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La trasformazione in emigrazione permanente (1950-1956) 2.1 I cambiamenti nell’emigrazione in Belgio

2.4 Il ricongiungimento familiare

Tra il 1946 e il 1956 le comunità italiane in Belgio diventano permanenti, grazie all’arrivo di familiari, inattivi e non, che contribuiscono a rallentare sino ad annullare l’idea del ritorno in patria. Del resto – come detto – il Belgio è di per sé una meta migratoria fondamentalmente maschile, per via del tipo di lavoro previsto dagli accordi bilaterali.64 Le istituzioni quindi, per renderla una meta maggiormente appetibile, decidono di inserire agevolazioni per il ricongiungimento familiare e per l’invio delle rimesse già negli articoli del trattato.65 Dopo una breve fase di emigrazione maschile e temporanea, comincia quindi l’arrivo dei familiari, rassicurati dall’esperienza del capofamiglia, di un conoscente o di un familiare che ha potuto costatare l’effettiva possibilità di riscatto sociale.

Già nel 1947 l’ambasciata d’Italia scrive al Ministero degli Affari Esteri, direzione generale Emigrazione, un telespresso in cui avverte dei numerosi inconvenienti che ha precedentemente segnalato alle Associazioni Carbonifere del Belgio. Nella lettera s’insiste sull’importanza di alloggiamenti decenti in vista del ricongiungimento familiare che permetterebbe l’accoglienza delle famiglie in arrivo. L’ambasciatore, sebbene consapevole che le associazioni avrebbero al più presto risolto il problema, è preoccupato per la quantità di italiani costretti a vivere negli ex-campi di prigionia:

64 De Clementi, Il prezzo della ricostruzione, Laterza, Bari 2010.

65 Artt. 1-8 dell’Accordo, in AAVV, Italia e Belgio, in «L’Italia e le altre nazioni», Mae, Roma, s.a.

Je sais quelles sont le difficultés actuelles du logement et Je n'ignore pas les efforts fournis par le gouvernement belge afin de résoudre dans le plus bref délai un problème aussi important. […] Tel est le cas qui s'est présenté au Charbonnage du Rieur du Coeur à Quaregnon, provoquant l'intervention du Service Emigration de cette Ambassade, où les ouvriers italiens on été transférés d'urgence de leurs phalanstères dans des baraque qui avaient servi de logement aux prisonniers allemands et qui n'étaient pas encore aménagées.66

Nel giro di mesi, pochi anni al massimo, tra il Belgio e le zone povere dell’Italia si creano catene solide di migrazione, che permettono il trasferimento di numerosi italiani che vanno a ricreare nella patria d’accoglienza le strutture sociali e culturali dei paesi di origine.67 Le zone minerarie devono quindi attrezzarsi con strutture di ricezione atte a ospitare queste nuove comunità, incrementando così l’indotto economico creato dalla miniera. In questo periodo proliferano cantine, ristoranti e piccoli ricoveri, che diventano fonte di guadagno per i Belgi delle zone minerarie e per gli italiani già integrati. L’arrivo dei familiari conviene a tutti: i residenti delle zone minerarie incrementano i loro guadagni; le istituzioni rallentano la creazione di coppie miste e mantengono più facilmente isolate le comunità straniere; le società carbonifere possono contare su lavoratori più disciplinati, intenti a provvedere ai propri familiari; le istituzioni italiane diminuiscono ulteriormente la quota di inattivi a suo carico.

Il ricongiungimento modifica la realtà sociale degli emigrati. «L’arrivo di 15.000 familiari [nel 1948, ndr] servì a riequilibrare questo rapporto e accelerò il trasloco dalle cantines alle abitazioni private».68 Con la presenza delle famiglie, infatti, aumentano le richieste di abitazioni consone, si inserisce nuova forza lavoro nel mercato e si costringe la scuola e la sanità belga ad adeguarsi alla presenza italiana. Questo confronto non impedisce comunque il mantenimento di tradizioni e condivisione soprattutto tra corregionali e compaesani:

66 A. Mae, MAE, A.P., 1947, Belgio 83/1, A.P. 146-50, busta 3.

67 M. Ambrosini, Delle reti e oltre: processi migratori, legami sociali e istituzioni, in «Working papers del dipartimento di studi sociali e politici», Milano, 18/01/2006, in www.sociol.unimi.it 68 A. De Clementi, Il prezzo della ricostruzione, cit., p. 101.

L'immigration en grappe n'est pas étranger à la formation de ces colonies. […] La formation de ces groupes compacts permet l'établissement de superstructures et le maintien de liens et de traditions avec les région italiennes d'origine69.

I primi familiari giunti arrivano durante la crisi di sovrapproduzione del 1948, durante la quale il Belgio decide di limitare la presenza di lavoratori stranieri nelle proprie industrie. In questa fase le istituzioni non garantiscono alcuna forma di assistenza agli stranieri, rendendo la loro permanenza ancora più incerta:

Le dure condizioni di vita e di lavoro dei nostri emigranti non sono mutate. E non si attenua l’incombente minaccia di licenziamento dei minatori che con sacrificio si sono adattati all’ambiente. Minaccia particolarmente penosa quando si pensi che in Belgio sono giunte oltre 4800 famiglie di minatori con più di 8000 bambini. L’ultimo convoglio dello scorso luglio ha recato a Bruxelles 106 mogli -7 delle quali sposate per procura- e 135 bambini. Quest’emigrazione di famiglie che promette un miglioramento delle condizioni di vita dei nostri lavoratori è la “fissazione” della nostra manodopera emigrata non può e non deve essere esposta all’incubo opprimente del licenziamento e del rimpatrio.70

Ciononostante, la percentuale dei ricongiungimenti aumenta in modo continuo per tutti gli anni cinquanta. Tra il 1946 e il 1956 però gli interventi a tutela delle famiglie sono ancora poco incisivi. Jaques Moins, che ha difeso per tutta la sua carriera gli italiani nei tribunali belgi, racconta che:

Nel 1947, a metà delle partenze, ebbero il diritto di fare venire le famiglie ma solo chi aveva il modo di accoglierle e mantenerle. Il ricongiungimento non fu proprio incoraggiato. Sì, a livello di dichiarazioni pubbliche sicuramente, ma nella pratica è stata un’altra cosa e nel periodo fino al 1954-56 le condizioni materiali erano molto difficili. Anche questo è migliorato come conseguenza della catastrofe di Marcinelle, perché prima l’opinione pubblica belga, non si era resa conto, non si era interessata veramente alle condizioni di lavoro. E come saprete, quello del minatore era considerato l’ultimo dei mestieri perché è pericoloso, insalubre, senza prospettive.71

È la catastrofe di Marcinelle a rendere palesi le condizioni di vita degli emigrati. In quel periodo iniziano quindi le prime rivendicazioni sindacali e i

69 AAVV, Tous gueules noires, historie de l’immigration dans le bassin minier du nord-pas-de-

calais, in Collection «mémoires de Gallette!», n.8, 2004, p. 102

70 Minatori italiani in Belgio, in «Bollettino quindicinale dell’emigrazione», anno II, n. 16, 25 agosto 1948, p. 313. [Archivio Mae]

primi interventi istituzionali. All’inizio degli anni sessanta l’arrivo di familiari supera quello dei lavoratori. Si giunge così a una fase di migrazione più matura, con l’aumento in Belgio di inattivi,72 in particolare donne e bambini. Dagli anni sessanta, per la prima volta il saldo demografico è quasi nullo.73 In questo periodo cambia la composizione di chi decide di tornare in Italia: si tratta soprattutto di anziani o giovani che non sono riusciti a integrarsi nei luoghi di lavoro. Coloro che si fanno raggiungere dalla famiglia difficilmente decidono di tornare. Per le istituzioni belghe la consapevolezza della presenza degli italiani arriva quando, a seguito della crisi petrolifera del 1974, la comunità italiana non registra flessioni nella numerosità delle presenze nonostante l’insorgere di gravi processi di disoccupazione, soprattutto tra gli immigrati.

Fu la crisi petrolifera del 1974 a dimostrare che gli immigrati in Belgio erano destinati a restare. Con il triplicarsi del tasso di disoccupazione che si attestava attorno al 10%, fatto che riportava il Belgio quasi alla situazione della “grande depressione”, ci si attendeva che gli immigrati, molto più disoccupati dei lavoratori locali perché impiegati in settori marginali della produzione, quelli più toccati dalla ristrutturazione industriale, sarebbero tornati al loro paese. Ma così non fu. Tra il 1975 e il 1980 si assistette invece ad una serie di studi storici e demografici volti a dimostrare che le immigrazioni in Belgio e in Europa rivestivano un carattere stabile e permanente.74

In questo periodo aumentano gli studi sociologici volti ad approfondire le informazioni sulla realtà italiana in Belgio. Uno studio condotto dalle istituzioni italiane nel 1975 rivela che la popolazione italiana, anche se ancora per la maggior parte giovane, «manifesta sintomi di consolidamento e inizi di invecchiamento, pur essendo larghissimamente compensata da un movimento naturale consistente»75. Infatti, nella metà degli anni settanta la comunità italiana accoglie una buona parte di italiani (38,8%) in età scolare e prescolare.76

Nel periodo che intercorre tra l’arrivo dei familiari e la presa di coscienza istituzionale per le comunità italiane in Belgio, si costruisce una realtà sociale

72 Ferrieri G. Aspetti socio-economici della presenza italiana in Belgio in Affari sociali internazionali, anno XXVII, n. 1, Milano, Francoangeli, 1999.

73 Caprarelli A., L’emigrazione italiana in Belgio nel secondo dopoguerra vista attraverso la

televisione, cit.

74 Ducoli B., L’emigrazione italiana in Belgio tra destino e storia, in Fondazione Migrantes, Rapporto italiani nel mondo, Roma 2009, p. 322.

75 AA. VV., La scuola italiana ed i problemi dell’emigrazione verso il Belgio, cit., p. 14. 76 Ibidem, p. 12.

isolata, poco conosciuta sia dalla società belga che da quella italiana in patria. Questo isolamento, affatto casuale, è il centro da cui si sviluppano racconti di vita assenti dalle narrazioni classiche istituzionali.

Babbo ha detto: «Emigro per due anni e dopo, quando tutti i debiti saranno pagati, se Dio vuole me ne torno in paese». […] In Francia, a Morange, vicino alla frontiera tedesca, parlavano tutti tedesco. Mio babbo ci è stato cinque mesi, ma si sentiva triste lontano di noi «Dovete venire –scriveva- pane secco e pane secco, ma stiamo tutti insieme». Quando siamo partite, non sapevamo spiegarci, per chiedere la linea. Ci rispondevano «Oui, oui», ma mia madre, poveretta, non capiva. […] questo fu il 21 dicembre del 1957. Ci portarono dove abitavano i militari, quando c’era la guerra. Un campo di concentramento. Non c’era niente e le case stavano quasi cascando. Io non mangiavo più per lo shock. Faceva un freddo da morire; e l’acqua colava dai tetti che erano tutti aperti, e dovevamo stare attenti perché c’era il deposito delle armi In Belgio cominciò di nuovo la mala vita. Una stanza sotto, una stanza sopra. Senza acqua, senza toletta, sempre fuori, sempre fuori, andare e venire e lavarsi in cucina. Pagavamo 700 franchi ed abitavamo in questa stessa

rue des mineurs dove però non ero sola: ci stava la cognata, ci stava la

suocera. Ma, anche se era un inferno, per l’amore che volevo a mio marito, ho abbracciato tutto ancora.77

Quando una famiglia decide di raggiungere il proprio caro, compie un gesto di coraggio che coinvolge l’intero paese. I compaesani sanno che una partenza comporta l’apertura di nuove possibilità anche per loro. Per questo motivo spesso l’occasione è condivisa non solo all’interno del nucleo familiare, ma anche nel vicinato:

Uno dei ricordi che ho conservato tantissimo dentro di me. Io ero a Sutera, ero alla prima elementare, avevo iniziato la seconda nel ’57 e la maestra è venuta all’autobus con tutti gli scolari. Mi hanno cantato delle canzoni che si cantavano allora, mi hanno portato la coroncina, l’immaginetta del santo padrone, San Paolino, e mi hanno salutato sino a che l’autobus non è sparito nella vista loro. Ed è stato un momento molto forte.78

I familiari, per raggiungere il Belgio, utilizzano gli stessi convogli dei minatori e vengono sottoposti allo stesso trattamento. Molti emigrati, allora bambini, ricordano il viaggio in treno in modo nitido, proprio per l’impatto che questo avrà nelle loro vite:

77 Schiavo M., Italiane in Belgio, le immigrate raccontano, Tullio Pironti, Napoli 1984, p. 138-9. 78 Carmela Ingrao in «Mémoires d’Europe», Liegi.

Io avevo paura che si perdevano i bagagli nel treno. Mi sono messa a cercarli e li ho trovati. Sono andata da mia madre e mi sono messa a piangere e gli ho detto «ho trovato le bagaglie». Poi ci siamo fermati a Milano, ci hanno dato un po’ da mangiare, il letto proprio come degli schiavi. Era a tanti piani con la coperta come i soldati. Ci hanno dato il minestrone come i soldati. Proprio veramente come gli schiavi. Ho pianto per tutto il viaggio da Milano a Liegi.79

Le società carbonifere preferiscono mantenere le comunità di lavoratori isolate, sia per gestire al meglio eventuali rivendicazioni sindacali che per limitare l’ingerenza statale nella gestione del processo. Per questi motivi il patronato delle miniere si occupa di molteplici aspetti della vita degli italiani: nomina alcuni delegati sociali per far da tramite tra lavoratori e proprietari, fornisce gli interpreti per la firma dei contratti, chiarisce i problemi amministrativi, favorisce l’arrivo dei familiari e la loro sistemazione, permette agevolazioni nell’invio delle rimesse. 80 La maggior parte delle aziende incoraggia il ricongiungimento familiare, considerato il maggiore elemento di stabilizzazione per la manodopera.81 Molto spesso il ricongiungimento è subordinato a problemi di natura economica e logistica e, per questo, solitamente avviene a circa un anno di distanza dall’arrivo del capofamiglia.

Il giorno prima dell’arrivo della famiglia l’alloggio era pronto, cioè la stanza era pronta. Ho raccomandato a mia moglie di fare attenzione e tenere bene i bambini perché tutti gli uomini lavoravano di notte e di giorno dormivano. Avevo questa stanza al primo piano, come molti altri, con una finestrina di un metro per un metro che dava luce e aria. Lì si doveva fare tutto: fare da mangiare, dormire noi e i quattro bambini: uno dormiva con noi, e gli altri tre avevano un letto a parte.82

La percentuale di familiari presenti si mantiene bassa sul finire degli anni quaranta, quando ancora gli uomini migrano con la speranza di tornare in Italia al più presto. La maggior parte dei migranti, infatti, nei primi anni di permanenza all’estero, spende i propri risparmi per comprare casa nei paesi d’origine, aspettando che la situazione lavorativa italiana consenta loro il rientro. Il minatore

79 Giovanna Castrogiovanni, in «Mémoires d’Europe», Liegi 80 Morelli A., Gli italiani del Belgio, cit. p. 121

81 Forti A., Da Roma a Marcinelle, Bois du Cazier asbl, Marcinelle 2004, cit., p. 42. 82 Testimonianza di Pietro Di Maria, in Seghetto A. Le pietre della speranza cit., p. 195.

Giuseppe Di Trapani racconta che dopo il 1955 sono numerosissime le donne che arrivano in Belgio:

Io sono arrivato in Belgio nel 1948 e stavo nelle Cantines […] Noi italiani, appena arrivati, era raro che avevamo le mogli. Le donne sono cominciate a venire verso il 1955, come mia moglie, fino al 1965 c’è stata una massa di donne che sono arrivate.83

Le società carbonifere, davanti alla mole di familiari giunti, non poteva più ripiegare al problema delle abitazioni con baracche e cantine, come aveva fatto inizialmente. La dismissione dei campi era un lungo processo e vi sono testimonianze che raccontano di episodi svoltisi nelle baracche anche a metà degli anni cinquanta. Ciononostante, le pressioni istituzionali e le insofferenze dei lavoratori, ma soprattutto le nuove possibilità di guadagno, obbligano le società a costruire abitazioni per i minatori o a creare sistemi di affitto agevolato per permettere loro di migliorare la propria situazione abitativa e di fare arrivare la famiglia.

Il patron sapeva bene che se la famiglia è lontana il lavoratore è infelice e lavora male. Qualsiasi spesa per incentivare il lavoro era fatta dallo

charbonnages, anche se avesse dovuto aprire un bordello accanto alle

baracche lo avrebbe fatto. Avrebbero fatto di tutto per guadagnare84

I familiari incontrano maggiori difficoltà a integrarsi in Belgio rispetto ai parenti lavoratori, a causa della mancanza di luoghi di socializzazione. Le famiglie vivono nelle cité minerarie, circondate da connazionali e compaesani: per queste ragioni non hanno necessità di conoscere il francese. Questa barriera geografica ritarda l’apprendimento della lingua locale, complicato ulteriormente da un diffuso analfabetismo, dalla difficoltà ad inserirsi negli ambienti lavorativi, in particolare in quelli caratterizzati da presenze multietniche. Inoltre, soprattutto nei primi periodi, gli italiani stessi non cercano di integrarsi, ma preferiscono rimanere chiusi all’interno della loro famiglia e della loro comunità:

83 Giuseppe Di Trapani, Bois Du Luc, 2010. 84 Antony Gerlasche, Charleroi, 2010.

Noi si aveva una famiglia numerosa, noi stavamo tra di noi, chi se ne fregava degli altri italiani! Avevamo una famiglia molto unita, era enorme, cugini, tutti tra di noi! Noi non cercavamo mica gli altri italiani.85

Sono le donne a subire in misura maggiore l’isolamento, data la scarsa conoscenza della lingua, degli usi e dei costumi del posto e il basso livello d’istruzione. Sicuramente almeno agli inizi, le donne non sono interessate a un’attività lavorativa e spesso hanno una quantità di figli tale da rendere impossibile mantenere un lavoro in modo continuativo, perdendo la possibilità di inserirsi nei canali di socializzazione derivanti dall’ambiente lavorativo.86

L’arrivo delle famiglie in una prima fase aumenta i motivi di razzismo da parte della società civile belga, che nella maggior parte dei casi mostra remore ad affittare le case agli italiani, giudicati troppo chiassosi. Inoltre, le famiglie troppo numerose spaventano i proprietari, convinti che questo possa rendere difficile la puntualità nel pagamento della pigione. La religiosità italiana (in particolare, il culto dei santi) è considerata dai belgi quasi pagana. Il tipo di cucina e di educazione familiare è vista con sospetto. Per tutti gli anni cinquanta e sessanta gli italiani sono vittime di forme di razzismo, con evidenti difficoltà ad integrarsi, a trovare abitazioni o lavori dignitosi.

Noi volevamo comprarci una casa, perché con tutta sta famiglia grande c’era chi ce l’affittava, la casa, e chi non ce l’affittava. Anche a Carnières e a Boussu era stato difficile: è sempre così quando hai la famiglia numerosa, anche per i belgi. A Carnières una madama chiese a mio marito quanti figli aveva. Lui rispose che aveva quattro cani e due figli. La signora chiese «Sont-

ils jolis, vos chiens?» Angelo risponde «Si, certo». Dopo tre, quattro giorni

che eravamo là, e si era accorta che i figli erano sei chiamò mio marito per chiedere spiegazioni e lui rispose, ridendo, che aveva parlato dei due figli che erano a casa, perché gli altri quattro erano da suo fratello. È perché quelli con le famiglie numerose spesso non potevano pagare. Ma quando la signora vide che Angelo lavorava ad Anderlues alla mina, e ci portava i soldi prima che finisse il mese, imparò a stimarci e si affezionò ance ai bambini, che invitava sempre a casa sua.87

85 Caterina Mulè, Tilleul, giugno 2012.

86 Vacca G., Le donne sarde emigrate in Belgio: il rapporto con la casa, in: Gentileschi M. L. (a cura di), Geografia e storie di donne, spazi della cultura e del lavoro, Cagliari, Cuec, 2004, atti del XXXVIII, Congresso geografico italiano (Geographia/3), p. 9-10.

Nonostante l’arrivo in Belgio rappresenti un salto nel buio, aggravato per giunta dalla mancanza di una politica belga finalizzata all’inserimento e alla socializzazione delle donne immigrate, il ricongiungimento ai loro uomini è per molte donne l’unica possibilità di un reale miglioramento delle proprie condizioni economiche. Per questo, nonostante i disagi, molte donne decidono di affrontare questo passo. L’ingresso delle donne e dei minorenni in Belgio è consentito solo per ricongiungimento maritale o familiare.88 Per questa ragione le reti parentali diventano molto elastiche, allargandosi a comprendere conoscenti e compaesani:

Aiutava[mo] anche gente che non conosceva[mo]. Paesani che si presentava[mo], arrivavano da lì [la Sicilia, ndr] allora si invitavano a casa a mangiare e tutto. Gente non canosciuta. Può darsi il padre li canosceva, se c’era bisogno eramo tutti d’accordo!89

Nei racconti dei familiari la scelta di raggiungere il parente è un momento di coraggio e incoscienza. Molti di loro non hanno cognizione delle reali condizioni di vita che troveranno. L’inconsapevolezza è anche dettata dalle corrispondenze, che spesso definiscono il Belgio come un luogo di benessere:

Mia madre aveva preparato vestiti perché, dice: «prima di arrivare in Belgio ci dobbiamo cambiare per essere sistemati», e invece ci sono venuti a prendere con i camion dove mettevano il carbone, l’hanno lavato un pochettino […]. Ciascuno veniva con il camion della propria miniera. Dicevano ‘io ci ho 4, 5 famiglie’, allora prendevano questi camion, li lavavano un pochettino, ci mettevano i banchi. Quando sono montato sul camion dove toccavo toccavo, diventava nero!90

Gli emigrati si organizzano in piccole comunità. Coloro che sono in Belgio da più tempo aprono piccole cantine e boutique in cui vendere prodotti alimentari italiani, specialmente pasta e pomodoro. Nelle case il giardino è spesso occupato da piccoli orti. I nuovi arrivati portano dal paese d’origine i prodotti tipici, utilizzati come biglietto di ingresso all’interno della nuova comunità: