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L’intersezione: l’importanza dell’attaccamento nella “strutturazione della

Lo studio del disagio legato al comportamento alimentare non può prescindere dall’analisi delle esperienze dei primi giorni di vita dell’individuo: trovandosi in una condizione di completa dipendenza, il bambino necessita, in questa fase, della cooperazione di un’altra persona per nutrirsi. Il ruolo della madre come nutrice per eccellenza, rappresenta il canale di collegamento tra l’atto di alimentarsi, le relazioni interpersonali primarie e lo stile di attaccamento (Fabbro, 2012). Alla base dell’assunzione di cibo, sta infatti un’esperienza interpersonale carica di implicazioni affettivo-emotive estremamente complesse che vede coinvolta la diade nutrice-nutrito (Selvini Palazzoli, 2006). La soddisfazione del bisogno primario è solo il punto di partenza dell’atto di alimentarsi; ciò che risulta interessante è il modo in cui quello stesso atto finisce per racchiudere in sè aspetti affettivi, relazionali e simbolici.

Attraverso la risposta dell’altro ai propri segnali di fame, il piccolo acquisisce la capacità di percepire, riconoscere e differenziare i propri bisogni fisiologici e a

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rispondere adeguatamente ad essi. È in questo modo che il bambino acquisisce la coscienza della propria identità corporea intesa come il frutto di un processo di

apprendimento avvenuto nell’ambito del rapporto empatico-transazionale tra la

nutrice e la primaria fonte esperienzale del bambino, il corpo.

Spitz (1965) opera una distinzione tra “sistema cenestesico” e “sistema diacritico”: il primo, più arcaico, governa le sensazioni diffuse del bambino, quelle viscerali; il secondo, ontogeneticamente più maturo, riguarda gli organi sensoriali e media l’esperienza di sensazioni più intense e localizzate. Alla maturazione del sistema diacritico si giunge attraverso 1) il regolare sviluppo del sistema biologico e 2) attraverso un’efficace rapporto empatico-transazionale con la nutrice. Proprio in quest’ultimo ambito possono verificarsi impedimenti che intralceranno il passaggio dal sistema cenestesico a quello diacritico e quindi alla maturazione cognitiva e percettiva dell’adulto. Nei disturbi del comportamento alimentare potremmo parlare di una inadeguata “percezione diacritica”.

È fuori discussione, dunque, l’importanza del ruolo dell’adulto del processo di acquisizione di consapevolezza del corpo da parte del bambino, attraverso i contatti continui di natura sensitiva e non. Per poter diventare capace di acquisire consapevolezza del proprio corpo (immagine corporea) e delle proprie sensazioni corporee (fame) il soggetto deve essere, nei tempi opportuni, confermato in quelle stesse sensazioni che lo pervadono e di fronte alle quali si trova totalmente impreparato. Cooley (1992) parla di “io riflesso” per spiegare come «la comprensione e la consapevolezza del nostro senso di identità, anche nella sua dimensione fisica, possa essere il riflesso, soggettivamente elaborato, delle

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immagini di noi inviate dagli altri. Le idee sul proprio corpo dipenderebbero non solo dall’esperienza del corpo, ma anche dal confronto con gli altri e dalle opinioni che gli adulti di significativo riferimento rimandano al bambino»15. La competenza corporea (similmente a quella emotiva) può dunque essere acquisita solo attraverso una corretta interpretazione da parte della nutrice dei bisogni, in questo caso fisici, del bambino.

È fondamentale sottolineare che la conferma necessaria al bambino per sviluppare l’identità corporea avviene (o dovrebbe avvenire) secondo modalità differenziate in base all’età. In infanzia la conferma si esplica attraverso il tempestivo ed adeguato soddisfacimento del bisogno specifico (es: fame cibo) che può avvenire soltanto se i genitori hanno riconosciuto il bambino come individuo dotato di bisogni differenti dai loro e se a loro volta hanno operato il necessario distacco dai propri genitori (e dunque se la loro stessa dignità di esseri autonomi è stata riconosciuta). Se ciò non avviene, e la rigidità, il misconoscimento e l’intrusività da parte dei genitori persistono, la confusione del figlio verrà estesa alla verbalizzazione degli stimoli. Poiché l’acquisizione della coscienza è vincolata all’acquisizione della funzione simbolica, soprattutto del linguaggio, per garantire la capacità di trasformare i concetti in parole (cfr. cap. 1), gli adolescenti con DCA, curiosamente non riescono a percepire e riconoscere i bisogni e gli stimoli corporei (appetito, freddo, stanchezza e persino la minzione). Conseguentemente essi non sapranno regolare il proprio comportamento alimentare che apparirà, dunque, disturbato. Le esperienze di depersonalizzazione

15 Cfr. C

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descritte dalle pazienti con crisi bulimiche rappresentano il fenomeno più lampante di questa estraneità tra coscienza e corpo.

Emozione e percezione risultano dunque due elementi che si intersecano perché solo attraverso la regolazione emotiva è possibile acquisire una adeguata consapevolezza percettiva (Selvini Palazzoli, 2006).

«Oltre al difetto dell’apprendimento, si erge una barriera di duplice reciproca ansietà che ostacola la rieducazione. L’ansia spinge il paziente a difendersi contro la possibilità di apprendere un nuovo modulo di rapporto con la propria corporeità (il che, per lui, equivale a distruggere l’oggetto rassicurante) mentre, da parte dei genitori, il bisogno di rassicurarsi mantenendo il figlio in una situazione di totale dipendenza, si è opposto e si oppone tenacemente all’apprendimento del nuovo modulo esperienziale»16.

In adolescenza, l’ intersezione tra componente percettiva e componente emozionale deve fare i conti con la fisiologica maturazione delle strutture cerebrali, i cambiamenti fisici e puberali ed i cambiamenti affettivi dovuti al naturale distacco (desiderabile) dalle figure di attaccamento. Questo passaggio rende l’adolescente obbligato ad operare una riorganizzazione che va sotto il nome di «mentalizzazione del corpo»17. Tale concetto sta ad indicare la capacità di costruirsi un’immagine di sé molto più complessa e quindi lontana da quella più arcaica dello schema corporeo. Per compiere questa operazione è necessario

16 S

ELVINI PALAZZOLI,M. (2006). L’Anoressia mentale. Dalla terapia individuale alla terapia

familiare. Raffaello Cortina Editore, Milano, p. 66.

17 Cfr. P

IETROPOLLI CHARMET,G. (2002). I nuovi adolescenti. Padri e madri di fronte a una sfida. Raffaello Cortina, Milano.

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che l’adolescente si impegni ad interpretare i propri cambiamenti biologici e i loro equivalenti psichici e a dare loro un certo ordine. I comportamenti riferiti al corpo simboleggiano infatti una disarmonia tra le azioni della mente e quelle del corpo ed una tendenza ad interpretare le sensazioni corporee come eccessive e sproporzionate. Il corpo è in questa fase vissuto, dall’adolescente, con un nemico imprevedibile, una fonte di insicurezza e quindi trattato come tale attraverso il tentativo di sopprimerlo o camuffarlo. L’adolescente stabilisce con il proprio corpo un rapporto ambivalente, dimostrando di avere una maggiore familiarità con i vissuti corporei rispetto a quelli mentali: «egli valuta il proprio benessere psichico in funzione della qualità della percezione della propria corporeità e tende a sovrapporre i due piani»18. Fino a che la mentalizzazione del corpo non ha luogo, le due dimensioni resteranno separate.

18 D

ALLA RAGIONE,L.,&MENCARELLI,S. (2012). L'inganno dello specchio. Immagine corporea e

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S

TUDIO DELLA RELAZIONE TRA

S

TILE DI

A

TTACCAMENTO E

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