo della dichiarazione di fallimento, ovvero al momento della cessazione della carica155.

Nel tempo e nella prassi, sono stati elaborati dalla giurisprudenza156 specifici criteri per sopperire a tali difficoltà, commisurando il danno di volta in volta alla corrispondente riduzione della massa attiva astrattamente disponibile e distribuibile; oppure determinandolo in relazione al passivo prodottosi in ciascun esercizio a causa della continuazione della gestione sociale pur essendo sopraggiunta una causa di scioglimento della società; o ancora quantificando il danno sulla base della comparazione dei netti patrimoniali individuati nei diversi momenti dell'attività sociale vietata; e infine, prevedendo il ricorso al criterio equitativo qualora non sia possibile una diversa e più precisa determinazione.

154 Trib. Napoli 17 Gennaio 2007, Trib. Milano 24 Gennaio 2007, Trib. Salerno 25 Ottobre 2006 e Trib.

Marsala 23 Maggio 2005.

155 Cass. Civile 9252/1997 e Cass. Civile 17033/2008, nel caso in cui l’azione di responsabilità nei

confronti degli amministratori di una società trovi fondamento nella violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall’art. 2477 c.c. non è giustificata, in mancanza di uno specifico accertamento in proposito, la liquidazione del danno in misura pari alla perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell’attività. Questo perché non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell’attività (ma ad esempio imputabile a circostanze quali la svalutazione dei cespiti aziendali o il venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa.

In senso conforme Cass. Civile 16211/2007, Trib. Milano 8 Ottobre 2001 e Trib. Milano 11 Novembre 2002.

74

Tuttavia, è opinione concorde157, condivisa anche dal Tribunale di Milano, che, allorquando l'addebito a carico degli amministratori sia costituito dalla sostanziale mancanza o dalla manifesta infedeltà delle scritture contabili, da un generale disordine amministrativo contabile che determini «l'impossibilità di ricostruire esattamente le operazioni che specificamente hanno aggravato tale dissesto», sia possibile fare riferimento ai fini della rilevazione del quantum del danno all'intero

deficit patrimoniale. In questa ipotesi, difatti, il curatore si trova nella materiale impossibilità di assolvere al suo onere probatorio, spettando, quindi, all'amministratore convenuto, in una sorta di inversione dell'onere della prova, dimostrare il minore ammontare del pregiudizio effettivamente arrecato rispetto alla differenza tra attivo e passivo fallimentare.