5. Il governo della Rivoluzione americana
5.2. La proposta di federazione (1774-1777): «the line of colonial government»
Ai primi anni ’70 risale uno scarto nella concezione di sovranità imperiale di Pownall. Esso era in realtà stato anticipato dalle prime due edizioni di The Administration of the Colonies (del 1764 e del 1765), in cui l’autore aveva sottolineato la necessità che le colonie si conservassero nella loro posizione «subordinata» rispetto all’Impero e aveva adottato la distinzione tra tassazione interna ed esterna. È però soltanto con la degenerazione dei rapporti imperiali nei primi anni ’70, quando la contesa, da mera questione fiscale, aveva assunto i contorni preoccupanti di una rottura politico-costituzionale e i coloni avevano manifestato il loro aperto rifiuto della supremazia legislativa britannica in occasione del Boston Tea Party, che Pownall abbandona la proposta di unione costituzionale. Al 1774, d’altra parte, risalivano tanto le Considerations on the Authority of Parliament di James Wilson quanto A Summary View of the Rights of British America di Thomas Jefferson che, pur riconoscendo ancora il potere del re, rigettavano la sovranità del Parlamento, la cui autorità non veniva nemmeno più relegata alla sfera della tassazione «esterna», ma addirittura equiparata a quella delle assemblee coloniali. Sempre in quello stesso anno, John Cartwright aveva pubblicato American Independence the Interest and Glory of Great Britain, in cui sosteneva la completa indipendenza legislativa delle colonie fino alla creazione di «quindici regni indipendenti», comprese Inghilterra e Irlanda307. A fronte del radicalizzarsi del dibattito coloniale e dell’emergere di una serie di
proposte che, come quelle sopra menzionate, avanzavano una concezione confederale dell’Impero fondata sul completo disconoscimento della sovranità parlamentare sulle colonie, con un nuovo, secondo volume di The Administration of the Colonies Pownall si fa portavoce di una proposta di federazione imperiale. Allo scopo di opporre un’alternativa a coloro secondo cui madrepatria e colonie costituivano una confederazione nel senso di associazione tra entità autonome e sovrane, con il Parlamento imperiale e le assemblee coloniali posti sullo stesso livello, Pownall delinea una configurazione del rapporto imperiale sì come associazione tra entità sovrane, ma disposte su scala gerarchica, con un soggetto preminente come fonte suprema dell’autorizzazione308. Questa proposta federale, definita da Pownall con
la formula «linea di governo coloniale», gli appariva a quell’altezza l’unico «spirito di compromesso» per fermare la rivolta delle colonie e scongiurarne la separazione309. Due sono dunque le innovazioni
presentate da Pownall in questo secondo volume di Administration of the Colonies: il ripensamento
306 D. Bell, The Idea of Greater Britain, cit., p. 9; Id., Dissolving Distance, cit., pp. 523-562. 307 G. Abbattista, La rivoluzione americana, cit., p. 66.
308 J.G.A. Pocock, La ricostruzione di un impero, cit., p. 84.
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dell’Impero come unione federale, in anticipo sugli Stati Uniti; e la teorizzazione di un tipo di sovranità eminentemente coloniale, diversa tanto dalla sovranità statuale quanto dal potere operante tra Stati in guerra. La «linea di governo coloniale» è infatti concepita da Pownall come una risposta polemica non soltanto alle rivendicazioni di indipendenza dei coloni, ma anche a quei politici britannici e a quei lealisti nordamericani che avevano continuato, nonostante il precipitare degli eventi, ad asserire la sovranità assoluta del Parlamento e a esigere misure forti da parte della madrepatria per ricondurre le colonie all’obbedienza con la forza. Tra questi ultimi c’era anche il nuovo governatore di Massachusetts Bay Thomas Hutchinson; era stato proprio rispondendo polemicamente a Hutchinson che Pownall aveva sostenuto che «coloro che affermano che nessuna linea [di governo] può essere tracciata tra l’autorità suprema del Parlamento e la totale indipendenza delle colonie […] hanno spinto un popolo, già mezzo matto, alla totale disperazione, e hanno dato origine a tutti i mali che la Gran Bretagna e l’America stanno passando»310.
Anche questa nuova proposta federale implica un’originale riflessione spaziale. D’altra parte, la controversia coloniale continuava in buona misura a essere un dibattito sul «dentro» e il «fuori»: il tentativo della Gran Bretagna di imporre tasse «interne» nel biennio 1764-1765aveva prodotto un «principio di repulsione» che minacciava di compromettere la tenuta dell’Impero; dal 1768, infatti, con i movimenti di protesta contro i Townshend duties i coloni erano arrivati al punto di «negare il diritto che la madrepatria aveva di imporre [addirittura] tasse esterne», le imposte commerciali311. Pownall non rinnega
la sua precedente proposta di unione costituzionale, anzi: essa avrebbe potuto essere «felicemente posta in esecuzione […] dieci anni fa», quando la situazione «non era ancora così disperata». Ormai, però, «il tempo è passato». La situazione appariva nel 1774 irrimediabilmente mutata, e le rivendicazioni apertamente indipendentiste dei coloni avevano reso intempestiva qualsiasi proposta di incorporazione: «Avevo concepito un’idea delle nostre colonie […] come rami fuoriusciti dalla stessa pianta organizzata», ma «mi sono reso conto, ahimè, che questo sistema era una mera visione», avendo avuto le colonie «il permesso di produrre una radice indipendente, l’inizio di una pianta nuova e separata»312. Con la nuova
proposta, Pownall abdica quindi esplicitamente al piano di unione costituzionale di otto anni prima:
Le colonie britanniche devono essere considerate in futuro […], per quanto parti dell’IMPERO, tuttavia non parti dello Stato: per quanto figlie e ancora suddite britanniche, tuttavia come domini esterni divisi e distinti dal corpo organizzato che si chiama Regno di Gran Bretagna. Devono essere considerate […] come rimosse e incapaci di essere ammesse a una perfetta partecipazione nel corpo legislativo, l’anima dei domini britannici. […] Le colonie sono comunità separate e distinte esterne al Regno.
310 Ivi, vol. II, pp. viii-ix, 12. 311 Ivi, vol. II, pp. 9-10, 79. 312 Ivi, vol. II, pp. 82-83, 10.
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È però al fine di scongiurare la recisione del legame imperiale che Pownall si interroga su come «tracciare una linea di distinzione tra la sovranità universale del Parlamento sulle colonie, e nessuna autorità»313. È
questa la riflessione a cui egli si dedica negli anni ’70.
Per spiegare il funzionamento della «linea di governo coloniale», Pownall prende le mosse da un resoconto dell’origine delle colonie nordamericane, a partire da una riflessione di carattere generale «su come un individuo, o un numero di individui, può separarsi dalla società, dalla comunità o dal governo al quale apparteneva e del quale era parte», e in quale relazione costui o costoro restino con la comunità di appartenenza314. La possibilità di «disunione» esiste in quelle società umane che «non sono ancora
avanzate nel progresso della natura umana, fino a formare comunità organizzate da governi», come avviene tra i nativi americani, o finanche nello Stato come lo hanno immaginato Hobbes e Locke. Ancora una volta, Pownall assume infatti la dottrina contrattualistica a bersaglio polemico:
Se esiste uno Stato così costituito che […] considera i propri attuali soggetti componenti, o la loro futura progenie, come connessi e uniti allo Stato soltanto dalla loro volontà e dal loro consenso, di modo che il governo di tale Stato è un patto [compact] o un accordo [covenant] […] che comincia ed è dissolto alla volontà delle parti, l’emigrazione e la colonizzazione a partire da quello Stato […] possono avere luogo in virtù della semplice volontà e del semplice diritto degli emigranti. […] Colui che sulla base della propria volontà si distacca da tale governo […] ha la libertà di migrare e […] di formare con altri comunità […] indipendenti dallo Stato dal quale sono giunti315.
Tuttavia, come si è visto, la reale origine dei governi è per Pownall ben diversa: non esistendo alcun contratto originario stretto sulla base del mero consenso, qualsiasi volontaria defezione dal corpo politico di appartenenza è impossibile: nel «caso di una comunità organizzata per mezzo del governo in quella unione piena e perfetta di vita civile il cui primo prolungamento è il sommo Imperio», come è il caso della Gran Bretagna, «non è permesso ai sudditi, sulla base del diritto e della loro volontà, di andare via e separarsi dalla comunità dello Stato. […] È al contrario proprio dello spirito dell’amministrazione di questi governi permettere, come un atto del governo, ai loro sudditi di emigrare e colonizzare». Questa riflessione è cruciale per definire lo statuto giuridico delle colonie: se è vero che ogni individuo è «membro [della comunità] come di un tutto organizzato, ed è pertanto, per natura e per diritto, realmente e indissolubilmente connesso a essa», allora le colonie non possono che essere soggette alla supremazia della madrepatria316. Qui Pownall
sta implicitamente rispondendo a quei sudditi coloniali che, come il virginiano Richard Bland, sostenevano che gli uomini possedessero il diritto naturale di abbandonare il corpo politico di appartenenza; attraverso questa secessione, per Bland essi sarebbero tornati in possesso della propria
313 Ivi, vol. II, pp. 5-13. 314 Ivi, vol. II, p. 14. 315 Ivi, vol. II, pp. 15-18. 316 Ivi, vol. II, pp. 18-19, 21.
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indipendenza originaria, sciogliendo qualsiasi legame con lo Stato d’origine: qualunque corpo politico che essi avessero fondato ex novo sarebbe di conseguenza diventato uno Stato sovrano e indipendente317. In
linea con Pownall era invece l’ecclesiastico e Regius Professor of Divinity a Cambridge Thomas Rutherforth, che nelle Institutes of Natural Law (1754) aveva scritto che, «se ogni individuo avesse la libertà di abbandonare lo Stato cui appartiene ogniqualvolta lo volesse, la società civile non sarebbe altro che una corda di sabbia»; Rutherforth recuperava così l’immagine della «rope of sand»318 utilizzata due anni
prima dallo stesso Pownall in Principles of Polity. Anche un suddito coloniale come James Wilson non poteva fare a meno di riconoscere che i primi coloni «avevano preso possesso del paese in nome del re; avevano avuto a che fare e fatto la guerra contro gli indiani in virtù della sua autorità; […] avevano istituito governi sotto la sanzione della sua prerogativa»; per Wilson come per Pownall, dunque, i primi coloni si erano insediati in Nord America in qualità di vassalli feudali, e non di individui indipendenti. D’altra parte, le stesse charters secentesche, redatte in jure feodali, presupponevano il potere del re di impedire ai propri sudditi di abbandonare il Regno, se non in virtù di un suo stesso ordine o permesso (si trattava del divieto noto come «ne exeat regno»)319. Il colonialismo è quindi per Pownall un atto del potere centrale della
madrepatria: «L’inviare fuori queste colonie e il sostenere queste emigrazioni, deve originarsi ed essere l’atto dello Stato; e deve essere condotto e portato avanti sotto la protezione dello Stato originario»; di conseguenza, era un errore affermare che i primi coloni avessero «abbandonato la propria connessione con lo Stato»320.
È da questi eventi fondativi che deriva la «linea di governo coloniale» come costituzione federale dell’Impero:
Se questi coloni si stabiliscono su terre che, in partibus exteris, […] sono i domini dello Stato da cui essi provengono; allora, nonostante questi coloni debbano avere il permesso di formare comunità separate e distinte, e di istituire governi che abbiano una giurisdizione sovrana, nei limiti della loro propria corporation, tuttavia, essendosi stabiliti su terre che sono all’interno dei domini, […] questi coloni restano in una certa relazione di allegiance nei confronti di questo generale e supremo imperium. […] Questo è lo stato reale del governo britannico e delle colonie britanniche321.
Al momento della loro fondazione, dunque, i governi coloniali avevano preso forma come originali combinazioni di indipendenza e subordinazione: «Queste comunità, così costituite da tali individui, dovevano avere piena e perfetta libertà politica, sia di giurisdizione sia di legislazione, tanto quanto è coerente con una subordinazione alla giurisdizione sovrana e al supremo potere legislativo dell’intero Impero».
317 Riportato in A. Pagden, Lords of all the World, cit., pp. 128, 159-160. 318 Riportato in P.N. Miller, Defining the Common Good, cit., p. 198. 319 A. Pagden, Lords of all the World, cit., pp. 130-134.
320 T. Pownall, The Administration of the British Colonies, cit., vol. II, pp. 24, 27. 321 Ivi, vol. II, p. 25.
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Alla luce di questa compresenza di libertà interna e subordinazione esterna, era urgente stabilire, sul piano costituzionale, «il modo in cui la volontà di un corpo di governo superiore», ovvero il Parlamento (che dal 1689 aveva sostituito la Corona come fonte suprema dell’autorità), «può agire nei confronti di un [corpo] subordinato senza distruggere la sua libertà»322. Per illustrare l’operare del governo coloniale,
Pownall recupera la coppia terminologica «interno»/«esterno». Laddove «il governo si origina dall’interno» – come avviene, innanzitutto, nella madrepatria –, il Parlamento è sovrano «sopra l’intero corpo della società»; in Gran Bretagna agisce infatti quello che Pownall chiama «governo interno», che si esercita per mezzo della rappresentanza parlamentare e in conformità con l’organizzazione proprietaria e commerciale della società inglese. Al contrario, «se il potere che muove agisce dall’esterno, e se il corpo su cui agisce non ha comunione né partecipazione con la volontà del potere che governa, questo governo può essere chiamato, ed è nei fatti, governo esterno»323. Come si è visto nell’introduzione a questo lavoro, nel Secondo
trattato Locke aveva contrapposto la sovranità come Stato europea al potere coloniale operante come conquista e stato di guerra in America324; James Harrington aveva similmente distinto il «governo
nazionale» dal «governo provinciale», corrispondenti rispettivamente al governo domestico e indipendente del Commonwealth e al governo straniero e subordinato a cui erano sottoposte le province. La coppia di termini «interno» ed «esterno» si rifaceva naturalmente anche al dibattito sulla tassazione degli anni ’60; nel 1773, l’anno precedente alla pubblicazione del secondo volume di The Administration of the Colonies, Pownall ricevette una lettera dal pastore congregazionalista bostoniano Samuel Cooper, in cui quest’ultimo affermava che il Parlamento britannico aveva perso ogni «obbligazione interna» sulle colonie, conservando soltanto un’«obbligazione esterna»325. Pownall recupera il lessico di matrice
repubblicana, ma allo stesso tempo va oltre la logica binaria di Locke e di Harrington: proponendo un modus operandi della sovranità coloniale intermedio tra i due estremi delineati dai due autori secenteschi, Pownall teorizza quella che possiamo definire una “terza via” della sovranità, a metà tra governo interno ed esterno.
Questa concezione appare anche strettamente connessa al suo discorso sulla società: la contrapposizione tra governo interno (o nazionale) e governo esterno (o provinciale) ricalca infatti non solo e non tanto la differenza tra potere esercitato per consenso, nello Stato, e potere esercitato attraverso la conquista violenta in stato di guerra, fuori dai confini statuali; essa è piuttosto da leggere alla luce del movimento evolutivo della società in comunità, e della comunità in governo. In questo senso, il governo è «interno» quando è conforme all’organizzazione proprietaria della società e la ottimizza in maniera efficiente; al contrario, esso è (o diventa) «esterno» quando non rispecchia (o smette di rispecchiare) l’ordine sociale.
322 Ivi, vol. II, pp. 28-29, 31. 323 Ivi, vol. II, p. 33.
324 R. Laudani, Mare e Terra, cit., pp. 521-524.
325 S. Cooper, Letters of Samuel Cooper to Thomas Pownall, 1769-1777, in «The American Historical Review», vol. 8, no. 2, 1903, pp. 301-330, p. 328.
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In quest’ottica, la «sovrastruttura» politico-istituzionale che è naturalmente più conforme alla società americana è quella dei governi coloniali, che appaiono a questa altezza a Pownall molto più efficienti nell’amministrazione delle dinamiche proprietarie e commerciali nordamericane rispetto al governo della madrepatria; la loro capacità politica e amministrativa non deve però entrare in conflitto con la suprema sovranità del Parlamento, perché ciò metterebbe a repentaglio l’unità dell’Impero. La «linea di governo coloniale» è il modo escogitato da Pownall per risolvere questo cortocircuito:
Quando passo a considerare quel sistema, attraverso cui le colonie britanniche […] devono essere governate, la traiettoria del mio ragionamento non corre in nessuno di questi due corsi diametralmente opposti. Io non ritengo né che quel governo (libero e sovrano come può essere, entro i limiti della sua propria giurisdizione), che viene dato alle colonie e per mezzo del quale esse agiscono, sia nazionale e indipendente; né potrò mai ammettere che l’imperium attraverso cui la Gran Bretagna governa di diritto le sue colonie sia provinciale, ovvero quella forza o violenza innaturale che, essendo interamente esterna, deve porre i governati in una condizione di assoluta schiavitù. […] Io penso che una linea per natura, e per ragioni di principio, debba essere chiaramente tracciata sulla vera base della politica, tra i due estremi sopra descritti, e che tra i governi nazionale e provinciale ci sia un governo misto o GOVERNO COLONIALE326.
I governi coloniali sono naturalmente «interni» perché conformi all’organizzazione sociale del Nord America, ma non possono essere indipendenti; il governo metropolitano, dal canto suo, diverrebbe «esterno» se amministrasse direttamente le colonie (perché incompetente e inadeguato alle loro esigenze), ma non può non essere sovrano e supremo. La «linea di governo coloniale» consente di venire a capo del problema, spiega Pownall, nella misura in cui rappresenta un governo «misto», tale perché permette di tracciare una distinzione e separazione tra le due sfere di competenza dei governi coloniali da un lato, e del Parlamento metropolitano dall’altro: «Per quanto concerne le azioni della colonia che opera all’interno della sua giurisdizione, sul suo proprio corpo, e in questioni riguardanti i suoi soli diritti, [il suo governo] è interno, e in ciò, e fino a questo punto, assoluto e sovrano». Laddove, infatti, avviene da parte del re la concessione di una charter ai sudditi britannici per fondare una colonia, questi ultimi «stanno trasportando con loro le laws of the land ovunque vadano a formare colonie, e un diritto alla libertà politica, per quanto essa è coerente con l’unità vitale, l’efficienza e la suprema salvezza dell’imperium dello Stato sovrano. Essi hanno il diritto di avere, di mantenere e di godere, all’interno del corpo della colonia, di un governo libero». Questo «governo libero» coloniale non è però indipendente: esso «non può essere indipendente, perché dal momento che è una parte (sotto una condizione peculiare di organizzazione) dell’intero Impero di Gran Bretagna, esso è subordinato». Pownall – che concepiva la common law come trasportabile e trasferibile, in parziale discontinuità con la tradizionale formulazione di Edward Coke – era dopotutto
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consapevole del potenziale eversivo del diritto consuetudinario coloniale che, attraverso il sistema del precedente, poteva giungere nel tempo a modificare interamente il sistema legale delle colonie, addirittura pregiudicando il loro rapporto di dipendenza dalla madrepatria. La questione era emersa fin dal primo volume di The Administration of the Colonies:
È una regola adottata universalmente attraverso tutte le colonie, che essi [i coloni] si portarono dietro in America la common law dell’Inghilterra […]; ma, dal momento che la stessa common law non è altro che la pratica e la decisione delle corti in materia di legge, stabilite come precedenti, laddove le circostanze di un paese e di un popolo […] differiscano in modo tanto significativo, allora la common law di questi paesi, inevitabilmente, nel suo corso naturale, diventerà diversa, e talvolta anche contraria, o addirittura incompatibile, con la common law dell’Inghilterra. […] Questo rende i corpi giudiziari di questi paesi vaghi e precari; pericolosi, quando non arbitrari.
Già a quell’altezza Pownall aveva posto il problema negli stessi termini che avrebbe recuperato anni dopo: «Chi tratteggerà una linea, e dove dovrà passare questa linea?»327. Negli anni ’70, egli non dubitava più che
quella «linea» dovesse essere tracciata e la subordinazione delle colonie garantita per mezzo del governo «esterno» esercitato dalla madrepatria sul limitare esteriore dei confini delle colonie, e se necessario anche al loro interno:
Il potere sovrano supremo della madrepatria ha diritto di attuare ed esercitare, addirittura sui limiti della linea di giurisdizione delle colonie, un governo provinciale o esterno. Tutte le leggi che esso ha fatto, sia quelle dello Stato per il mantenimento dei loro diritti sia quelle che sono marittime e commerciali, per la regolamentazione dei diritti dei suoi sudditi che si trovano fuori dal Regno, sono di questo spirito. Nel momento in cui qualsiasi suddito britannico o la proprietà di qualsiasi suddito britannico va via, al di fuori della linea della sua giurisdizione coloniale, e non è all’interno del Regno di Gran Bretagna, allora si trova sotto la giurisdizione del governo esterno. […] C’è anche nel governo interno, che le colonie hanno diritto a godere, un misto di governo esterno. In primo luogo, perché l’intero corpo del governo deve restare e agire come subordinato al governo della madrepatria. […] Il governatore […] non può fare né permettere, per mezzo della sua autorità, che venga fatto nulla che sia contrario alle leggi o