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In una nota a piè di pagina del secondo volume di The Administration of the Colonies, Pownall aveva delineato un tipo di governo coloniale diverso dalla «sovranità praticabile» nordamericana:

Se, invece, le circostanze della dipendenza della comunità sono tali che essa deve essere governata dalla volontà dall’esterno, io sono lungi dal concepire come una giurisdizione interna, ancor prima che una legislazione interna, possa essere necessaria ed essenziale […]. La comunità è in virtù della sua natura passiva, e la giurisdizione dell’Impero deve agire al di sopra di essa […]. Quando le circostanze di una comunità sono tali che, per un’incapacità naturale inscritta nella sua nascita o per una qualsiasi incapacità politica, essa tiene dei principi incompatibili con l’Impero della madrepatria, […] queste colonie non possono ottenere fiducia per quanto riguarda la loro volontà interna. Esse restano in questo modo sotto una condizione di minorità o reggenza, governate dall’esterno, per quanto riguarda sia la loro giurisdizione sia la loro volontà. […] La necessità di questa specie di governo provinciale [si dà] sotto tali circostanze di minorità o incapacità434.

Per quanto Pownall non faccia qui esplicito riferimento ai domini indiani, è probabile che sia proprio l’India la dipendenza che egli immagina come destinataria di una forma di governo coloniale che non è «linea di governo coloniale», bensì una «specie di governo provinciale» che si impone dall’alto e dall’esterno su una «comunità» concepita come oggetto «passivo» del controllo imperiale. L’analisi condotta in questo paragrafo del tipo di sovranità pensato da Pownall per l’India è interessante nella misura in cui offre il contraltare alla sua riflessione sul Nord America: l’India è lo specchio deformato in cui osservare, in negativo, lo sviluppo della società e del governo delle tredici colonie.

L’idea dell’India come «comunità passiva» si inscrive nella concezione stadiale delle società umane fondata sulla legge di gravitazione universale della proprietà. Le tredici colonie, come si è detto, apparivano a Pownall la concretizzazione storica di quell’autorganizzazione sociale e commerciale pronta per organizzarsi in governo di cui aveva disquisito negli scritti degli anni ’50. Implicita in questa concezione evolutiva era tuttavia anche la possibilità che questa autorganizzazione non si avviasse e che la società rimanesse «passiva» e perciò inabile a organizzarsi in governo: la sua «incapacità politica» era d’altra parte l’inevitabile conseguenza della sua «incapacità naturale», ovvero sociale, all’accumulazione di proprietà e agli scambi commerciali. Qualora una comunità di questo tipo fosse finita sotto il dominio imperiale britannico, non poteva darsi alcuna «linea di governo coloniale», non essendoci alcun confine da tracciare tra la «libertà effettiva» dei sudditi coloniali e la «sovranità praticabile» della madrepatria: quella libertà interna, essendo prerogativa delle società produttive e commerciali, semplicemente non esisteva. Anche in questo caso, si poneva dunque per Pownall il problema di adeguare il governo alla società: non dandosi

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però alcuna società così come egli la intendeva, il governo non poteva che configurarsi come «governo esterno».

L’ipotesi che il passaggio da The Administration of the Colonies sopracitato si riferisca all’India è suffragata dall’analisi di The Right, Interest, and Duty of Government, as Concerned in the Affairs of the East Indies, scritto da Pownall a commento della riforma della Compagnia delle Indie avviata dal Parlamento nel corso degli anni ’70435. Lo scritto era stato redatto da Pownall nel 1773; quello stesso anno, subito dopo la

pubblicazione, il Parlamento aveva approvato il Regulating Act, che aveva istituito un Consiglio e un Governatorato generale del Bengala responsabili di fronte al Parlamento, insieme a una Corte suprema di giustizia. Fu questo provvedimento, accompagnato dall’istituzione di un Select Committee ai Comuni incaricato di investigare sull’amministrazione della EIC (Committee di cui faceva parte, tra gli altri, anche Edmund Burke) a spingere Pownall a ripubblicare il pamphlet nel 1781. D’altra parte, erano quegli gli anni di una sempre più diffusa inquietudine tra gli intellettuali britannici per un’amministrazione anglo-indiana che appariva del tutto disinteressata al bene dei sudditi nativi, e di dubbi condivisi sulla legittimità di funzioni di governo esercitate da un corpo mercantile436. Il provvedimento del ’73 costituiva per Pownall

un passo importante verso la necessaria e impellente regolamentazione della Compagnia437. La medesima

tensione alla riforma della costituzione imperiale che egli manifesta rispetto al Nord America riemerge quindi nella sua riflessione sui domini indiani, sui quali era per lui urgente stabilire con certezza la natura dell’«esercizio della sovranità». Pownall sapeva che questo esercizio era nelle mani dei funzionari della EIC, i quali detenevano anche, a partire dalla concessione del diwan (l’amministrazione civile e fiscale) sul Bengala da parte dell’imperatore moghul nel 1764, «le rendite di questi domini». Pownall dimostra una lucida consapevolezza di come, grazie alla concessione del diwan, la Compagnia avesse assunto la fisionomia politico-territoriale di un vero e proprio agente di governo: «In conseguenza del potere derivato dall’esercizio di questa sovranità e dell’influenza ottenuta con il possesso di queste rendite, la stessa Compagnia ha, in qualità di mercante che agisce come sovrano, portato avanti un monopolio assoluto del commercio» indiano438. La EIC appariva dunque a Pownall un «mercante che agisce da

sovrano»: se la sua condotta era controversa e criticabile anche in qualità di semplice compagnia

435 Il governo coloniale in India sarà trattato analiticamente nel terzo capitolo di questo lavoro. Si rimanda al terzo capitolo anche per una rassegna delle misure parlamentari adottate a fine Settecento per sottoporre la East India Company a una più attenta supervisione da parte della madrepatria.

436 G. Abbattista, Empire, Liberty and the Rule of Difference: European Debates on British Colonialism in Asia at the End of the Eighteenth

Century, in «European Review of History–Revue européenne d’histoire», vol. 13, no. 3, 2006, pp. 473-498, pp. 475-476.

Soltanto tre anni dopo, Adam Smith avrebbe condotto una critica corrosiva della EIC e dei regimi di monopolio delle compagnie commerciali nella Ricchezza delle nazioni (A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., pp. 786-795).

437 T. Pownall, The Right, Interest, and Duty, of Government, As Concerned in the Affairs of the East Indies. The Case as Stated and Argument

Upon it as First Written, by Governor Pownall, M.P. in 1773, Now Revised, London, Printed for J. Almon, 1781, pp. v-vi.

438 Ivi, p. 1. Questo fenomeno è stato recentemente investigato in P.J. Stern, The Company-State. Corporate Sovereignty and the Early

Modern Foundations of the British Empire in India, Oxford, Oxford University Press, 2011. Stern ha mostrato come, fin dalle

proprie origini secentesche, la Compagnia delle Indie fosse una corporation mercantile depositaria di poteri fiscali e territoriali di governo.

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commerciale privata (i suoi funzionari si erano infatti resi colpevoli di «peculato, […] frodi […] e falsi in bilancio»), la combinazione di potere economico-commerciale e politico-territoriale aveva avuto effetti catastrofici sui domini indiani439. Il fatto che «una compagnia commerciale abbia nelle proprie mani

l’esercizio della sovranità» rappresenta per Pownall il «male originario» della dominazione britannica in India; si tratta dunque, per lui, di un male tutto politico. Pownall appare qui in anticipo di dieci anni su Edmund Burke, che nel Ninth Report of the Select Committee (1783) avrebbe recuperato la stessa idea espressa in The Right, Interest, and Duty, affermando che la EIC non era altro che «uno Stato travestito da mercante», e per di più del tutto svincolato dal controllo della madrepatria440. Pownall era quindi stato tra i primi a

notare e rilevare il problema rappresentato dall’esercizio di funzioni sovrane da parte di un attore privato commerciale: soprattutto in seguito al 1764, «i commercianti erano diventati principi», e ciò era avvenuto in modo «inosservato, non regolato e indipendente dalla suprema sovranità dello Stato». Dal momento che la corruzione del governo dei domini indiani minacciava di coinvolgere «l’intero edificio dell’Impero britannico», esso doveva essere riformato, al fine di rendere l’India «parte di un tutto organizzato e parte del nostro sistema imperiale»; quel «tutto organizzato» dell’Impero che, al pari della società, era a sua volta composto da «ordini e subordinazioni di ordini» disposti gerarchicamente441.

Prima di passare a proporre la riforma pensata per l’amministrazione indiana e al fine di dimostrare la necessità di una sovrintendenza metropolitana e centrale sulla EIC, Pownall ripercorre la storia delle origini della dominazione britannica in India. I funzionari della EIC, al pari dei coloni nordamericani, si erano insediati in partibus exteris in virtù della concessione di permessi e statuti regi; Pownall ne offre una dimostrazione attraverso un confronto quasi filologico tra le charters della Compagnia delle Indie e della Compagnia della Virginia: entrambe assicuravano ai coloni i «medesimi poteri […] di acquistare, comprare e possedere le terre […], lo stesso permesso di emigrare e di trasportare emigrati, gli stessi poteri di commerciare e di fondare insediamenti, […] di fare la guerra e la pace coi nativi non cristiani, […] di stabilire un governo e di porre in carica dei governatori»442. La depositaria ultima di questi poteri era però

la Corona, intesa, al tempo in cui Pownall scrive, come una delle tre persone del King in Parliament. Pownall insiste infatti sulla configurazione gerarchica dell’Impero; per quanto esso fosse una realtà composita, ad accomunare i domini britannici su scala globale era la supremazia indiscussa della madrepatria: erano da ricondurre alla Corona, di conseguenza, «tutti i tipi di proprietà e di possessi della East India Company», ma anche «tutti quegli insediamenti che possono essere costituiti […] in paesi dove gli abitanti nativi non hanno un’occupazione stabile, né mescolano il proprio lavoro con le terre, e dove non c’è una forma di

439 T. Pownall, The Right, Interest, and Duty, of Government, cit., pp. 1-3.

440 «La costituzione della Compagnia è iniziata con il commercio ed è finita con l’Impero. […] Pertanto, l’articolazione dell’intera struttura […] è commerciale; ma il nucleo interno della Compagnia, quello più importante ed effettivo, è tutto politico» (E. Burke, Nono rapporto della Commissione d’inchiesta della Camera dei Comuni (1783), in Id., Scritti sull’Impero, cit., pp. 234- 274, pp. 242, 369).

441 T. Pownall, The Right, Interest, and Duty, of Government, cit., pp. 3-6, 28. 442 Ivi, p. 7.

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governo conosciuta e stabile», ovvero «in quasi tutti i nostri insediamenti in America e sulla costa dell’Africa»443. La subordinazione delle colonie alla madrepatria era d’altra parte coerente con l’idea

dell’organizzazione della società in governo come «un tutto organizzato»:

Quando un certo numero di individui si associa e forma quella comunione che diventa l’oggetto del governo, non soltanto gli individui nelle loro persone, ma anche nei loro diritti e nella loro proprietà, vengono incorporati nella massa comune del commonwealth. Questo commonwealth diventa UN CORPO UNICO E ORGANIZZATO […]. La proprietà della terra e di altri beni immobili, formando questa massa comune, è […] la proprietà dello Stato, inalienabile e inseparabile dallo Stato […]. Se un individuo ottiene un possesso e diventa proprietario particolare di una qualche parte di questa proprietà che è già nella comunità, deve detenere questo possesso ed esserne proprietario individuale in quelle modalità, relazione e subordinazione […] che sono innanzitutto coerenti con l’unione vitale del tutto.

Si è già visto come il discorso di Pownall sulla società determini l’impossibilità per l’individuo di abbandonare e dissociarsi dalla comunità politica di origine. Ciò è vero anche per la sua proprietà privata; così come l’emigrazione in partibus exteris non provoca una dissoluzione dell’allegiance, similmente la proprietà è indissociabile dalla società e dal governo di appartenenza (il governo, d’altra parte, si origina proprio a partire dal balance of property):

Se qualsiasi individuo, o qualsiasi persona politica o body corporate, che è parte di una comunità, ottiene il permesso da questa comunità di emigrare al fine di installarsi in partibus exteris [...] e agisce, si insedia e acquisisce proprietà sotto i poteri, i privilegi e la protezione garantita da questa comunità […], allora tutta la proprietà acquisita da queste persone diventa di fatto annessa, e diventa proprietà di quella comunità alla quale l’individuo stesso appartiene444.

L’insistenza sulla proprietà invece che sul territorio era d’altra parte funzionale a dimostrare la subordinazione alla madrepatria di possedimenti, come quelli della EIC, che erano non colonie vere e proprie, ma avamposti mercantili. Di conseguenza, prosegue Pownall, in India ogni base commerciale sottoposta al controllo britannico, al pari dell’insieme dei profitti della EIC, appartenevano di diritto alla «comunità» britannica ed erano subordinati al potere del King in Parliament. Nei domini coloniali indiani si era dunque prodotto un doppio regime proprietario: mentre la «proprietà politica» dei territori indiani «resta nello Stato, e quindi per il nostro governo nella Corona», «la proprietà personale resta inviolata nel soggetto che l’ha acquisita», ovvero nei funzionari della EIC; dal momento però che «la proprietà personale, […] deve derivare dalla natura della proprietà politica poggiante nella Corona, e deve pertanto

443 Ivi, pp. 10-11. 444 Ivi, pp. 15-17.

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derivare dalla Corona», ne consegue che «la costituzione della Compagnia deriva e dipende dalla costituzione dello Stato»445.

La riforma inaugurata dal Parlamento avrebbe dovuto per Pownall agire non soltanto sui rapporti tra EIC e Corona, ma anche su quelli tra EIC e potentati indigeni, rendendo la Compagnia «il solo protettore del governo del paese come alleato, il suo solo assistente […], l’esecutore del governo del paese in base alle sue stesse leggi, nella misura in cui il dispotismo ammette la legge»446. Per quanto sui principati nativi

Pownall facesse pendere un’accusa di dispotismo, la Compagnia doveva porsi come loro alleata, o meglio come loro «protettrice», in posizione eminente. Se la «linea di governo coloniale» poteva essere rappresentata come una serie di sfere concentriche di sovranità, la sovranità imperiale in India sembra invece organizzarsi secondo una struttura piramidale, attraverso una delega gerarchica dei poteri dall’alto verso il basso. Le idee di Pownall sul governo coloniale indiano erano d’altra parte influenzate dall’amministrazione effettiva dei possedimenti britannici nel subcontinente da parte dei suoi governatori tardo-settecenteschi, che avevano recentemente inaugurato il cosiddetto «double government», in cui la conservazione delle strutture politiche native si accompagnava al controllo esercitato dalla Compagnia; da questi amministratori, la funzione della EIC come «alleata» e «assistente» dei moghul era d’altra parte pretestuosamente addotta per legittimare il dominio inglese in India447. Allo stesso tempo, però, Pownall

dava anche voce all’esigenza metropolitana di sottoporre la EIC a un più rigido e attento controllo centrale. La sua concezione del governo coloniale in India vede infatti tre attori in campo: il King in Parliament come fonte del potere sovrano supremo e depositario della «proprietà politica» del subcontinente; la Compagnia come delegata della Corona, detentrice della «proprietà personale» e amministratrice del governo effettivo dei territori indiani; e infine i potentati nativi, spogliati di qualsiasi potere reale e sottoposti alla protezione dalla Compagnia. I principati locali sono infatti immaginati da Pownall come mere custodie istituzionali svuotate di contenuto: «Per quanto la sovranità del governo nativo del paese nell’ambito dei limiti del dominio della East India Company sia stata abolita e annichilita, al contrario le forme e gli ordini, gli uffici e gli ufficiali apparenti del governo rimangono». Quello che non era stato possibile in Nord America – ovvero pensare le colonie come «vuote» di sovranità – diventa invece praticabile in India, per l’assenza di un potere sociale della proprietà «interno» alla società indigena; qui, la dominazione britannica non deve dunque fare i conti con la società e con il suo movimento «naturale», come nel caso delle tredici colonie, ma con il complesso mosaico di poteri e istituzioni preesistenti, niente più che «sovrastrutture» prive di contenuto. In linea con la prassi del double government, Pownall suggerisce che, in un contesto caratterizzato da costumi così diversi da quelli europei e tanto

445 Ivi, pp. 22-24. 446 Ivi, pp. 25-26.

447 G. Giuliani, Beyond Curiosity, cit., p. 36; R. Travers, Ideology and Empire in Eighteenth-Century India. The British in Bengal, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, pp. 76 e ss.; G. Abbattista, Empire, Liberty and the Rule of Difference, cit., p. 477.

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suscettibile al dispotismo come quello indiano, è necessario conservare la facciata «apparente» dei poteri tradizionali, allo scopo di facilitare l’amministrazione della EIC sotto la supervisione imperiale della Corona. Vero e proprio «stateholder europeo», la EIC avrebbe dovuto «presidiare, controllare […] e proteggere» i potentati locali, definitivamente ridotti a «Stati sudditi», «obbedienti e affezionatamente attaccati» alla Gran Bretagna448. Il tipo di sovranità concepito da Pownall per l’India si configura così come

governo «esterno» nel senso di un’amministrazione operante tramite imposizione dall’alto, estranea alle dinamiche interne della società e non da queste scaturita. Questa amministrazione, tuttavia, ha per Pownall il compito di avviare, tramite un impulso esterno e superiore, quel processo di autorganizzazione della società che in India (in virtù dell’«incapacità naturale» della sua conformazione sociale, aggravata dalle malversazioni della Compagnia) tardava a prodursi naturalmente. La dominazione coloniale avrebbe così favorito l’inserimento dell’India all’interno della traiettoria della legge di gravitazione universale della proprietà che governava le altre parti dell’Impero:

Dove la comunità in generale fosse sotto la certezza della libertà nella direzione della sua industria, e in perfetta libertà per quanto riguarda la capacità di disporre del suo prodotto, lo spirito genuino di un popolo coltivatore, manifattore e commerciale […] avanzerebbe in ogni aspetto dell’industria produttiva e diverrebbe […] una fonte inesauribile di vero profitto, derivante da un flusso crescente di utile. […] La graduale crescita di denaro così derivata nutre ed estende l’industria, e forma e aumenta i poteri di una nazione449.

Quale fosse la «nazione» i cui poteri sarebbero aumentati in seguito all’avanzamento produttivo e commerciale della società indiana è chiaro: la madrepatria britannica.

Guardando indietro al 1773 dalla prospettiva dei primi anni ’80, Pownall considera il Regulating Act come il primo, essenziale passaggio per rendere la EIC il vero «stateholder» della Corona in India, al fine di realizzare pienamente il benefico «governo di un paese predominante su un paese subordinato». Il «potere supremo, sovrintendente e di controllo» della madrepatria, esercitato per mezzo dei funzionari della Compagnia, avrebbe dunque prodotto in India sovrintendenza senza malversazione, controllo senza abusi, avviando il processo virtuoso per il quale «un governo regnante, dotato di libertà politica al suo interno, può comunicare a un popolo sotto i suoi domini» non soltanto una prassi amministrativa efficiente e razionale, ma anche quella stessa «libertà», intesa come la dinamica sociale dell’organizzazione proprietaria e commerciale. La proposta di Pownall anticipa quanto avrebbe sostenuto Burke ai Comuni pochi anni dopo. Anche Burke avrebbe infatti sottolineato la necessità di assicurare la subordinazione della Compagnia all’«autorità superiore» di Westminster, subordinazione che il Regulating Act non era però

448 T. Pownall, The Right, Interest, and Duty, of Government, cit., pp. 29-30, 32-33.

449 Ivi, pp. 33-34. Si veda anche G. Abbattista, Empire, Liberty and the Rule of Difference, cit., p. 478. L’idea dell’India come spazio «passivo» e immune al progresso, e della dominazione coloniale britannica come forza positiva che avrebbe inserito l’Asia nella modernità capitalistica, sarà analizzata all’inizio del terzo capitolo.

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per lui riuscito a produrre; nel 1783, egli criticava il Regulating Act e sosteneva l’adozione dell’India Bill (1783) (mai entrato in vigore, che avrebbe dovuto trasferire i poteri amministrativi e commerciali dei direttori e degli azionisti della EIC a due commissioni di nomina parlamentare) come soluzione al problema di governo dei domini indiani. Al di là del giudizio discordante sul Regulating Act, l’obiettivo di Burke e di Pownall per la riforma del potere coloniale in India è il medesimo: quello di rendere la EIC un «potere sovrano subordinato, cioè sovrano nei confronti della realtà cui si applica, ma subordinato nei confronti del potere da cui essa deriva il suo grande mandato fiduciario»450; così come nel caso

nordamericano, anche per l’India si poneva pertanto la questione di una distinzione tra right e policy, tra sommo diritto sovrano da un lato, e prassi amministrativa dall’altro.

Definire «esterno» il governo coloniale britannico in India aveva per Pownall una funzione non soltanto descrittiva (il governo era di fatto «esterno» perché imposto dal di fuori e non derivato naturalmente dall’organizzazione sociale della comunità nativa), ma anche prescrittiva: esso doveva imporsi «dall’esterno,