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I pericoli della miniera: le malattie professionali e gli incident

La trasformazione in emigrazione permanente (1950-1956) 2.1 I cambiamenti nell’emigrazione in Belgio

2.2 I pericoli della miniera: le malattie professionali e gli incident

Esiste tra i minatori una forma di orgoglio per la loro capacità di adattarsi alle pessime condizioni di lavoro in miniera. La maggior parte degli intervistati riesce a sopravvivere ai pericoli della miniera grazie alla loro furbizia e a piccoli

escamotage, che negli anni limitano i pericoli cui sono esposti. Molti di loro, ad

esempio, preferiscono lavorare la notte perché quello è il turno in cui si viene meno a contatto con le polveri che causano le malattie professionali:

Mio padre dal 1946 al 1949 ha lavorato come minatore, poi ha capito un pochettino la malattia della silicosi e quando è ritornato, nel 1950, il dottore gli aveva detto: «fai attenzione che sei quasi al terzo grado di malattia» e mio padre ha avuto la fortuna, forse ha capito, e ha fatto sempre la notte. La notte si portava solo il materiale dalle taglie e non si estraeva carbone, si entrava nella taglia, al piede della taglia mettevano la legna, che ogni metro che si avanzava si doveva armare altrimenti cascava e tanta, tanta gente per inavvertenza o per guadagnare un poco di più rimaneva schiacciata. Che poi erano proprio pietre che cadevano e rimanevano di sotto e mio padre ha avuto la fortuna di lavorare quasi per ventidue anni di notte. E di notte non ce n’è polvere, lui camminava per le taglie, camminavano nelle gallerie e quando arrivavano a piedi nelle taglie –le taglie sono strade di carbone, possono essere di trenta, quaranta centimetri possono essere un metro e sono a strade e poro tiravano il carbone, armavano e lasciavano. Mettevano questa legna per non fare cascare e magari c’erano taglie di trenta centimetri che dovevano camminare proprio… Mio padre mi diceva che lui metteva un casco, che ci aveva il casco da minatore, lui metteva il casco così (indica davanti a sé) se il casco passava, passava lui. Altrimenti dovevano levare un pochettino di pietra per potere lavorare e avanzare. Era un lavoraccio. E poi il caldo, l’acqua. C’erano anche morti per colpa dell’acqua. Che se sei in una piccola galleria e viene fuori l’acqua tutta in una volta annegava la taglia e si moriva. Poi c’era il gas, il grisù, tanti pericoli veramente.35

Tra i minatori la costruzione di un’identità collettiva trova la sua ragione d’essere nella lotta contro i pericoli e le malattie della miniera, spesso accompagnata dalla più totale indifferenza delle società carbonifere. Il lavoro in miniera è particolarmente usurante, soprattutto per via delle malattie professionali, che colpiscono la maggior parte dei lavoratori.

Il tasso di attività degli stranieri tra il 1947 e il 1961 scende dal 52% al 37%.36 La diminuzione è collegabile alla grande percentuale di pensionati e di invalidi, costretti a smettere di lavorare a causa delle malattie contratte in miniera. Jaques Moins, avvocato e sindacalista belga, ammette che tra i Belgi è ben noto il grado di pericolosità dell’usurante lavoro in miniera:

Nella pratica nel periodo fino al 1954-56 le condizioni materiali erano molto difficili. Anche questo è migliorato come conseguenza della catastrofe di Marcinelle, perché prima l’opinione pubblica belga, non si era resa conto, non si era interessata veramente alle condizioni di lavoro. E come saprete, quello del minatore era considerato l’ultimo dei mestieri perché è pericoloso, insalubre, senza prospettive. E quindi i belgi non erano più in questo mestiere. Prima della guerra facevamo venire soprattutto della gente dei Paesi dell’est, i polacchi soprattutto ma anche dei cechi. E poi ci si è rivolti anche ad altri paesi e agli italiani in particolare ma a partire dal 1956, c’è stata una presa di coscienza. È stata la catastrofe. Il problema che soprattutto ci si è posti, è stato quello della sicurezza nelle mine e anche quello della malattia professionale di minatori.37

Il ricorso alla manodopera straniera è voluto dalle istituzioni del Belgio proprio per contrastare l’eccessiva sindacalizzazione dei minatori autoctoni. Agli italiani viene proibita qualunque forma di associazione politica o sindacale, con minaccia di immediato rimpatrio. Di conseguenza, le battaglie sindacali a difesa dei lavoratori stranieri, e italiani in particolare, cominciano solo negli anni sessanta, da azioni concertate tra cattolici e comunisti. Tra le tante rivendicazioni portate avanti, la più importante è quella per il riconoscimento della silicosi come malattia professionale, che però avviene solo nel 1975, quando ormai sono rimasti attivi solo una decina di pozzi di estrazione.

Nel periodo tra il 1946 e il 1975 i gruppi più influenti nel panorama politico e sociale degli immigrati sono due: i comunisti e i cattolici.38 I primi sono presenti sin dal 1922 e partecipano poi attivamente alla Resistenza. Hanno un proprio giornale, «Italia libera», con cui portano avanti le battaglie per i diritti dei nuovi arrivati dopo gli accordi del 1946. Le realtà cattoliche, invece, si organizzano più

36 FERRIERI Gaetano, Aspetti socio-economici della presenza italiana in Belgio, in Affari sociali internazionali, anno XXVII, n. 1, Milano, Francoangeli, 1999.

37 Jaques Moins, Bruxelles, 2012. 38 Morelli A., Gli italiani del Belgio, cit.

tardi, a seguito della firma del protocollo, non in maniera spontanea ma per volontà del sindacato cattolico belga Csc39, che contatta le Acli, associazioni di ispirazione cattolica che si occupano di assistenza e di supporto. I patronati Acli e i missionari cattolici sono gli unici che si interessano all’accoglienza dei cittadini italiani. Dal 1947 viene edito un giornale cattolico, “Il Sole d’Italia”, finanziato congiuntamente da Acli, Csc, governo italiano e governo belga, convinti che la mediazione delle associazioni cattoliche possa evitare picchi di tensione sociale. Un’altra realtà importante per gli emigrati è rappresentata dall’Onarmo – l’Opera nazionale assistenza religiosa e morale per gli operai – che a partire dal 1947 apre cinque uffici con il compito di «risolvere i problemi dell’operaio ed evangelizzare il mondo»40. Sebbene le attività politiche siano vietate, queste due realtà consentono ai minatori un’integrazione più veloce e una conseguente maggiore consapevolezza delle proprie condizioni di vita. Nel giro di pochi anni, infatti, diventa sempre più palese che alle società carbonifere i rischi del mestiere di minatore siano ben noti e volutamente taciuti ai nuovi arrivati. Le istituzioni, inoltre, fino alla catastrofe di Marcinelle, a causa della loro ignavia, sembrano quasi conniventi nello sfruttamento dei lavoratori:

Gli italiani hanno sofferto molto perché bisogna dirlo com’era. La malattia dei minatori la conoscevano, quelli che organizzavano, i dottori dell’epoca e non gli italiani che venivano a lavorare. Quelli non hanno avvertito nessuno! E la gente è andata un po’ tranquillamente perché, per esempio, qualcuno che viveva in montagna in Abruzzo. Loro non ci sarebbero dovuti andare. Ma purtroppo. Anche i siciliani, quelli che venivano dalle miniere. Ma in Sicilia le miniere erano quasi a cielo aperto, mica è la stessa cosa!41

Il coraggio e l’incoscienza dei minatori vengono quindi ancora più esaltati dalle nuove generazioni davanti al disinteresse istituzionale e l’ignavia dei padroni. Enzo Monaco, rappresentate del Comites42 ed immigrato di seconda generazione, racconta il suo impatto con la storia dei minatori in Belgio attraverso le reti di amicizia istaurate con i loro figli:

39 Il C.s.c. è il sindacato cattolico belga. 40Morelli A., Gli italiani del Belgio, cit., p. 120 41 D’Orazio, Tubize, 2012

42 Si tratta dei Comitati italiani all’estero, organi consultivi che collaborano con le istituzioni locali.

Ho imparato da loro soprattutto stimavo molto i loro genitori, erano coscienti del sacrificio fatto ma non del pericolo, è vero, probabilmente perché non avevano la cultura della miniera, ci hanno rimesso la salute per questo, quando sono scesi giù avevano solo il coraggio. Non avevano la cultura perché il nonno o il padre del minatore belga insegnava il figlio a proteggersi, la cultura del “non fare”. Non fare troppe ore. Non lavorare sempre. Ogni tanto stravaccarsi per qualche tempo. Curarsi in una certa maniera. E quindi sono scesi giù con il coraggio come solo bagaglio e la voglia di emancipare se stesso e la famiglia dalla miniera. Non coscienti ovviamente del pericolo, non coscienti delle malattie che si sono rivelate inesorabili. Io ne ho conosciuti tanti, tra i quali mio cognato che è morto a cinquanta anni asfissiato che non aveva più polmoni e ha lavorato in miniera solo dieci anni in miniera. Ha cominciato che aveva ventiquattro anni nel ’50, ne è uscito a trentaquattro ed è morto a cinquanta.43

L’incoscienza più volte incontrata nei racconti dei minatori si scontra invece con una consapevolezza maggiore tra coloro che, giunti in Belgio in giovane età, hanno la possibilità di integrarsi e studiare. Proprio sulla vita nelle miniere si consuma lo scontro generazionale tra chi arriva per lavorare in miniera e i loro figli, che vivono della cité mineraria solo la dimensione sociale e non quella lavorativa. Del resto, impedire il reclutamento dei figli nelle miniere – pratica permessa, anche tra i minorenni, almeno sino ai primi anni cinquanta – è una delle rivendicazioni più importanti tra i minatori. Se da un lato questo consente ai giovani immigrati di migliorare la loro condizione sociale, contemporaneamente aumenta la frizione tra le generazioni, che vedono nella storia dei loro padri quella di una classe operaia profondamente sfruttata senza che da nessuna parte si levi alcuna protesta.

I minatori si battono per sottrarre i figli all’obbligo di quel lavoro usurante. Sebbene sia loro impedito di partecipare ad azioni sindacali concertate, già dal 1948 si contano numerose proteste finalizzate in particolare ad avere migliori alloggiamenti e a evitare che la loro prole sia costretta a seguire le loro orme:

La seconda rivendicazione dei lavoratori stranieri è l’abolizione della decisione del Ministero del Lavoro che obbliga i figli dei minatori a lavorare in miniera, salvo i casi di inabilità fisica. E chiaramente stipulato nel loro contratto che essi godranno degli stessi vantaggi, ed avranno gli stessi diritti dei lavoratori belgi. La realtà è ben diversa […] c’è da spaventarsi dinnanzi al numero elevato di incidenti mortali che si producono tra i lavoratori stranieri. Noi ci rifiutiamo di ammettere l’opinione secondo la quale questi incidenti sono da imputarsi, in grande maggioranza, alla negligenza dei lavoratori stessi. Crediamo che la causa risieda nella mancanza di conoscenza e di preparazione indispensabili ad un lavoratore nuovo.44

Nei primi anni di emigrazione assistita anche ai figli degli emigrati è esteso l’obbligo a mantenere il permesso di soggiorno “B” nei primi cinque anni dal raggiungimento dell’età utile per lavorare. Già a quattordici anni i giovani italiani vengono inizialmente reclutati nelle miniere e nelle cave di carbone:

Noi non abbiamo potuto dire: «No, non vado a lavorare in mina». Allora ci hanno obbligato di andare a lavorare in mina perché in mina c’erano ancora dei bambini dai quattordici e quindici anni che lavoravano in mina, mi comprendi? In Belgio avevano bisogno di tutti quanti, per noi è stato una rovina! Io non sono stato un ragazzo che ho detto a mio padre non voglio andare in mina, e mio padre quando ha sentito di andare in mina non ha fatto nessuna eccezione perché fuori non potevamo lavorare perché eravamo figli di stranieri.45

Spesso il divieto di lavorare in miniera imposto dai genitori ai figli è fonte di attrito nelle famiglie. I minatori sono ben remunerati e per i ragazzi non potere guadagnare ed essere costretti a studiare è fonte di malcontento e di conflitto generazionale. Negli anni però la consapevolezza dei sacrifici dei padri, permette una rilettura in chiave diversa degli episodi legati all’impossibilità di scegliersi autonomamente la propria carriera:

44Discorso di Giovanni Doeraene, atti del Congresso della centrale dei liberi minatori del Belgio (organizzazione cattolica) in Minatori italiani in Belgio, «Bollettino quindicinale dell’emigrazione» anno II, n. 16, 10 agosto 1948, p. 313. [Archivio Mae]

Non ho potuto lavorare in miniera. Mio padre non voleva, voleva che andavo a scuola e imparava un mestiere. Anche se a mia di studiare non mi andava niente… Ora puoi vederle nei musei e le fanno vedere belle, mica era quella la miniera, i minatori non erano contenti. Ora fanno scendere trenta metri ma i minatori: millecento metri! E poi non c’era la luce, c’era la polvere. Stavano tutta la giornata con quel rumore e con la maschera per la polvere. Mio padre, che faceva il minatore, trenta centimetri dal suolo si infilava, come un sorcio si metteva e lavorava. E si lavorava nudi per il caldo, si spogliavano.46

Altre volte, invece, il bisogno è tale che i minatori sono costretti ad accettare che anche i figli vengano ingaggiati. Durante la commemorazione di Marcinelle, un minatore racconta, con un’intensità notevole, la sua decisione d’intraprendere quella carriera, che poi lo porterà a partecipare ai soccorsi al Bois du Cazier:

All’inizio nella mina mi occupavo di piazzare la gente, sorvegliare. Il capo era un amico di mio padre, era un belga. Mi ha detto: «tu sei il figlio di Carmelo? Che devi fare qua?» E io gli ho detto: «Gaston, voglio aiutare mio padre, siamo tanti». «Guarda che se ti vede tuo padre!» e mi porta in galleria. Nella galleria, in quella miniera, la taglia di carbone era circa 1,10 m, 1,20 m. le taglie montano. Mio padre era il primo perché era un pourion, uno che piazzava la gente, sorvegliava, lavorava con gli altri. E Gaston mi fa «Vedi dov’è Carmelo?». Ed io: «Non lo vedo, ma me lo immagino». «Tuo padre è

ici». Allora io ci vado, lui non se ne era accorto. Dice: «Mi prendi quel legno

là?» Perché per tenere il tetto c’erano dei pezzi di legno così che si mettevano sotto, ma se c’era da schiaccià, mica il legno lo teneva! Quando s’è voltato giusto, subito: «Chi ti ha detto di venire qua? Tua madre lo sa?» ed io: «Si che lo sa come sono stato ingaggiato». «Allora, stasera per cominciare tu te ne vai via, non ci ho bisogno di te, e stasera all’ingegnere do tante botte che si ricorda del mio nome». Allora io gli ho detto: «Papà, non ti arrabbiare», io sono un tipo calmo, non mi piace discutere. Gli ho detto: «Non ti arrabbiare, io sono venuto per aiutarti, lo sai bene che siamo tanti a casa». Dice: «Ah, vuoi lavorare? Sei venuto per lavorare? Io non lavoro abbastanza per casa? Là c’è la pala». Nella taglia ci sono 200 metri in altezza con le tole, dove la gente spala e tutte le cose scivolano verso il basso. «Talè, spala. Ora ti faccio

travagghiare io!». Ho lavorato cinque anni, ho voluto aiutare.47

La miniera è pericolosa sia per gli incidenti sempre incombenti che per le numerose malattie professionali che causa: l’umidità aumenta il rischio di reumatismi, le condizioni climatiche favoriscono sordità e vista debole. Le condizioni igienico-sanitarie generano numerosi casi di tubercolosi. In questo

46 Aldo Mulè, Tilleul, 2012.

ambiente è frequente la diffusione dell’Anchilostomiasi, un parassita che prolifera nelle zone calde e umide. La più grave delle malattie professionali è la silicosi, causata dal silicio che si deposita nei polmoni, dai quali non può essere più espulso. Di conseguenza, le cellule muoiono affaticando a loro volta quelle vicine, che con il tempo si logorano irrimediabilmente. Queste cellule morte causano la comparsa di noduli e fibromi detti “pseudotumorali”, per via della loro somiglianza ai tumori. 48 Nel 1961 uno studio attesta che il 60% dei lavoratori impiegati nel fondo delle miniere contrae la malattia nel giro di pochi anni di lavoro. I danni al sistema cardiaco e respiratorio inducono alle volte a complicazioni infettive, come la tubercolosi, che mettono a rischio la salute della famiglia. I sintomi lievi, come una forte tosse, possono apparire sin dal primo anno di lavoro, sino ad arrivare alle apnee e al punto in cui i dolori erano tale da far sembrare ai minatori che «si sputavano i polmoni»49. Il riconoscimento della patologia come malattia professionale era auspicato dai lavoratori perché avrebbe permesso di usufruire dei congedi lavorativi e del conseguente indennizzo in caso d’invalidità temporanea o permanente. Inoltre, l’applicazione di sistemi di monitoraggio e di misure preventive avrebbe consentito anche di diminuire il numero di malati e di individuare i soggetti che contraggono la malattia prima di eventuali degenerazioni. Viene così chiesta l’indipendenza dei medici incaricati di esaminare i lavoratori colpiti e che, in caso di contrazione della malattia, le indennità siano proporzionali al costo della vita.50

Un malato di silicosi, non ne vedrà uno che non apre la finestra spalancata, in pieno inverno, altrimenti si sente asfissiare. Si muore soffocati. Meglio non pensarci […] Io so come morirò –soffocato, con la bocca aperta. […] un minatore che va in pensione a cinquant’anni –e i tre quarti vanno in pensione anticipata- lo fa per sedersi. Sta seduto e aspetta. […] Un malato di silicosi ha male ovunque. Alle scapole, alla colonna vertebrale, ovunque. Solo a mettersi le dita sul petto ha male.51

La battaglia per il riconoscimento della silicosi come malattia professionale viene condotta in concerto da tutte le realtà di immigrati italiani. Dal canto loro, il

48 Ceccato S., Italiani a Liegi, cit., pp. 29-30.

49AAVV, Marcinelle 1956-2006, da 50 anni nel profondo del cuore, cit.

50 Ghirardelli G., Moins J., Memorandum sulla situazione dei lavoratori italiani im[m]igrati in

Belgio, s.e. Bruxelles, 1961.

governo e le società carbonifere sono perfettamente consapevoli delle malattie che vengono contratte dai minatori, ma decidono di non intervenire. Perché avvengano azioni concertate di rivendicazioni sulle condizioni di lavoro dei minatori italiani, si deve aspettare la catastrofe di Marcinelle, che rende impossibile mantenere il silenzio sulle realtà delle zone minerarie. Nel periodo precedente alla catastrofe i minatori escogitano però dei piccoli espedienti per ritardare le malattie, in particolare scegliendo mansioni meno pericolose o utilizzando qualche rimedio naturale:

Non è mica tanto bello in miniera, perché in miniera io lavorava in galleria ma qualche volta passava per le taglie, le taglie dove è così quando è alta (gesto con le mani) e non ti potevi alzare. In taglia è più duro, più difficile, ma passava qualche volta per trovare qualche tubo, raccordare l’aria. In miniera la gente sortivano e café! Io lo sa che facevo quando sortivo? Andavo a casa e bevevo un litro e mezzo di latte! Mentre gli altri, chi beveva birra, chi alcol, e questo! Nella vita bisogna curarsi e guarda, quando sono uscito dalla miniera, e io ho passato visite, avevo la ‘sta pensione della mina e piano piano me l’hanno ritirata tutta, piano piano. Lo sa quanto mi danno? prima era seicento euro ora sono trenta euro ogni due mesi. Pensano: questo a novantuno anni che deve fare? Tutti quelli che lavoravano in mina giovani hanno morto tutti. Non ce n’è neanche uno che vive. Anche quelli che hanno lavorato sei, sette anni. Ma io non lavoravo nella mina di carbone ma nella possiera [polvere]di

Caiù [pietra]. Il caiù è diverso dal carbone. Il carbone parte, il caiù non passa

più. È meglio quella di caiù che quella di carbone. La possiera di caiù è molto più leggera e facile da partire mentre quella di carbone entra e non esce più. Siccome io beveva il latte mi guariva. Io tagliava la pietra per fare le gallerie grande e poi le taglie scendevano di lato. Se non fai la galleria grande non può scendere il carbone, io tagliava le pietre, se non facevo la galleria il carbone non veniva. Io passava dal carbone, più galleria facevo e avanzava. Io tagliava pietre e carbone, pietre e carbone. Più pietre che carbone. Intanto tutti quelli che lavoravano là, che lavoravano con me… (cenno con la testa di negazione). Hanno lavorato quanto me ma andavano a bere. Mio fratello –avevo due fratelli nel commercio- beveva e fumava, hanno morto giovani.52

Dopo il 1956 iniziano i primi studi sulle condizioni lavorative degli italiani e nel 1962 in Italia viene approvata la legge 1115 del 27 luglio 1962, che concede ai lavoratori italiani colpiti da silicosi in Belgio alcune forme di indennizzo.53

L’avvocato Moins e il sindacalista Guido Ghirardelli pubblicano un