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L’emigrazione italiana in Belgio raccontata dalle donne

La trasformazione in emigrazione permanente (1950-1956) 2.1 I cambiamenti nell’emigrazione in Belgio

2.5 L’emigrazione italiana in Belgio raccontata dalle donne

Dalla metà degli anni cinquanta, grazie alla presenza delle famiglie italiane, il Belgio deve affrontare un percorso di accettazione che permane per i trent’anni successivi. La “normalizzazione” della presenza di stranieri avviene con il loro progressivo aumento nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli spazi di socializzazione: è chiaro ormai a tutti che la sfera pubblica dell’entroterra belga è divenuto il terreno di incontro di due realtà destinate a convivere. Così, nel giro di qualche anno gli episodi di razzismo vanno scemando, lasciando invece spazio a momenti di condivisione e solidarietà, soprattutto negli anni successivi alla catastrofe di Marcinelle.

Per provare a ricostruire la memoria delle comunità italiane in Belgio, è necessario considerare sia l’aspetto lavorativo delle vite degli emigrati che quello personale. In questo senso, nelle interviste raccolte l’aspetto interiore, i ricordi di momenti privati, sono maggiormente riscontrabili nei racconti delle donne, meno proiettate a immedesimarsi nel proprio lavoro e più disponibili (forse meno gelose) a condividere aspetti della loro dimensione familiare. Nel reperimento delle fonti la presenza femminile è piuttosto scarsa. Secondo il materiale già edito, i contenuti a disposizione sono piuttosto limitati. Anche nella raccolta di fonti inedite è stato complicato ottenere testimonianze femminili.

Dalla lettura dei materiali, emerge una sorta di pudore nel racconto della propria memoria, in cui viene dato maggiore spazio al racconto dell’uomo di casa - sia esso il marito o il fratello - che ha “guadagnato” la sua possibilità di raccontarsi tramite il lavoro in fabbrica o l’esperienza in miniera, cioè tramite

quella che è pubblicamente, universalmente, riconosciuta come un’esperienza degna di “fare storia”. Per queste ragioni una ricerca che indaghi in questa direzione, con l’obiettivo di rompere il silenzio di queste donne, stimola fortemente la curiosità, con la consapevolezza del fatto che la loro eventuale assenza nella ricostruzione del contesto narrativo genererebbe – così come ha fatto certamente sinora – un gap nella memoria oltre che una ricostruzione della vicenda su premesse troppo classiche:

La storia delle donne, nata per contrastare l’epistemologia classica della storia, che attribuiva al soggetto maschile caratteri di universalità, da una parte accumulava ricerca allo scopo di sopperire all’assenza di donne nella storia, in quanto private di visibilità dal patriarcato; ma dall’altra non cessava di porsi il problema più ampio della creazione di paradigmi totalmente nuovi, capaci di rifondare tutta la disciplina, tenendo conto della rilevanza della connotazione sessuale dei soggetti e mostrando la capacità dei poteri patriarcali di disporli in gerarchie asimmetriche attraverso le pratiche sociali e culturali.110

Reperire fonti d’archivio che contengano notizie sulla specificità femminile è più difficile, in particolare se si cercano notizie sulla loro quotidianità. I normali canali di ricerca, infatti, come le fonti classiche, risultano immediatamente insufficienti:

Si un historien entende faire une recherche sur les femmes migrantes en se basant sur des archives qu’il se consulte habituellement il sera rapidement er immanquablement confronté a une insuffisance de sources.[…] Certes elles figurent dans les archives administratives relatives à l’ensemble de la population (registres communaux, de patentes, statistiques...) mais elles ne sont qu’indirectement présentes dans les archives industrielles ; dans la grande majorité des sources «classiques» presque exclusivement consacrées à la vie et au travail des hommes, les femmes migrantes ne sont que très rarement centrales.111

Già nella ricostruzione della cornice storica si manifestarono le prime difficoltà. Negli archivi istituzionali non esistono elenchi dedicati alle donne o alle famiglie giunte per ricongiungimento. La prima indagine condotta sulle donne italiane in Belgio risale agli anni ottanta.

110 Fazio I. Gender History, in Cometa M. «Dizionario degli studi culturali», Meltemi, Roma 2004, p. 218.

111 AAVV, Femmes migrantes, in «Sextant», revue du groupe interdisciplinaire d’Etudes sur le femmes, ULB, Bruxelles 2004, p. 19.

Quest’assenza dagli archivi, unita con la reticenza nel racconto, ha fatto sì che si diffondesse un pregiudizio sul ruolo – ritenuto secondario – delle donne nella costruzione della storia italiana in Belgio. Ovviamente il pregiudizio è anche alimentato dalla convinzione maschile che ammettere la partecipazione delle donne nella realizzazione del progetto migratorio, potrebbe svilire il proprio ruolo:

Ci sono elenchi che parlano dei minatori, ma non parlano delle donne. Bisogna andare proprio in fondo per trovare chi era sposato, chi si era sposato in Italia, chi in Belgio. E poi le vedove? Sono tornate in Italia, sono rimaste qui? Ma la storia delle donne bisogna trovarla con una grande fatica, mentre la storia degli uomini è molto chiara: è la storia dei minatori. Le donne sono trasparenti. Per le donne italiane si ripete sempre l’immagine della buona massaia che rimane a casa, e non esce. È falso. Tutto falso quando si leggono i racconti. Vanno presto a lavorare, perché pensano che andando a lavorare faranno prima ad accumulare questi risparmi che permetteranno di tornare a casa.112

È interessante e urgente, quindi, cercare di ricostruire la storia della presenza italiana in Belgio proprio partendo dalla destrutturazione dei pregiudizi più comuni, primo tra tutti quello sull’inattività delle donne italiane. L’idea della donna casalinga, completamente assorta dai lavori di cura, è quindi da considerarsi la costruzione di un idealtipo successivo, probabilmente determinato da stereotipi applicati a ritroso.

Le donne italiane hanno lavorato molto fuori, hanno lavorato come serve, come domestiche. Ora questa storia non si racconta più adesso perché c’è una certa vergogna. Adesso le badanti sono straniere. Ma noi abbiamo fatto le badanti. Abbiamo fatto le serve. Io spesso faccio vedere un contratto che era fatto dal sindacato cattolico belga per le domestiche. Era un contratto bilingue, in francese e in italiano, perché la domestica normalmente era italiana. Questa è una storia dimenticata perché non si vuole paragonare alla situazione odierna, che è la storia dei poveri che vengono in Italia a cercare un pezzo di pane.113

La volontà di tramandare l’immagine di una famiglia completamente a carico del patriarca è in contrasto con i racconti di uomini e di donne ed è smentita nella gestione delle famiglie, nelle scelte economiche, nelle scelte sull’emigrazione, che rivelano invece un’effettiva pariteticità di uomini e donne. Ovviamente questa

112 Anna Morelli, Bruxelles, 2010 113 Ibidem

pariteticità non è mai dichiarata ma si evidenza nelle trame delle storie di vita, nei piccoli episodi.

Io ero tanto, tanto paziente, ma non ne ce la facevo più. Mi aveva preso di nervi, e dissi a mio marito: «Sono due le strade che devi scegliere: o ce ne andiamo lontani dalla tua famiglia, altrimenti io ti lascio; ormai sono piena». Avevo i miei bambini e ormai ero più grande e mi difendevo: ero molto più forte. Allora mio marito per farmi contenta dice: «Me ne vado dove vuoi».114 Il fondamentale ruolo femminile nell’amministrazione delle risorse nelle famiglie emigrate è ratificato anche dagli studi belgi sulle realtà emigrate, che costatano l’importanza delle donne nella gestione economica e culturale delle realtà emigrate:

Il est bien connu que dans le classe ouvrière c’est le femme qui est le “ministre des finances” de la famille; c’erst elle qui avec le salaire ou la pension doit régler le loyer, les contribution et les cotisations des services sociaux en plus de son ménage et de l’alimentation de la famille.115

L’emigrazione rappresenta lo stimolo per la maggior parte delle donne, per emanciparsi. Dal momento della partenza del marito, è la moglie che deve gestire l’economia domestica e la famiglia nel paese d’origine. Le donne amministrano le rimesse, accumulano i risparmi, si occupano della manutenzione dell’abitazione. Inoltre, la decisione di raggiungere il marito, è spesso presa in concerto tra i due coniugi.

Quando Angelo partì, si gettò una pietra dietro che non tornasse più alla Sicilia. Noi la bestemmiavamo la Sicilia, perché lavoro non ce ne era per mio marito. Con una figlia ola non potevamo vivere. E qui viviamo molto bene con nove. Stetti tre mesi prima di avere notizie di Angelo. Stavo sempre a pregare. Poi mi scrisse che in settembre era passato clandestino in Belgio. Poi che dovevo raggiungerlo. Ma io non ero mai uscita di casa. Come doveva fare? Alla sua sorella Giuseppina dice: «andiamo tutte e due». E vende tutta la mobilia. Tengo sola la biancheria e la porto con me in un sacco. Così noi tre donne dopo un viaggio di un giorno e due notti con la bambina in braccio senza potere dormire mai, arriviamo a Charleroi, con due valigie e il sacco.116

114 Schiavo M., Le italiane raccontano, cit., p. 37.

115 Le vie des femmes au Borinage et la situazion des communes, in «Femme», anno 1976, busta “Resolution”, archivio Carcob.

Anche in Belgio le donne mantengono un ruolo fondamentale nell’amministrazione delle risorse e nella gestione della famiglia. L’importanza del loro arrivo per la stabilizzazione del processo migratorio è però, ancora oggi, parzialmente negata dai protagonisti della vicenda, uomini e donne. Nel loro stesso racconto, le donne si accontentano di ricoprire un ruolo di secondo piano. I loro lavori, i loro sacrifici, hanno toni meno eroici di quelli dei mariti.

Poi siamo andati sempre a Marcinelle, alla rue de corien, sempre a Marcinelle. Era vicino alla miniera dove lui dopo è andato a lavorare. Una casa di tre piani, che per andare al gabinetto, noi stavamo all’ultimo, dovevi arrivare di sotto. Poi la porta era sempre aperta, mica era come adesso si potevano tenere le porte aperte. E io stavo lassù in cima, avevo una camera da letto piccola, piccola, con le porte di vetro e io sentivo i rumori la notte e dicevo: «Signore non è che questa gente ora viene fin qua su?» Allora ero giovane, mica anziana come adesso, allora avevo un po’ paura. Poi l’anno dopo, poi sono arrivati gli italien, eravamo tutte e due e lavoravamo.

In questi racconti il loro lavoro, le paure, sono subordinati al racconto della riuscita della famiglia. Le donne incontrano maggiori difficoltà ad adattarsi alla nuova realtà, a causa dei limitati luoghi di socializzazione cui dispongono, e la difficoltà è peggiorata dalla convinzione di un trasferimento temporaneo, che non le spinge a intraprendere attività durature:

L’immigrazione femminile ebbe un peso elevato per quei tempi. Infatti, in Belgio paese di vecchia tradizione immigratoria, fin dall’inizio degli anni cinquanta mise in atto una politica mirante al ricongiungimento familiare che permise l’arrivo di un elevato numero di donne, in quanto mogli e figlie di lavoratori. Ovviamente queste donne si trovarono in una situazione fortemente svantaggiata in quanto non conoscevano la lingua, gli usi e i costumi del posto e avevano un livello d’istruzione basso. Non erano direttamente interessate ad un’attività lavorativa, almeno agli inizi, e quindi mancavano dell’ambiente di socializzazione del posto di lavoro.117

La vita delle donne emigrate è rivolta al soddisfacimento delle necessità familiari. Il lavoro, di conseguenza, è connesso alla disponibilità di tempo rimasta. Per le donne italiane in Belgio il lavoro, part time o full time, è finalizzato a migliorare il benessere della famiglia e solo secondariamente alla realizzazione

personale. Si è senza dubbio di fronte ad una strategia familiare, ispirata alla migliore realizzazione della famiglia nel paese d’accoglienza:

Mi mamma ha sempre lavorato a Herstal, alla fabbrica di armi. Le donne lavoravano perché se si voleva stare meglio si doveva lavorare. C’erano quelle che non lavoravano ma se si voleva andare avanti, si faceva qualche sacrificio per stare meglio118

Questo fa sì che il lavoro delle donne venga dunque percepito come marginale. Urbano Ciacci, presidente dell’associazione ex-minatori di Marcinelle, racconta come la moglie si destreggiasse ai tempi tra il lavoro di sarta e la cura domestica, ma l’importanza anche economica del lavoro della moglie emerge poco alla volta, come a volere ricostruire una scala di priorità in cui rimarcare che la famiglia prevale su tutto il resto:

Mia moglie non lavorava, si occupava della famiglia […] Mia moglie l’hanno mandata che aveva voglia di studiare. La mamma l’ha mandata, forzandola, a fare la scuola di sarta, ha fatto la sarta. Aveva le man d’oro. Ha fatto tanti di quei vestiti dei matrimoni. Il lunedì lavoravano [lei e la sorella, ndr.] per pulire la casa e dal martedì lei cuciva e la sorella si occupava di cucinare119

È interessante quindi ricostruire la storia delle immigrate italiane e svincolarla definitivamente dalla dipendenza maschile. È vero che negli anni cinquanta la possibilità per le donne di intraprendere iniziative autonome è limitata, ma questo non diminuisce la loro importanza nella costruzione delle comunità italiane sia nei paesi d’origine che in Belgio, la cui stabilità deve molto alla determinazione delle donne italiane che mostrano di essere in grado di ambientarsi e ambientare la propria famiglia in un altro Paese. Questo ruolo nella gestione dei rapporti sociali e delle catene migratorie è il risultato di un percorso di emancipazione che inizia nei paesi di origine, nei quali la partenza dei capofamiglia comporta il lascito delle responsabilità alla padrona di casa, con un compito davvero molto gravoso. La presa di coscienza del loro ruolo sociale passa per il mantenimento dei rapporti sociali con il paesino nativo, in quanto alla partenza queste donne diventano le successive detentrici delle catene migratorie. Ricoprono quindi un ruolo non secondario, permettendo in pratica il riscatto sociale di nuovi membri della

118 Caterina Mulè, Tilleul, 2012. 119 Urbano Ciacci, Bois du Cazier, 2010.

comunità. Il ricongiungimento familiare tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta, aggiunge migliaia di donne all’enorme quantità di uomini che intraprendono le migrazioni. Nel giro di pochi anni la miseria del dopoguerra, l’impossibilità di un riscatto sociale in patria, convince molte donne a raggiungere i propri uomini in Belgio:

La mia vita era sempre lavorare. Non conoscevo una festa, non conoscevo niente. Neanche in chiesa andavo, mai. La prima volta che mi ho divertita è che ho preso il treno a Racalmuto e sono andata in Belgio. Quando giocavo, dieci minuti e dopo dovevo rientrare perché c’era il lavoro che mi aspettava. […] Anche se sono nata nel 1951 per me c’era ancora la guerra, la guerra contro la fame120

Le donne con i loro bambini sono sottoposte allo stress del viaggio sul treno merci, alla sosta obbligatoria a Milano, per assicurarsi la regolarità dei documenti e dei permessi. Spesso a Milano vengono costrette a rimanere per giorni in attesa dell’autorizzazione a partire. In quei casi però si tratta di una situazione ancora più complicata, perché la maggior parte delle donne che si accingono a raggiungere i mariti lo fa con i figli a carico e deve quindi sopportare la fatica e una maggiore dose di preoccupazione:

Il viaggio verso questa terra promessa è ancora impresso nella memoria lungo, faticoso, con una sosta obbligata a Milano dove, in attesa del momento della partenza, se ne stavano ammassate con i loro bambini nei seminterrati della stazione e questo, senza potersi spostare e sotto stretta sorveglianza. Lì si incoraggiavano reciprocamente e si organizzavano nonostante la paura dell’ignoto e la tristezza di lasciare i loro parenti, i loro amici, il loro paese. Rispondevano al loro destino, quello di seguire il marito. In altri casi questa era una volontà deliberata, alquanto rivoluzionaria per l’epoca, di ricercare condizioni di vita in seno ad una struttura familiare trasportata altrove121

A differenza del viaggio dei minatori però le donne possono contare sul fatto di trovare ad aspettarle i propri uomini, i quali hanno preparato loro sistemazioni abitative, anche se spesso di comodo. La felicità di ritrovare il proprio caro è però accompagnata dalla consapevolezza del salto nel vuoto, sia per l’impatto con un nuovo Paese, sia per la ricostruzione di un nuovo rapporto di coppia e familiare, spesso trasformato dagli anni di lontananza:

120 Schiavo M., Italiane raccontano, cit., p. 170. 121 Forti A., Da Roma a Marcinelle, cit., p. 45.

Così noi tre donne, dopo un viaggio di un giorno e due notti con la bimba in braccio, senza poter dormire mai, arrivammo a Charleroi, con due valigie e il sacco. Il cuore mi batteva dalla contentezza, quando vidi Angelo neanche lo volevo baciare. La bambina piangeva. Non lo riconosceva perché era passato troppo tempo122

Molte delle donne che raggiungono i mariti in Belgio vanno incontro a un futuro incerto. Molte di loro hanno visto il marito solo in foto perché si sono sposate per procura, seguendo le indicazioni della famiglia. Quando decidono quindi di emigrare, il viaggio rappresenta per loro una vera e propria scommessa. Per alcune l’emigrazione rappresenta l’opportunità per emanciparsi da un paesino chiuso e retrogrado, grazie anche alla buona accoglienza riservata loro dalla famiglia del proprio congiunto:

Sono partita dalla Sicilia che è venuto mio marito a prendermi. Ci eravamo fatti fidanzati, siamo stati cinque mesi fidanzati e poi ci siamo sposati. Ed è quarantuno anni che sono in Belgio. Sono arrivata che avevo ventidue anni. Il viaggio mi è sembrato bene, perché io non ero mai uscita da Villarosa. A me sembrava un viaggio di nozze. E allora mi è sembrato un viaggio bene. Quando sono entrata in Belgio mi ho sentito proprio sola, che non avevo nessuno da parte mia. Mia suocera e mio suocero mi hanno accolto come una figlia e così piano piano mi sono abituata. Il primo ricordo è stato che quando sono arrivata qua mio suocero mi ha abbracciato e mi ha detto «Io ti voglio come una figlia» e i miei cognati mi hanno abbracciato come una sorella. E questo mi è rimasto in impressione.

L’arrivo in Belgio può diventare un momento di delusione per le donne italiane. Nelle lettere i mariti e parenti descrivono il Paese come il paradiso, per via delle nuove possibilità di lavoro e la paga puntuale, mentre omettono ogni riferimento al clima continentale, alle sistemazioni precarie, agli episodi di razzismo. Per molte di loro l’impatto con queste difficoltà rappresenta un momento di autentico shock:

Quando siamo arrivati in Belgio ci è venuto a prendere l’impiegato della mina. Ci ha messo su un camion di bestiame, che forse non si può dire. Un camion della guerra con delle panche. Ci hanno seduto lì, ci hanno dato una coperta- là ci hanno diviso. Era novembre, io ero partita con il sole, con il cielo splendido e sono arrivata qui che era tutto grigio con questa polvere che entrava d’dappertutto, nei denti, nelle orecchie, negli occhi. Tutto sto scuro e

io pensavo «ma dove siamo arrivati qua?»Il proprietario della cantina era un Belgio. Era gentile, cercava di farsi capire. Era molto, molto severo ma gentile. Non c’è stata accoglienza tra gli italiani. Mi hanno chiesto da dove venivo e io glielo ho detto. C’erano quelli che erano nati qui o che erano arrivati in epoca fascista e ridevano di noi, non ci hanno mai aiutato, anzi quando parlavamo ridevano perché non sapevamo parlare. E questo mi ha imbestialita.123

Questa incapacità a reagire fece si che in molte famiglie furono i figli, anche se giovani, a gestire la famiglia e in particolare le relazioni con la società d’accoglienza. I figli, grazie alla scuola, imparavano la lingua più velocemente e avevano meno difficoltà a integrarsi:

Sono venuta il Belgio nel 1952 avevo otto anni e sono arrivata a Gleek. Quando sono arrivata ho trovato il gelo. E quando ho trovato il clima io piangevo come una bambina […]. Sono venuta come migrante per venire a trovare mio padre, con mia mamma siamo venuti tutti insieme. Sentivo tristezza, malinconia. Mi aspettavo più accoglienza qui in Belgio. Io prima di partire ero allegra in Sicilia, qui malinconica. Questa differenza? Prima per il clima. Secondo il contatto con le persone. Mia mamma è cascata malata del