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Prima di arrivare ad analizzare la posizione di Pownall nel dibattito sulla Rivoluzione americana e le soluzioni da lui proposte per far fronte al problema imperiale aperto dallo Stamp Act, è opportuno illustrare la sua concezione dello statuto giuridico delle colonie al momento della loro fondazione nella prima età moderna. Questa analisi servirà anche a dimostrare come la sua riflessione sulle colonie si inscriva all’interno della corrente di pensiero giuridico consuetudinario che andava da Coke a Blackstone, e come al contempo egli assuma pienamente la nozione centrale dell’ideologia whig, ovvero la sovranità del Parlamento imperiale sanzionata dalla Gloriosa Rivoluzione237. Rigettando la teoria contrattualistica

di stampo hobbesiano e lockeano, Pownall parte dalla tradizione di common law per ripensare il rapporto tra madrepatria e colonie, innestando su questa tradizione la sua originale visione di matrice harringtoniana del nesso tra balance of property e balance of power.

La riflessione di Pownall sulle colonie non può che partire dalla loro origine, dal momento della prima colonizzazione del continente americano. In linea coi giuristi di common law, Pownall non recupera l’argomentazione lockeana della wilderness e dei «vacant places» da conquistare per mezzo della coltura e della messa a profitto238; per quanto egli adotti la terminologia lockeana, si tratta infatti di un mero

recupero lessicale239. In linea con Coke e Blackstone, Pownall rigetta infatti la scoperta come elemento di

per sé sufficiente a giustificare la presa di possesso delle terre coloniali, e nega che l’appropriazione da parte dei coloni (l’occupazione effettiva del territorio attraverso il «mescolamento del lavoro» con la terra) avesse reso questi ultimi legittimi proprietari. Pownall ammette che le terre nordamericane non erano davvero «vuote» al momento della «scoperta», ma erano abitate dalla popolazione indigena; scoperta, occupazione, lavoro e improvement diventano dunque categorie inservibili, a fronte dell’innegabile dato storico che quelle terre erano state ottenute per conquista: al momento dell’approdo in Nord America,

236 J. Osterhammel, The Transformation of the World, cit., p. 96.

237 Si veda S.C.A. Pincus, 1688: The First Modern Revolution, New Haven, Yale University Press, 2009. 238 J. Locke, Il secondo trattato sul governo, cit., p. 107.

239 Nel primo volume di The Administration of the British Colonies, Pownall parla infatti di «vacate countries» e di «wilderness» (T. Pownall, The Administration of the British Colonies, cit., vol. I, pp. 50, 105).

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«il sovrano di quel suddito che scoprì [quelle terre], o tramite un potere dato dal Papa o in virtù di qualche pretesa derivata da lui stesso, assunse il diritto di possesso di su esse. Se esse fossero state davvero abbandonate, l’occupazione prima di tutti gli altri avrebbe potuto garantire un diritto al possesso»; tuttavia, dal momento che disabitate non erano,

Il diritto [di occupazione] era molto opinabile. […] Dove le terre erano già abitate dalle specie umane ed erano effettivo possesso degli abitanti, sarebbe molto difficile mostrare su quale autentico principio o piano di giustizia il Papa, o qualsiasi altro principe cristiano, si sono assunti il diritto di sfruttare, disporre e dare via le terre degli indiani d’America. Sicuramente, il divino autore della nostra sacra religione, che ha dichiarato che il suo regno non era di questo mondo, non ha lasciato in eredità ai cristiani una carta esclusiva, garantendo loro il diritto di possesso sulle terre di questo mondo, soprattutto dove la divina provvidenza aveva già installato abitanti nel loro possesso240.

Pownall esplicita qui uno dei peccati originari del pensiero imperiale inglese: quello di aver presentato come settlement in «terre vuote» quella che era in realtà la violenta conquista di territori abitati.

Ancor più problematico era però lo statuto giuridico delle colonie in relazione alla madrepatria. È a questo proposito che la trattazione di Pownall si confronta più da vicino con il diritto consuetudinario e che il suo discorso assume una dimensione apertamente spaziale. La sua riflessione sulla posizione giuridica occupata dalle colonie nella cornice costituzionale dell’Impero è infatti una riflessione sui confini del Regno e dell’Impero e sul raggio di validità della giurisdizione coloniale e metropolitana; tanto più che la portata spaziale della stessa Gran Bretagna era mutata nel corso dei secoli, nel passaggio dalla costituzione tardo- medievale del Regno a quella moderna dell’Impero, sanzionata dalla Gloriosa Rivoluzione241. D’altra

parte, la stessa controversia coloniale apertasi negli anni ’60, con il conflitto sulla tassazione «interna» (applicata alle terre e ai possessi interni alle colonie) ed «esterna» (relativa al mare e ai traffici commerciali), era a sua volta un dibattito spaziale sull’estensione dei confini del Realm inglese. Pownall interviene in questo dibattito, mostrando la difficoltà di far quadrare un composito mosaico coloniale di formazione tardo-medievale nella cornice politica e giuridica moderna prodotta dalla Gloriosa.

Al momento della loro fondazione nel corso della prima modernità, le colonie erano considerate «in partibus exteris», esterne ai confini del Regno. Pownall scrive che «i sovrani d’Europa», per mezzo della concessione di charters (assegnate in virtù della prerogativa regia, senza mediazione parlamentare) alle compagnie coloniali, avevano rivendicato «una proprietà esclusiva su quelle terre, escludendole dalla giurisdizione dello Stato» e considerandole come «possedimenti del re, e non come parti del Regno»242.

240 Ivi, vol. I, pp. 48-49.

241 Sulla costituzione dell’Impero nordamericano e gli aspetti costituzionali della Rivoluzione americana, si veda: J.P. Greene,

The Constitutional Origins of the American Revolution, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2010; N. Matteucci, La Rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale, Bologna, Il Mulino, 1987; C.H. McIlwain, La rivoluzione americana: una interpretazione costituzionale, Bologna, Il Mulino, 1965.

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Ciò derivava dalla concezione di origine medievale, mediata dal giurista John Fortescue, della «persona» del monarca come non pienamente incorporata al Regno243; le colonie erano di conseguenza sottoposte

alla mera «giurisdizione del re», alla sua autorità personale: non essendo però «annesse alla Corona» (con «Corona» intesa come simbolo dell’imperium del sovrano sui territori del Realm)244, esse erano «fuori dalla

giurisdizione del Regno»245. In linea con l’antica costituzione inglese, a legare il re e i primi colonizzatori

era un rapporto di dipendenza e obbedienza personale, di tipo feudale; le colonie, immuni dal governo diretto della madrepatria, detenevano così una forma di autonomia di ascendenza medievale, ottenuta per concessione. D’altra parte, la common law era la «law of the land» d’Inghilterra, e non si estendeva ai possedimenti coloniali, i quali erano per l’appunto partes exterae. Mentre i Commons non avevano potere di legiferare per i domini, il re ne era stato fin dall’inizio l’unico «signore sovrano»: tra lui e i coloni vi era un rapporto di allegiance, un legame di fedeltà personale che non si estingueva al di fuori dei confini del Regno. Le colonie erano in questo modo «body corporate, ma certamente non erano corporations, nel senso di comunità interne al Regno»246. Pownall riporta però a questo punto lo scollamento tra diritto

consuetudinario medievale e sviluppi storici. La costituzione feudale del Regno d’Inghilterra era via via diventata inservibile a fronte delle scoperte geografiche e delle conquiste transatlantiche:

La costituzione del governo dell’Inghilterra, così come era posta a quel tempo, fondata e costruita sul sistema feudale, non poteva estendersi oltre il Regno. Non v’era niente nella natura di quella costituzione che provvedesse per cose come le colonie o le province. Terre al di fuori o oltre i limiti del Regno non potevano essere proprietà del Regno, a meno che non fossero unite al Regno. Ma le persone che si insediarono in queste terre in partibus exteris divennero i vassalli [liege subjects] del re, e il re, come signore sovrano, assunse il diritto di proprietà e di governo. Avendo queste persone diritto ai diritti, ai privilegi, eccetera, di freemen, il re stabilì, per mezzo di un mandato di governo, o charter, queste colonie come Stati liberi e subordinati.

Lo statuto delle colonie come «Stati liberi» dipendeva dal fatto che esse possedevano assemblee legislative proprie, dal momento che il Parlamento inglese, «essendo in dubbio, a quel tempo, sul fatto che avesse o meno giurisdizione per mescolarsi a quelle questioni, non pensava opportuno passare degli atti riguardanti l’America»247.

Il periodo delle Guerre civili inglesi, con la Restaurazione degli Stuart nel 1660, l’approvazione degli Atti di Navigazione relativi al commercio delle colonie e infine la Gloriosa Rivoluzione, segna per Pownall il momento di passaggio dalla costituzione feudale alla costituzione imperiale. In quegli anni, infatti, avendo le due Camere del Parlamento «assunto il potere sovrano di governo», «l’intero imperium della Gran

243 J.G.A. Pocock, The Discovery of Islands, cit., p. 154.

244 D. Armitage, The Ideological Origins of the British Empire, cit., pp. 34, 57, 85. 245 T. Pownall, The Administration of the British Colonies, cit., vol. I, p. 141. 246 Ivi, vol. I, pp. 50-55, 57-60.

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Bretagna» si fondò da quel momento sul King in Parliament e il Parlamento sostituì il re come detentore dell’autorità sulle colonie. Da whig, Pownall assume pienamente il risultato della Gloriosa: se «non vi è alcun dubbio che […] vi debba essere da qualche parte, all’interno del corpo politico di ogni governo, un potere assoluto», allora «la libertà politica della Gran Bretagna consiste in questo potere posto in nessun altro luogo del re, dei Lords e dei Commons riuniti in Parlamento. E questo potere è assoluto attraverso tutto il Regno». La sovranità del King in Parliament era pertanto arrivata a estendersi sull’intero spazio dell’Impero: «La Corona imperiale di Gran Bretagna (il re, i Lords e i Commons presi collettivamente) viene definita sovrana, da un lato, e i coloni sudditi, dall’altro»248. Ciò aveva prodotto quella che poteva

essere propriamente interpretata come un’estensione del Regno, che aveva allargato i propri confini fino a inglobare anche le colonie. Nell’arco di tempo scandito dalla vittoria di Cromwell e del Parlamento sugli Stuart nel 1643, dal primo Atto di Navigazione nel 1651, dalla restaurazione della monarchia sanzionata dal Parlamento nel 1660 e infine dalla Gloriosa Rivoluzione nel 1689, si era progressivamente costituito un corpo politico virtualmente esteso sull’intero spazio atlantico, in cui le colonie erano stato incorporate nel Regno al pari della madrepatria. Pownall ricostruisce questo processo tappa per tappa:

Nell’anno 1643, le due Camere dei Lords e dei Commons avevano assunto il potere esecutivo di governo e divennero nei fatti il sovrano in carica. […] A questo tempo, fu nominato un comitato per regolare le colonie e le colonie, per mezzo di questo provvedimento, cambiarono invero il proprio sovrano. […] Con la restaurazione della monarchia, […] la costituzione delle colonie ricevette poi la propria grande trasformazione: il re rese parte della sovranità sulle colonie il Parlamento, e il Parlamento nella sua propria capacità venne chiamato a condividere il loro governo. E quindi il Parlamento, per prima cosa, assunse l’idea, invero in modo molto naturale, a partire dal potere che aveva esercitato durante il Commonwealth, che tutti questi domini stranieri di Sua Maestà […] fossero del Regno e appartenessero al Regno. E quindi, nel suo proprio potere di legislazione, il supremo corpo legislativo del Regno si interpose nella regolamentazione e nel governo delle colonie249.

Rientrando le colonie «sotto l’autorità e la giurisdizione del Parlamento», esse furono «connesse e annesse allo Stato, divenendo parti del Regno britannico (non regni separati, come è il caso dell’Irlanda) sotto la soggezione del Parlamento»250.

Questa estensione dei confini del Regno non si era però per Pownall compiuta, dal momento che i sudditi coloniali non avevano avuto in concessione il diritto di eleggere propri rappresentanti nel Parlamento

248 Ivi, vol. I, p. 132. 249 Ivi, vol. I, pp. 123, 127.

250 Ivi, vol. I, p. 142; J.G.A. Pocock, La ricostruzione di un impero, cit., p. 62. L’Irlanda, nella sua condizione ambigua a metà tra colonia e isola “sorella”, rimase un regno separato e dotato di un parlamento formalmente autonomo, per quanto soggetto a restrizioni da parte dell’Inghilterra, dal 1542 (anno del Crown of Ireland Act con cui Enrico VIII d’Inghilterra divenne anche re d’Irlanda) fino all’unione costituzionale con l’Atto di Unione del 1801, che creò il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. Sulle tappe del processo di unione e sull’Irlanda come laboratorio di sperimentazione del colonialismo inglese, si veda: D. Armitage, The Ideological Origins of the British Empire, cit., pp. 24-60; K. Kenny (ed.), Ireland and the British Empire, Oxford, Oxford University Press, 2004.

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imperiale. Era per questo che il loro statuto giuridico ricalcava «precisamente la stessa situazione in cui si trovava la contea palatina di Durham: ovvero, soggetta a essere costretta dagli atti del Parlamento in ogni caso, […] nonostante gli abitanti di questi paesi non avessero ancora avuto la libertà e il privilegio di inviare lords e burgesses in Parlamento, di loro propria elezione». Anche il Galles, prima della sua incorporazione al Regno nel 1536, rispecchiava la condizione delle colonie: i «domini gallesi» erano stati infatti, in un primo momento, «soggetti alla Corona imperiale, per quanto non ancora incorporati o annessi al Regno d’Inghilterra». La costituzione imperiale post-1689 era dunque imperfetta perché incompleta: l’annessione al Regno delle tredici colonie (per mezzo dell’estensione della sovranità del Parlamento su scala imperiale) non aveva davvero coinciso con una loro incorporazione, non essendo stata accompagnata dalla concessione ai sudditi coloniali del diritto di eleggere i propri rappresentanti: i coloni «divennero quindi annessi, per quanto non ancora parti unite al Regno»251. Vi era quindi una non

sovrapposizione tra la rappresentanza virtuale in Parlamento (estesa tanto ai sudditi coloniali quanto a quelli metropolitani) e la rappresentanza reale (esperibile soltanto nella madrepatria)252. Difatti, se era vero

che «i Commons […] rappresentano di fatto la proprietà del Regno» e che i sudditi coloniali, per mezzo delle charters, «avevano diritto a godere di tutte le libertà, le franchigie e le immunità di free denizons o natural subjects, fino allo stesso punto e con i medesimi scopi che se […] fossero nati all’interno del Regno», tuttavia per questi ultimi il Parlamento, «in virtù della natura delle cose, non era un vero rappresentante, nonostante, per la natura della costituzione del governo, dovesse essere […] un rappresentante giusto e costituzionale». L’espansione coloniale si era dunque accompagnata a un’estensione non lineare della costituzione imperiale: «Vari e nuovi […] individui possono venire fuori e crescere all’interno del Regno che, per quanto costituzionalmente rappresentati in Parlamento, non si può dire che abbiano reali rappresentanti di propria libera elezione»253.

In questo quadro incompleto e incongruente, per circa un secolo dopo la Gloriosa «la sovranità fu esercitata [sulle colonie] nella stessa maniera, e con lo stesso spirito, con cui il re l’aveva tradizionalmente esercitata»254. Il passaggio dello Stamp Act nel 1765 aveva tuttavia prodotto un’ulteriore innovazione nel

governo delle colonie: se fino a quel momento il Parlamento aveva tassato le colonie indirettamente, per mezzo di dazi commerciali, la tassa sul bollo aveva rappresentato il primo tentativo di imporre alle colonie una tassazione parlamentare diretta e «interna», fino a quel momento prerogativa delle assemblee coloniali. Questo atto era indubbiamente coerente con la trasformazione costituzionale post-1689, ma operava una rottura rispetto alla prassi di governo che fino a quel momento aveva caratterizzato i domini coloniali. I coloni, dal canto loro, asserivano di essere rappresentabili e tassabili soltanto dalle proprie

251 T. Pownall, The Administration of the British Colonies, cit., vol. I, pp. 143, 149.

252 Si veda J.P. Reid, The Concept of Representation in the Age of the American Revolution, Chicago, The University of Chicago Press, 1989.

253 T. Pownall, The Administration of the British Colonies, cit., vol. I, pp. 51, 138-145, 151. 254 Ivi, vol. I, p. 123.

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assemblee locali. Si era pertanto prodotto un autentico conflitto di sovranità: la contrapposizione tra un’autorità concepita dai coloni secondo il paradigma tradizionale del rapporto vassallatico tra sudditi e re e la sovranità moderna e imperiale del Parlamento, rappresentante sovrano degli inglesi di qua e di là dal mare; in altre parole, un conflitto tra una concezione dell’Impero come confederazione (con le colonie pensate come tanti piccoli corpi politici autonomi, legati all’Impero dalla figura del re-feudatario) e una visione dell’Impero come grande nazione britannica di dimensioni imperiali255. L’interpretazione

dell’Impero di stampo feudale e confederale diffusa nelle colonie era spiegata da Benjamin Franklin: essendo state le colonie fondate non dal Parlamento, bensì da avventurieri privati, esse erano per Franklin assimilabili a «tanti piccoli Stati separati soggetti al medesimo principe»256. Tuttavia, a fronte della

riconfigurazione dell’Inghilterra da monarchia composita a Stato parlamentare, e delle crescenti ambizioni centralizzatrici della Gran Bretagna in materia coloniale (risale al 1767 l’istituzione dell’American Board of Customs, e al 1768 la creazione del primo Secretary of State for the Colonies), il problema stava nei termini posti dal generale James Abercrombie, comandante delle forze britanniche durante la Guerra dei sette anni: «Dove sta la sovranità o jus imperii, nel Vecchia o nella Nuova Inghilterra?»257, nel corpo sovrano

imperiale a Westminster o nelle assemblee coloniali vassalle del re?

Il problema dei confini divenne oggetto di controversia nel momento in cui il Parlamento pretese di trattare le colonie nordamericane, che si erano sempre considerate esterne, come interne a un Regno che era nel frattempo diventato un Impero. La questione era gravida di conseguenze: in teoria, esternità al Regno significava esenzione dall’onere delle contribuzioni fiscali dirette ma anche rinuncia al diritto di voto goduto dagli Englishmen; all’inverso, internità al Regno significava soggezione al Parlamento e contribuzione fiscale, ma anche diritto di eleggere propri rappresentanti in Parlamento258. Il suddito

coloniale John Dickinson, l’autore delle celebri Farmer’s Letters (1767-1768), riteneva che le colonie nordamericane fossero sì «parti di un tutto» e riconosceva al Parlamento la sua funzione imperiale moderna, quella di «presidiare e preservare la connessione nel debito ordine»259; tuttavia, per lui il potere legislativo

del Parlamento si applicava ai territori della madrepatria e al mare, ma non ai territori coloniali: il corpo rappresentativo centrale poteva infatti legiferare per la madrepatria e «regolare il commercio della Gran Bretagna e di tutte le sue colonie», ma doveva fermarsi nei porti, ai dazi commerciali, senza invadere la terraferma coloniale. In questa medesima prospettiva, Franklin si era rivolto ai britannici ammettendo

255 C.H. McIlwain, La rivoluzione americana, cit., pp. 6-7; J.G.A. Pocock, The Discovery of Islands, cit., pp. 134-153.

256 G. Abbattista, La rivoluzione americana, cit., p. 52. Si veda anche L.K. Mathews, Benjamin Franklin’s Plans for a Colonial Union,

1750-1775, in «The American Political Science Review», vol. 8, no. 3, 1914, pp. 393-412.

257 P.N. Miller, Defining the Common Good, cit., p. 197. 258 Ivi, p. 225.

259 J. Dickinson, Letters from a Farmer in Pennsylvania, to the Inhabitants of the British Colonies (1767), New York, The Outlook Company, 1903, p. 13.

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che «il mare è vostro», ma non lo era la terraferma coloniale260. Questo dilemma spaziale sui confini del

Regno e della giurisdizione parlamentare e coloniale si condensò durante la Rivoluzione nella distinzione tra tassazione interna e tassazione esterna: per la maggior parte dei sudditi coloniali, mentre le colonie erano soggette alla seconda, erano invece sottoposte alla prima soltanto, internamente, per mezzo dei propri rappresentanti nelle assemblee locali, e non da parte del Parlamento imperiale. La questione spaziale era d’altra parte intimamente legata al problema della rappresentanza. La Gloriosa Rivoluzione aveva infatti prodotto uno slittamento nel concetto di rappresentanza, lucidamente registrato da Edmund Burke: i rappresentanti non erano più «un congresso di ambasciatori che davano voce a interessi differenti e ostili, […] come agenti e avvocati contro altri agenti e avvocati; ma il Parlamento è un’assemblea deliberativa di una nazione, con un solo interesse, quello del tutto, dove la guida deve essere […] il bene generale»261.

L’assetto costituzionale post-1689 giustificava quindi, per Burke, la rappresentanza virtuale, formula usata fin dal 1765 dal primo ministro George Grenville per opporsi alle rivendicazioni coloniali: in quest’ottica i parlamentari, in quanto non meri «procuratori» di interessi locali, bensì legislatori del popolo britannico nel suo complesso, rappresentavano tanto la madrepatria quanto le colonie262. Concependo la

partecipazione all’elezione diretta dei deputati come un attributo accidentale, e non sostanziale, della rappresentanza, Grenville sottolineava la rappresentabilità «virtuale» a Westminster di tutta la nazione, composta da madrepatria e colonie prese collettivamente. L’opposizione tra «reale» e «virtuale» sarebbe stata recuperata come argomento polemico dai sudditi coloniali. Il diplomatico americano Arthur Lee, per esempio, sottolineò che «mentre i nostri privilegi sono tutti virtuali, le nostre sofferenze sono reali. Forse ci siamo illusi che un’obbedienza virtuale avrebbe corrisposto in modo esatto a una rappresentanza virtuale, ma la saggezza ineffabile di Mr. Grenville […] [ci insegna] che un’obbedienza reale viene richiesta