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3. Il punto di vista dei bambini sul proprio bilinguismo

3.2. Vivere il bilinguismo

La letteratura selezionata si occupa soprattutto degli spazi quotidiani in cui il

bilinguismo acquista una posizione di rilievo e dei risvolti emotivi che esso

comporta.

Anche in questo caso, la partecipazione dei bambini alle ricerche ha offerto

loro un momento di riflessione e la possibilità di acquisire consapevolezza sulle

emozioni legate al bilinguismo, attraverso la narrazione del proprio vissuto.

3.2.1. Orgoglio

Il sentimento più rappresentativo della voce dei bambini all’interno di queste

ricerche è l’orgoglio.

In numerosi studi (Danzak, 2015; Fielding, 2016; Prasad, 2015; Gyogi, 2015;

Schwartz & Gorbatt, 2016; Martìnez, Duràn & Hikida, 2017), i bambini si sono detti

fieri di essere bilingui, riconoscendo a se stessi il merito di essere stati in grado di

apprendere due lingue e di saperle utilizzare in modo intercambiabile nella vita

quotidiana.

Nella ricerca di Cruz, King, Cauce, Conger & Robins (2017), l’orgoglio emerge

in modo diverso rispetto alle altre: qui non è tanto legato alle abilità linguistiche,

quanto piuttosto all’attaccamento alla propria cultura d’origine. In questo studio

longitudinale, sono stati intervistati ragazzi americani di origine messicana da

quando avevano 10 anni fino ai 16, con l’obiettivo di capire se ci fosse una

correlazione tra l’orgoglio etnico e l’uso di sostanze stupefacenti in giovane età.

Agli intervistati è stato chiesto con che frequenza utilizzassero lo spagnolo e

l’inglese per parlare, scrivere, pensare, ascoltare la musica e guardare la

televisione. Un frequente uso della lingua nativa è stato correlato ad un alto livello

di orgoglio etnico. Quest’ultimo, tuttavia, non è stato associato all’uso di sostanze.

3.2.2. Intermediazione linguistica

Lo studio di Antonini (2016) è l’unico tra i selezionati ad essere stato

condotto in Italia e si occupa in modo specifico dell’intermediazione linguistica

svolta dai bambini, ossia delle situazioni in cui ad essi viene richiesto di fare da

interpreti tra L1 ed L2. “Gli studi concordano sul fatto che bambini appartenenti a

minoranze linguistiche […] hanno alte probabilità di essere coinvolti in attività di

intermediazione linguistica. È stato dimostrato che tali attività sono diffuse in una

grande varietà di comunità etniche, coinvolgendo bambini sia di prima che di

seconda generazione” (Antonini, 2016, p. 715).

Nell’indagine menzionata, la ricercatrice ha analizzato i disegni dei bambini

della scuola primaria e gli elaborati scritti degli alunni della scuola secondaria,

nella provincia di Forlì Cesena. Ai bambini e ragazzi, tutti di prima generazione, è

stato chiesto di rappresentare un ricordo legato ad un’esperienza di

intermediazione linguistica. Dallo studio di Antonini emerge il grande impatto che

questa pratica ha sulle vite di bambini e ragazzi migranti, i quali si fanno interpreti

per i genitori laddove essi debbano interagire con un italofono, ma anche per i

compagni di scuola neo-arrivati, al fine di aiutare l’insegnante a farsi comprendere.

La voce di bambini e ragazzi, in merito a questa esperienza del vissuto

bilingue, esprime sentimenti contrastanti. Mentre i bambini vivono l’esperienza di

interprete con più leggerezza, provando orgoglio per le proprie abilità, gli alunni

più grandi esprimono soprattutto sentimenti di ansia legati alla paura di sbagliare

e di essere derisi. Emerge, inoltre, da parte di questi ultimi, un senso di

inadeguatezza dovuto all’iper-responsabilizzazione a cui sono sottoposti nel

momento in cui si trovano a tradurre in contesti “difficili”, in cui non possono

sbagliare, ad esempio durante le visite mediche di parenti o conoscenti.

Anche nella ricerca condotta da Worthy, Nuñez & Espinoza (2016) emerge il

tema dell’intermediazione linguistica. Si tratta di uno studio longitudinale riguardo

la percezione del bilinguismo di Esperanza, una ragazza americo-messicana.

Intervistata a 22 anni, Esperanza racconta le sue esperienze da bambina come

traduttrice inglese-spagnolo per i genitori. Anche in questo caso, l’intervistata

accompagna questi ricordi con sensazioni di orgoglio per le proprie competenze

linguistiche ma anche di ansia e responsabilità per l’arduo compito a cui veniva

chiamata.

3.2.3. Plurilinguismo a scuola

Alcune delle ricerche selezionate (Fielding, 2016; Prasad, 2015;

Solano-Campos, 2017) sono state condotte con lo scopo di evidenziare quanto l’uso delle

lingue minoritarie all’interno dell’ambiente scolastico sia auspicabile per

permettere ai bambini di mantenere un buon rapporto con la lingua madre e, di

conseguenza, di sviluppare un’identità culturale stabile.

Lo studio di Fielding (2016), in particolare, è stato condotto in Australia:

nazione che tradizionalmente segue politiche istituzionali e scolastiche centrate sul

monolinguismo. In questo contesto, la ricercatrice ha analizzato la situazione di

due scuole primarie in cui si sperimenta la didattica bilingue, soffermandosi

sull’effetto di tale metodologia sugli alunni che hanno una madrelingua diversa

dall’inglese (le più frequenti riportate sono coreano, francese, cinese, portoghese e

giapponese). La voce dei bambini, nella ricerca di Fielding, esprime un crescente

entusiasmo nell’imparare e nello sviluppare strategie di apprendimento costruite

sulla propria esperienza plurilingue. Inoltre, essendo valorizzata la diversità

linguistica nell’ambiente scolastico, i bambini hanno affermato di sentirsi a proprio

agio anche nell’utilizzo delle lingue minoritarie.

3.2.4. La lingua preferita

Un solo studio, all’interno della letteratura selezionata, ha indagato sulle

preferenze linguistiche dei bambini bilingui. Si tratta della ricerca di Cohen (2016),

che vuole verificare l’esistenza di una correlazione tra la frequenza nell’utilizzo

delle due lingue, il livello di competenza linguistica e la lingua indicata come

preferita dal bambino.

Rispetto alle altre ricerche, questa si presenta in modo più rigido e

strutturato, in quanto utilizza soprattutto test linguistici standardizzati e l’opinione

del bambino viene richiesta tramite un questionario a risposta chiusa, utilizzando

una metodologia quantitativa.

La lingua scelta come preferita dai bambini intervistati si è rivelata essere

quella in cui erano più competenti e quella più utilizzata nell’arco della giornata.

3.2.5. Le difficoltà con la seconda lingua per i primi migranti

Una parte delle ricerche selezionate (Danzak, 2015; Worthy, Nuñez &

Espinoza, 2016; Antonini, 2017; McLeod, Verdon & Theobald, 2015) incontra le

storie di bambini di prima generazione, che affrontano l’esperienza

dell’emigrazione. In tali circostanze, in cui si verifica un bilinguismo sequenziale

6

, i

bambini raccontano soprattutto le difficoltà che hanno vissuto nell’apprendere la

lingua del paese d’accoglienza.

Una di queste ricerche è quella presentata da McLeod, Verdon & Theobald

(2015) che, tramite uno studio longitudinale, analizza il trasferimento di una

famiglia australiana in Germania, seguendo i risvolti psicologici del bilinguismo

emergente nei due figli di 7 e 9 anni, e focalizzandosi sul modo in cui il

cambiamento linguistico abbia influenzato le loro modalità di interagire con i pari

e di stringere amicizia. I due bambini protagonisti di questo studio hanno espresso

il senso di solitudine che ha accompagnato l’esperienza della migrazione e la

6

Si parla di bilinguismo sequenziale quando il bilingue apprende la seconda lingua dopo i 3 anni d’età (Byers-Heinlein & Garcia, 2015, p. 345).

difficoltà nello stringere nuove amicizie a causa della mancata conoscenza della

lingua tedesca. I ricercatori mettono in risalto come, a un anno dalla migrazione, i

due bambini siano riusciti a fare amicizia, scegliendo però gli amici tra i pari non

autoctoni, con un livello di competenza linguistica simile al loro.

Un altro studio che racconta delle difficoltà incontrate con la nuova lingua è

quello presentato da Danzak (2015). Qui si parla del caso di Manuel,

studente-lavoratore di 18 anni, nato in Messico e residente negli Stati Uniti. Nelle interviste,

effettuate in diversi momenti della sua crescita, Manuel parla dell’apprendimento

dell’inglese come di “una nuova nascita” (p.36), quasi avesse sancito l’entrata in un

mondo nuovo, da lui vissuta con grande difficoltà, soprattutto in relazione

all’impegno scolastico.

Si parla delle difficoltà con la seconda lingua anche nelle già citate ricerche di

Worthy, Nuñez & Espinoza (2016) e di Antonini (2016). In entrambi gli studi, gli

alunni coinvolti hanno raccontato il trauma dell’entrata a scuola, in un ambiente

dalla lingua sconosciuta. Dai racconti dei bambini è emerso un grande senso di

sconforto e di solitudine legato a quel momento, ma anche il riconoscimento di un

successivo miglioramento grazie alla graduale acquisizione della lingua del paese

d’accoglienza.