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5. La voce dei bambini

5.6. L’identità culturale

Nella interview guide il focus era incentrato esclusivamente sulla conoscenza

delle lingue, tuttavia le restituzioni dei bambini hanno riguardato anche riflessioni

relative all’identità culturale a cui ritengo necessario dare la giusta importanza.

5.6.1. Lingua e identità culturale

Parlare delle proprie lingue native ha portato alcuni bambini ad indentificarle

non solo come un codice linguistico e comunicativo, ma come un codice

rappresentativo della propria identità culturale.

Una bambina, in particolare, ha correlato la lingua materna alla religione, che

per lei rappresenta un ambito d’esperienza vissuto integralmente in madrelingua.

A. (10 anni): [preferisco parlare] l'arabo perché è la mia religione. (FG0/70)

Non sempre le idee dei bambini sono emerse in modo nitido, tuttavia in

alcuni casi è emerso con chiarezza il legame tra lingua e identità. Nell’esempio che

segue, l’identità culturale è strettamente legata alla padronanza della lingua.

R. (9 anni): io sono nato in Italia, però i miei genitori mi hanno imparato quindi ora so di più

il rumeno e meno italiano, cioè quando ero nato ero più italiano, ora che mi hanno imparato

i genitori sono più rumeno e poco italiano. (FG9/231)

In questo caso, nonostante il bambino sia nato in Italia e qui abbia frequentato la

scuola, la sua identità culturale è fortemente legata a quella d’origine. Un esempio,

questo, che definisce il ruolo della lingua in quanto codice di appartenenza etnica.

Portes e Rumbeaut (2001, p. 113), a questo proposito, affermano che la

lingua è molto più di un mezzo di comunicazione, bensì permette agli individui di

identificarsi come membri di una stessa comunità culturale. “Parlando due lingue

apparteniamo a due collettività ed esprimiamo due identità” (Bettoni, 2006, p.

238).

5.6.2. Il paese d’origine

Non molti bambini hanno fatto riferimento al proprio rapporto con il paese

d’origine in modo chiaro e netto. Chi l’ha fatto, ha esternato un forte legame o, al

contrario, un totale rifiuto. In particolare, su tutto il campione di 56 bambini sono

solo tre alunni ad aver affermato chiaramente che preferirebbero abitare nel paese

d’origine.

D. (10 anni): posso dire una cosa che forse non c'entra? Se tu mi dici in che posto vuoi stare in

Italia o in Moldavia, direi la Moldavia […]perché quando vado da mia nonna praticamente

devo lavorare tutto il giorno, invece devo stare seduto a fare i compiti e guardare la

televisione perché qua non ho dove giocare quindi quando vado lì ho un mucchio di cose da

fare. […] Ho fatto la promessa a mia nonna che ci andrò sempre [in Moldavia d’estate] quindi

ogni anno spero un giorno di andare lì e così non mi stuferò mai. (FG1/137-139-167)

R. (10 anni): A me mi piacerebbe stare là [in Sri Lanka]. (FG1/180)

D. (10 anni): A me piacerebbe stare a Romania. (FG1/182)

Il primo afferma di preferire la quotidianità della Moldavia piuttosto che

quella che vive in Italia, gli altri invece non hanno motivato con chiarezza la

propria affermazione.

In altri casi è emersa una volontà di distacco e di dissociazione dal proprio

paese d’origine, soprattutto laddove quest’ultimo è vissuto come un luogo estraneo

in cui le abitudini sociali sono molto diverse da quelle con cui sono cresciuti i

bambini di seconda generazione.

M. (13 anni): però tipo perché anche cambia tutto rispetto...perché mangio il cibo del mio

paese, parlo la lingua del mio paese, seguo la mia....la mia tradizione e, tipo, quando c'è la

festa in Italia, quando si sposano si deve fare così, lancia il bouquet finita qua, andiamo a

festeggiare. Solo che da noi, la festa, finisce verso le 2 e […]noi quando andiamo a fare una

festa ci dobbiamo vestire in un modo...sai carnevale?! […]sono delle cose giganti così che

arrivano fino a qua. (FG7/219-223)

Un’altra alunna ha espresso un distacco dal paese d’origine riferendosi in

particolar modo al sistema scolastico, di cui ha sentito parlare nei racconti della

madre.

A. (9 anni): non volevo andare in Romania per imparare perché là mia mamma mi ha detto

che, mi dispiace per lei che è successo, che se non sapevi la risposta...le diceva "metti la mano"

e gli dava con il righello se non lo sapeva. (FG9/447)

Le testimonianze degli alunni mostrano come la condizione delle seconde

generazioni sia particolare. Le loro esistenze si legano a due paesi: quello di

nascita, in cui sono direttamente immersi, e quello d’origine, che vivono

soprattutto attraverso la mediazione della famiglia. “Per i bambini nati qui, il luogo

reale e delle origini è lontano e sconosciuto, e quello immaginato subisce spesso

delle trasformazioni in seguito ai processi di idealizzazione o di presa di distanza,

diventando ora il paradiso perduto nel quale si intende tornare, ora il luogo

«minaccia» al quale si rischia di essere rinviati” (Favaro & Napoli, 2002, pp. 22-23).

5.6.3. L’appartenenza

Nei focus group, talvolta sono emersi dei riferimenti espliciti dei bambini

rispetto al paese di cui si sentono di far parte. Volutamente, non avevo incluso

domande simili nella interview guide, per non creare disagio e confusione nei

bambini, già spesso contesi tra due identità che sentono e non sentono proprie.

Alcuni interventi, tuttavia, sono emersi in modo spontaneo.

M. (10 anni): a me se chiedi qual è il mio paese direi Italia perché cioè son nata qui

quindi...insomma sono qui. (FG8/327)

La consapevolezza di questa bambina sulla propria appartenenza si avvicina

al pensiero di molti ragazzi e ragazze di seconda generazione, spesso molto più

grandi di lei, che lottano per ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana

tramite il provvedimento sullo ius soli. Dalle sue parole non è emerso un rifiuto

della cultura di appartenenza, ma la semplice consapevolezza di sentirsi

appartenente al paese in cui è nata, è cresciuta e frequenta la scuola.

C. (11 anni): uno quando uno me lo chiede gli dico che sono nato in Italia però sono di origini

africane. (FG8/333)

L’affermazione di quest’ultimo bambino, in particolare, mi ha colpito poiché

si tratta dell’unico alunno da me intervistato che non ha mai visitato il paese

d’origine della famiglia e che, quindi, mi sarei aspettata potesse avere un legame

limitato con esso. La sua affermazione, invece, sottende la volontà di menzionare

entrambi i paesi di appartenenza: quello in cui è nato e cresciuto, e quello d’origine

dei suoi genitori. Il fatto che quest’alunno abbia riportato spontaneamente ciò che

risponde “di solito” quando gli viene chiesta la sua provenienza è significativo

poiché, a causa del colore scuro della sua pelle, questa è probabilmente una

domanda che si sente porgere spesso, al contrario, magari, dei bambini originari

dell’est Europa.

In un altro caso, l’appartenenza culturale è emersa in relazione alla

condizione di seconda generazione.

R. (11 anni): per noi è più facile [parlare in italiano] invece per loro che son stranieri è quasi

più difficile che non per noi. (FG2/271)

Con quest’ultima frase, la bambina intervistata ha affermato, in modo

indiretto, di non ritenersi straniera, quindi di sentirsi appartenente all’Italia. Allo

stesso tempo, con questa affermazione mette in evidenza il distacco tra i genitori di

prima generazione, che definisce “stranieri” e che incontrano difficoltà con la

lingua, e figli di seconda generazione, che a differenza dei primi sanno parlare

facilmente l’italiano.

Il processo di identificazione etnica dei bambini di seconda generazione è più

complesso e diverso da quello attraversato dai loro genitori (Portes & Rumbeaut,

2001, p.150). “Il bambino figlio di migranti, come tutti i bambini, ma con una

nettezza ancora maggiore a causa della scissione fra il suo ambiente familiare e

l’esterno, si costruisce dall’intersezione di due processi: un processo di filiazione -

«sono il figlio, la figlia di…» - e un processo di affiliazione - «appartengo a questo o

a quel gruppo, a questa o a quell’altra situazione» […]. Perché questi due processi

possano essere armoniosi, devono sostenersi l’un l’altro, il dentro e il fuori. In

questo la scuola gioco un ruolo preponderante” (Moro, 2010, p.90).