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2. Le legge di gravitazione universale della proprietà

2.2. L’errore di Locke: l’origine della proprietà

Nel paragrafo precedente si è visto come si ritrovi in Pownall l’argomento lockeano del «mescolamento» del lavoro alla terra, così come il riferimento all’«attività ineguale» all’origine di «differenti distribuzioni di proprietà». Tuttavia, in Pownall il rapporto di consequenzialità tra lavoro e proprietà di matrice lockeana appare in realtà invertito: il lavoro, infatti, si applica qui non alla natura selvaggia, ma a qualcosa che è già diventato oggetto di diritti proprietari. Rispetto a Locke, che nel Capitolo V del Secondo trattato aveva affermato che tutto ciò che un individuo lavora gli appartiene, Pownall tematizza esplicitamente la questione della proprietà senza lavoro, così come del lavoro senza proprietà104. Nella Letter from Governor

Pownall to Adam Smith, being an Examination of Several Points of Doctrine, laid down in his «Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations» del 1776, Pownall afferma che il lavoro non è, come per Locke o per Smith (la cui celebre formulazione del «lavoro come misura reale del valore di scambio di tutte le merci»105

egli critica), un’energia umana acquisitiva che si applica al mondo esterno: esso è al contrario un «articolo composito», essendo costituito non soltanto da attività pura, ma anche dagli oggetti su cui questa attività viene impiegata. Difatti, «il lavoro resta necessariamente improduttivo, a meno che non abbia qualche oggetto su cui esercitarsi, e all’inverso l’oggetto non è di alcuna utilità a meno che non sia lavorato»106. Il

«valore di scambio» delle merci si compone dunque, a sua volta, non soltanto di energia lavorativa, ma anche del valore intrinseco dell’oggetto lavorato. L’esempio riportato da Pownall è significativo della sua concezione di lavoro: egli immagina il caso di un uomo, in un supposto stato di natura, che sieda «forte ed egoista» ai piedi di un albero pieno di frutti e che veda arrivare un secondo uomo, il quale non possiede l’albero ma è industrioso e desidera coglierne i frutti. Colui che siede «forte» sotto l’albero gli concede allora di raccoglierli per sé stesso, ma soltanto a condizione che li colga anche per lui, e non soltanto per

103 T. Pownall, Principles of Polity, cit., p. 93; M. Ricciardi, La società come ordine, cit., pp. 9-18, 142, 204-205.

104 Come ha dimostrato C.B. Macpherson, si tratta di una questione che è contenuta in nuce anche nel Secondo trattato lockeano; il problema sarà analizzato nel dettaglio all’inizio del prossimo capitolo (C.B. Macpherson, The Political Theory of Possessive

Individualism. Hobbes to Locke, Oxford-New York, Oxford University Press, 1962, pp. 194-246).

105 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., p. 111. 106 T. Pownall, A Letter to Adam Smith, cit., pp. 9-10.

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l’uso presente, ma anche per quello futuro. Pownall dimostra così la non sovrapponibilità e la non contemporaneità tra proprietà e lavoro: «Prima dell’impiego del lavoro, deve esserci una qualche acquisizione di oggetti su cui impiegare questo lavoro»107. Anche in questo caso, lo stato di natura non viene dunque

inteso come una tabula rasa, dal momento che è inverosimile supporre l’esistenza di una condizione originaria in cui il mondo esterno è wilderness e gli individui applicano la propria attività lavorativa alla res nullius.

L’esempio riportato dimostra inoltre che, per Pownall, vi è una proprietà la cui esistenza è stabilita dalla forza, e che si accumula per mezzo del lavoro altrui. Egli in questo modo tematizza esplicitamente ciò che Locke aveva soltanto accennato, quando aveva scritto che la proprietà privata di un individuo derivava anche dal lavoro, compiuto sulla sua terra, del suo servo108. Pownall esplicita il discorso lockeano:

Forse che colui che lavora comanda o scambia, con il suo lavoro, una qualsiasi parte del lavoro del più pigro? Certamente no. È questa una condizione di divisione degli oggetti su cui il lavoro deve impiegarsi, e con cui si deve mescolare, nella misura in cui ha avuto luogo una divisione del lavoro. […] Io non risolverò questo dubbio dicendo, come fa il signor Locke (parlando di diritto), che non può esserci diritto al possesso, se non per mezzo della mescolanza che un uomo fa del proprio lavoro con un qualsiasi oggetto; dal momento che noi non stiamo qui considerando la questione di diritto, ma la questione di fatto; né risponderà alla questione dire che l’acquisizione stessa è un atto di lavoro, dal momento che ho qui mostrato il caso di un villano poltrone più pigro, ma abbastanza forte da conservarsi in pigrizia, che comanda non soltanto colui che lavora veramente, ma anche una certa quantità, maggiore o minore, del suo lavoro, a seconda di quanto il suo temperamento egoista e villano lo induca a pesare sulla necessità del più debole109.

Pownall svela il contenuto riposto del Capitolo V del Secondo trattato, mostrando come il nesso tra lavoro e proprietà, mai sconfessato da Locke sul piano teorico, salti al livello delle dinamiche sociali (nella «questione di fatto», «l’acquisizione» non coincide con un «atto di lavoro»). Contro Locke, che aveva presentato la differenziazione tra proprietari e lavoratori come frutto del libero consenso alla base dell’invenzione del dispositivo monetario, Pownall insiste al contrario sulla dimensione coercitiva tanto della «divisione del lavoro» quanto della «divisione degli oggetti»110. Più che il discorso sulle origini, però,

a interessare Pownall è il «comando» sociale del «forte» sul debole che l’estrinsecazione dei rapporti di lavoro produce in società, e che genera espropriazione non soltanto del prodotto del lavoro, ma anche della stessa capacità lavorativa. Il lavoro, infatti – non precedendo cronologicamente la proprietà ma,

107 Ivi, p. 9 (enfasi mia).

108 «Così l’erba che il mio cavallo ha mangiato, le zolle che il mio servo ha dissodato, […] diventano mia proprietà senza la designazione o il consenso di nessuno» (J. Locke, Il secondo trattato sul governo, cit., p. 99).

109 T. Pownall, A Letter to Adam Smith, cit., pp. 9-10.

110 M. Merlo, Potere naturale, proprietà e potere politico in John Locke, in G. Duso (a c. di), Il potere. Per la storia della filosofia politica

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empiricamente, applicandosi a qualcosa che è già diventato oggetto di proprietà –, non si pone più come azione individuale e solipsistica applicata alla natura, ma come attività costruttrice di relazioni sociali incorporate in oggetti posseduti per via proprietaria. È la diseguaglianza dei possessi a produrre la divisione del lavoro, che a sua volta dà forma a rapporti gerarchici tra gli individui; il soggetto proprietario è quindi per Pownall un soggetto eminentemente sociale, perché intesse naturalmente coi propri simili relazioni di superiorità e subordinazione111. D’altra parte, configurandosi la natura non più come

momento originario ma come organizzazione gerarchica dei rapporti sociali, il nesso lavoro-proprietà si rimodula a partire dalla diseguaglianza, e non dall’uguaglianza, originaria. È questa diseguaglianza a informare l’ordine proprietario nel suo passaggio dalla società al governo.

2.3. «Organizzazione» della società in governo

Il governo è concepito da Pownall come lo stadio di organizzazione ulteriore attraverso cui passa la già di per sé organizzata comunità naturale, e serve a formalizzare le differenze proprietarie e politiche che si danno naturalmente in società. La dimensione gerarchica dell’organizzazione della società in governo è implicita nella definizione che Pownall dà di «imperium» come «l’ordinamento [taxis] e la disposizione» del corpo politico; il termine greco «taxis» indica propriamente la gerarchia, «quella particolare impalcatura di ordini e subordinazioni, di cui è composto il governo»112. Ciò che i romani avevano chiamato «imperium»

e che gli inglesi avevano tradotto con «empire» era dunque il processo di «modellamento degli uomini in vari ordini e subordinazioni di ordini», fino a formare una «catena, per mezzo dei legami di unione della quale particelle molto vaghe e indipendenti si mettono insieme»113. Come avrebbe scritto il primo ministro

di Luigi XVIII Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, «l’impero è l’arte di disporre gli uomini al loro posto»114. Per Pownall, il governo coincide con l’apparato istituzionale che consente di conferire una

dimensione formale all’imperium così inteso, convertendo il «popolo» che si «compatta» naturalmente in società in un autentico «corpo politico»115. Il governo è infatti per Pownall quell’impalcatura che

formalizza «gli ordini e le subordinazioni di ordini» prodotti in società dalla divisione del lavoro: costituendo l’«unico e unito spirito di attuazione» che rende la comunità politica «un tutto», esso sanziona quell’unione che i contrattualisti non erano riusciti a produrre. Il governo inteso come ordine politico istituzionale è dunque in Pownall il completamento dell’ordine sociale già in essere, su cui si fonda. Soltanto immaginando lo stato di natura come «indipendente da qualsiasi intercorso comunicativo» i contrattualisti avevano potuto pensare di produrre la società «sovraimponendole un regime di governo»; al

111 Si veda M. Ricciardi, Società. Potere, dominio, ordine, cit., p. 5. 112 T. Pownall, A Treatise on Government, cit., p. 7.

113 Id., Principles of Polity, cit., pp. 93-94. 114 A. Pagden, Lords of all the World, cit., p. 126. 115 T. Pownall, Principles of Polity, cit., pp. 93-94.

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contrario, per Pownall il governo non rende possibile la società, ma da essa deriva, portandone a compimento i presupposti116.

Da ciò consegue che anche il governo, per quanto non esistente in natura, è per Pownall in continuità con la natura stessa: esso prende forma attraverso un processo di evoluzione naturale, e non di rottura artificiale con lo stato di natura. Pownall afferma infatti che l’«impire [sic] è dedotto dalla natura e dai fatti» ed è «non una mera forma artificiale, strutturata ed eretta in qualche modo per volontà di qualche legislatore, bensì un reale sistema naturale, che deriva dalla forza dei principi naturali a partire dall’equilibrio della proprietà»117. Il balance of property che si dà in natura attraverso la divisione della

proprietà, e che diventa naturalmente balance of power attraverso i rapporti di lavoro, acquista quindi una dimensione formale grazie all’apparato istituzionale del governo: il potere politico dei proprietari e dei datori di lavoro evolve così nel potere politico dei governanti. Niente di più lontano dalla fondazione contrattuale del Leviatano e dello Stato lockeano: «fondando il balance of power sull’influenza del balance of property», il governo rappresenta un’impalcatura «naturale» perché naturalmente scaturita dai rapporti proprietari, e non da una «volontà» artificiale o da una razionalità costruttivistica118. Tutto ciò è in linea

con la legge di gravitazione universale della proprietà, secondo la quale il potere viene attratto dalla forza magnetica dei conglomerati proprietari. La «convergenza di persone», l’unione, non si fonda quindi su una stipulazione convenzionale, bensì su un naturale processo di assembramento al vertice del quale si pongono «gli uomini di proprietà», i più interessati (proprio in virtù dei loro possessi) a garantire «il benessere e l’interesse dello Stato»; il loro interesse, a sua volta, non può che coincidere con la salvaguardia e la conservazione dell’ordine proprietario stesso. Ognuno, infatti, «deve avere quel preciso carattere, e peso nel governo, che la sua proprietà gli conferisce naturalmente»; per far sì che l’organizzazione politica continui a rispecchiare la distribuzione della proprietà, bisogna guardarsi dall’«innovare o disturbare» i rapporti proprietari, in un gioco bidirezionale per cui il potere costituito è espressione di quella proprietà che allo stesso tempo protegge119.

Ancora una volta, l’obiettivo polemico di Pownall è la dottrina contrattualistica. Se si considera la formazione del governo come un mero «patto [covenant] volontario e reciproco tra due parti libere e indipendenti», allora si diffondono «i semi dell’anarchia e della dissoluzione del governo», possibile ogniqualvolta una delle due fazioni ritenga infranto l’accordo originario (considerata, a maggior ragione, l’uguaglianza radicale tra sudditi e sovrano raccontata da Hobbes e da Locke). Facendo del contratto «un atto di libertà», i contrattualisti lo avevano quindi reso frangibile sulla base della mera opportunità del

116 Ivi, p. 22.

117 Id., A Treatise on Government, cit., p. 7. 118 Ivi, pp. 8-9.

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momento120. Inoltre, laddove si seguano fino in fondo le implicazioni dell’argomentazione

contrattualistica, se è vero che gli individui possono entrare in reciproca connessione soltanto per mezzo della loro «libera volontà», allora chiunque non abbia dichiarato la propria sottomissione al governo per mezzo di un «atto manifesto» è legittimato a distanziarsene a piacimento121. Pownall non trascura

l’elemento del «tacito consenso» lockeano, in accordo col quale l’obbligazione politica passava non soltanto per un palese atto di autorizzazione, ma anche attraverso il «possesso» o l’«uso» di qualsiasi proprietà o bene all’interno dei territori dello Stato, che imponeva automaticamente al possessore e al fruitore l’obbedienza alle leggi122. Pownall riconosce infatti come il contrattualismo abbia ammesso che

«gli uomini possono diventare membri della società dando il loro consenso esplicitamente o implicitamente». Per lui, però, poco cambia che il consenso sia espresso oppure tacito: è la stessa idea che per sentirsi obbligati all’appartenenza e all’obbedienza a un corpo politico serva un atto consenziente di volontà, espresso (o implicitamente accordato) «in cambio di protezione» a essere foriera della «dissoluzione di qualsiasi governo»123. Difatti, il consenso condizionato al rapporto di do ut des tra le parti

del contratto, in quanto tale, è sempre potenzialmente ritirabile: secondo la logica dei contrattualisti, nel caso in cui ritengano che l’esistenza del governo non sia più funzionale alla salvaguardia di quegli interessi che essi avevano posto come condizione della loro negoziazione originaria, gli individui possono ritirare il proprio sostegno, tornando «indipendenti dal governo, e tanto nello stato di natura quanto lo è un regno rispetto a un altro»124. Il contratto descritto da Locke, più che un vero patto di unione, appare a

Pownall un ricatto tra un potere sovrano debole e individui sempre pronti a sottrargli il proprio appoggio. È per questo che, per descrivere il tipo di obbligazione prodotta dal contratto lockeano, Pownall utilizza un termine che lo stesso Locke mai avrebbe usato per descrivere lo Stato: la figura dell’«allegiance», che rimodula l’obbligazione politica non nella forma della cessione, ma in quella della «fedeltà» dei sudditi nei confronti del detentore del potere esecutivo. Lo stesso Locke aveva pensato l’allegiance come un rapporto di subordinazione all’autorità politica più «diluito» e meno vincolante sia del contratto sia del «trust» (il mandato di cui erano investiti i legislatori), nella misura in cui era lecito ritirarlo ogniqualvolta la «persona pubblica» del re avesse smesso di essere rappresentativa dell’unità del corpo politico125. Per Pownall,

120 Ivi, pp. 30-31. 121 Ivi, p. 41.

122 «Difficile è stabilire che cosa debba intendersi per consenso tacito e fino a che punto esso sia vincolante […]. Affermo che ogni uomo che abbia il possesso o l’uso di una parte dei domini di un governo dà, con ciò stesso, il suo tacito consenso e, per la durata di tale uso, è tenuto a obbedire alle leggi di quel governo […]: sia che questo suo possesso sia di terra, appartenente a lui e ai suoi eredi per sempre, oppure l’occupazione di un alloggio soltanto per una settimana, oppure solo il fatto di viaggiare liberamente per le strade di quel paese. In realtà il consenso si comunica con il fatto stesso di trovarsi entro i territori di quello Stato» (J. Locke, Il secondo trattato sul governo, cit., p. 223).

123 T. Pownall, A Treatise on Government, cit., pp. 40, 43. 124 Ivi, p. 43.

125 J. Locke, Il secondo trattato sul governo, cit., pp. 267-269. Era per la sua semantica di obbligazione meno stringente che, nella

Dichiarazione d’indipendenza, i rivoluzionari americani avrebbero recuperato da Locke proprio la nozione di allegiance, la «fedeltà

alla Corona britannica» da cui si sarebbero dichiarati «sciolti» (La Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, a c. di T. Bonazzi, Venezia, Marsilio, 1999, p. 83); si veda R. Laudani, Disobbedienza, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 69-71.

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l’implicazione della dottrina contrattualistica è precisamente che chiunque può «ritirare la propria allegiance», diventando indipendente dal governo126. È per prendere le distanze da questo effetto

disgregante che, mentre i contrattualisti parlano di Stato, Pownall parla di governo: esso non è sottoposto a condizioni né ricattabile, perché non produce artificialmente la società né ne è la condizione di esistenza, ma è al contrario pensato come naturale perché essenziale alla gestione delle dinamiche sociali, nella misura in cui sistematizza sul piano istituzionale la gerarchia di «ordini» esistente tra gli individui. Pownall vuole dunque rimediare alle mancanze del contrattualismo: contro lo Stato come prodotto del confluire degli interessi e delle preoccupazioni individuali per la conservazione della vita e l’accumulazione della proprietà, per lui «il governo è una comunità, l’unico interesse degli interessi individuali costituenti»127. L’impegno comune in vista della riproduzione sociale vince dunque sulla

moltitudine degli interessi individuali potenzialmente in conflitto reciproco. Si pone a questo punto però il problema di chiarire come mai, se la società naturale è già il luogo del lavoro, del commercio e dell’organizzazione ordinata dei rapporti di proprietà e di potere, Pownall senta l’esigenza di andare oltre questa autorganizzazione naturale per mezzo dell’istituzione del governo. Il fatto è che, per Pownall, il lavoro è sì una forza connettiva, ma non produce una vera unione politica, tanto che nella società naturale gli uomini «non possono sussistere senza un governo». Questo, lungi dal fare del governo «un elemento meramente volontario e artificiale», lo rende al contrario «essenziale alla natura dell’umanità»128. Il

governo, nonostante non esista originariamente in natura, è dunque per Pownall anch’esso naturale, perché si pone come completamento evolutivo della società. La comunità (ovvero la società proprietaria e commerciale pensata nella sua fisionomia collettiva e «compatta») ha bisogno di evolversi e organizzarsi in governo perché, pur funzionando dal punto di vista produttivo, è ancora carente dal punto di vista politico: gli uomini, «mancando di un principio naturale per agire come un tutto, sono in un’incapacità naturale di gestire [manage] questo loro interesse comune». Il management diventa allora proprio il compito del governo. È infatti per questo che gli uomini si sono «strutturati e messi in reciproca subordinazione gli uni agli altri, e hanno messo in piedi una forma in grado di [implementare] un tale principio. […] E questa forma è ciò che chiamiamo impire [sic] o governo»129. In società le relazioni di potere si articolano

attorno ai rapporti di lavoro: il «communion» sociale è quindi costituito da una fitta rete di subordinazioni e «influenze» e da un tessuto di rapporti interdipendenti, ma esso manca di quella dimensione istituzionale unitaria che gli permetta di agire come un unico corpo, e che protegga e conservi il rapporto naturale tra balance of property e il balance of power. Il governo serve quindi a superare definitivamente i retaggi individualistici presenti nella società naturale, dal momento che «tutti gli individui che si associano sotto

126 T. Pownall, A Treatise on Government, cit., p. 42. 127 Ivi, p. 32.

128 Ivi, pp. 47-48. 129 Ivi, p. 54.

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un communion non possono che avere un solo comune interesse». Pownall scrive infatti che «il governo […] limita ogni individuo in quella libertà, con cui è nato nello stato di natura»130, mentre altrove afferma

similmente che la creazione del governo implica che gli individui siano successivamente «liberi soltanto in certi gradi definiti»131. A dispetto delle assonanze, Pownall non sta qui recuperando il discorso sulla

cessione e la rinuncia alla libertà naturale di stampo contrattualistico: la «libertà» con cui l’individuo è «nato nello stato di natura» si configura come una rimanenza di individualismo ancora presente in società. Se gli individui non possono fare a meno di vivere insieme e cooperare in vista della riproduzione sociale, il governo formalizza questa unione per mezzo di un apparato di poteri collettivi che assicurino il prevalere dell’interesse collettivo su quello individuale. Se, come si è detto, il communion è pensato come lo stadio evolutivo superiore della società, che si spoglia degli elementi individualistici e meramente materiali inscritti nei rapporti proprietari e viene valorizzata nella sua dimensione di reciprocità e cooperazione, l’evoluzione della comunità in governo rappresenta uno sviluppo ulteriore, necessario a conferire forma istituzionale e stabile alla comunità stessa.

Il governo serve quindi a sanzionare e rendere operativo lo stato di «communion», di interconnessione e interdipendenza reciproca proprio della società, per mezzo dell’amministrazione e del management dell’interesse comune. Si è visto come Pownall anticipi la tesi dell’origine non contrattuale della società che Paine avrebbe recuperato oltre venticinque anni dopo in Common Sense. Tuttavia, mentre per Paine il governo, pervertendo l’armonia naturale della società commerciale, si sarebbe configurato come un «male necessario» di cui diffidare, per Pownall il governo è tanto naturale quanto lo è la società, perché permette