5. Il paradosso è anch’esso legato a concetti come il meraviglioso, lo sconvolgente, l’inaspettato, l’impossibile e il contraddittorio Attraverso questa forma retorica si uniscono
1.4. L’intreccio tra rito, mito, favola e fiaba
Il genere fantasy pone al centro della sua struttura narrativa una serie di intrecci che coinvolgono immancabilmente un elemento, pressoché costante in ogni racconto, ovvero la presenza della magia che con la sua capacità di violare le leggi della realtà fisica, alle quali l’essere umano è confinato per natura, riesce a trasportare il lettore in un altro luogo. Tale caratteristica è rintracciabile sia nei racconti fantasy rivolti direttamente ai bambini, quindi alla letteratura per l’infanzia, sia in quei testi destinati a un pubblico più adulto, i quali spesso sfociano in produzioni cinematografiche che hanno come soggetto i supereroi (Holdier 2018). È dunque a partire dallo studio della letteratura fantasy che diventa possibile rintracciare l’evoluzione storica del modello causale magico, lì dove esso assume una forma concreta, scoprendo così qualcosa che gli studi antropologici e psicologici non hanno ancora portato alla luce. Con questi ultimi infatti è emersa la logica esposta in precedenza, l’anima pulsante della magia e la sua presenza nella mente dell’essere umano, ma è della letteratura fantasy che essa si alimenta, cresce e progredisce assieme all’evoluzione stessa della società, con i suoi tabù, i suoi costumi, con i suoi riti e miti contemporanei.
All’inizio del capitolo erano state prese in considerazione tutte quelle sfumature che contraddistinguono la definizione di magia da quella del mito e infine dal soprannaturale, giungendo così a costruire il concetto di elemento magico. Adesso si cercherà di intraprendere un percorso analogo, ma ponendo al centro dell’analisi la differenza tra il rito, il racconto mitico, la favola e la fiaba, per giungere così a una costruzione esaustiva del termine racconto di fate, il quale andrà a sostituire quello di letteratura fantasy; esattamente com’è stato per la costruzione dell’elemento magico. In entrambi i casi, infatti, sia parlando di ciò che viene comunemente chiamato magia, sia
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studiando i racconti che pongono al centro della propria struttura narrativa tale elemento, si può notare un’abbondanza di definizioni spesso vittime di sinonimia, come ad esempio nel caso di favola e fiaba. Oppure può succedere di imbattersi in improprie ricostruzioni filologiche, come quella tra rito, mito e favola, per queste regioni occorre fare chiarezza, analizzando i vari significati e possibili interpretazioni associati alle varie definizioni. D’altronde la sovrapposizione stessa tra il termine magia e soprannaturale trova una sua disambiguazione profonda grazie alla conoscenza del concetto di dissonanza cognitiva e a quella di modello causale. Senza questi due costrutti non si riesce a comprende appieno la necessità di due termini così simili, eppure così distanti, né le peculiarità che ognuno di essi esprime, rimandando così nella sinonimia che li accompagna. D’altronde quando si affrontano temi come questi, ricchi di storia e d’intrecci, ci si ritrova spesso a leggere un fenomeno secondo la propria prospettiva e cultura, senza scavare nelle pieghe del tempo. Per comprendere meglio il problema si può immaginare la presenza di un grande telefono senza fili, il cui effetto è amplificato dallo scorrere dei secoli e attraverso il quale il significato originario di un termine ha ormai lasciato posto alla sua ombra. Ad esso occorre poi aggiungere il contributo che scienze recenti, come l’antropologia, la psicologia e le neuroscienze possono conferire nella comprensione di taluni termini e concetti. Fortunatamente, così com’è stato per l’elemento magico, anche per i racconti di fate è possibile ritracciare documenti ricchi di testimonianze, i quali permettono di integrare il rito, il mito, la favola e la fiaba sino a produrre un’unica storia dell’origine ed evoluzione di questo grande genere letterario, attraverso le necessarie distinzioni e congiunzioni.
Il primo tassello da incasellare per iniziare questo percorso risiede nella distinzione tra rito e mito, poiché e da essa che inizia la storia di favola e fiaba. Il perché sia necessario iniziare proprio dal rito e dal mito inoltre risulta evidente se si considera il carattere soprannaturale che entrambi questi termini incarnano e il ruolo che hanno assunto nel tempo grazie agli studi di Frazer sulla magia simpatetica. La legge del contagio e della similarità devono infatti la loro codificazione proprio allo studio dei riti e dei miti diffusi presso quelle tribù a oggi considerate più primitive e quindi maggiormente simili a quelle che hanno dato i natali alla civiltà Occidentale. D’altronde il mondo di fine Ottocento e inizio Novecento era più simile, in alcuni luoghi, a quello di cinquecento, o forse mille anni prima, proprio per via della scarsità di collegamenti tra i vari popoli, fornendo quindi una fonte vergine per la comprensione di tutte quelle pratiche che ormai sono scomparse dalla cultura Occidentale. In quest’ultima restano spesso solo i reperti archeologici e i racconti a testimoniare quello che altrove è ancora vivo e vegeto. Nonostante questa fonte ancora intonsa di pratiche primitive, anche gli studi degli antropologi di inizio Novecento presentano però differenti interpretazioni, pur analizzando lo stesso oggetto di studio e con una metodologia pressoché identica. Per E. B. Tylor ad esempio, rito e mito sarebbero da considerarsi come due entità scisse, mentre per
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Frazer l’interpretazione corretta è esattamente quella opposta (Calabrese 2010, 24; Segal 2004, 24). Se per un autore i racconti mitici erano dunque un prodotto culturale coevo del rito, ma non associabile ad esso, per l’altro studioso invece, queste due forme arcaiche si dovevano considerare come parenti stretti, col rito che avrebbe dato i natali al mito. Una diatriba analoga, ma con soggetti e temi diversi, è poi risorta decenni dopo quando Propp e Claude Lévy-Strauss hanno a loro volta dibattuto sull’ordine cronologico e sul senso dell’approccio strutturalista allo studio della fiaba. Per Claude Lévy-Strauss infatti, il mito sarebbe una forma di racconto posteriore rispetto alla nascita della fiaba, mentre per Propp l’ordine tra i due sarebbe proprio l’opposto, e tra queste due versioni è difficile riuscire a determinare quale sia la più convincente (Calabrese 2010, 25; Propp 1966, 183, 225). Esattamente com’è difficile determinare chi, tra Tylor e Frazer, abbia più ragioni nel sostenere il processo di distinzione tra rito e mito, nonché il senso delle due forme di racconto soprannaturale. Lévy-Strauss ad esempio, sostenne che mito e fiaba fossero complementari e allo stesso tempo che quest’ultima sia una sorta di racconto mitico in miniatura, tutte ipotesi che Propp respinse fermamente affermando invece che la favola sarebbe si composta dai medesimi temi presenti nei miti, ma ormai epurati della loro sacralità e della perdita del nome da parte dell’eroe: in poche parole, la fiaba sarebbe nata dopo attraverso un processo di impoverimento di alcuni dei tratti caratteristici del mito (ibidem). Entrambe le prospettive, sia quella di Propp, sia quella di Lévy-Strauss, pongono poi la fiaba e la favola sul medesimo piano, come se si trattasse di due sinonimi, mentre in realtà non è affatto così (Barbieri & Contini 2005, 19, 27, 30; Bettelheim 1975, 30; Calabrese 2013, 39; Rodler 2020, 93). Ecco dunque, come in poche righe la complessità e pluralità di punti di vista che gravita attorno alla distinzione tra queste forme di racconto magico e del grande genere fantasy si rivela. L’unico modo per uscire da questo ginepraio tra l’origine, la sovrapponibilità del rito, del mito, della favola e della fiaba e la loro storia, è quello di provare ad adottare un unico punto di vista e, usandolo come se fosse un metro di paragone, creare dei confronti con le ragioni delle altre teorie, sino a produrre una struttura ordinata.
Secondo Propp, ad esempio, le fiabe altro non sarebbero che frutto evoluto dei riti d’iniziazione, ormai privati del loro significato sacrale, ma ancora importanti nella formazione dei giovani adulti delle antiche tribù (Calabrese 2013, 40, 73; Propp 1972, 85-86). Per comprendere meglio questo passaggio occorre immaginare l’alba della civiltà, con le sue società di cacciatori raccoglitori ancorati al modello causale magico e che trovarono nel mito la fonte esplicativa degli eventi e nel rito magico la modalità d’interazione col divino. In questo contesto, il rituale era ben più crudo e violento di quanto lo si possa immaginare leggendo i miti che ne narrano il senso, d’altronde la forma orale e poi scritta del rito era una sorta di versione ridimensionata, epurata da molti passaggi più cruenti presenti nella pratica ritualistica (Propp 1972, 119, 169). Nel rituale arcaico ad esempio,
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l’iniziato ricercava il potere di un animale sottoponendosi spesso a torture e prove di forza, seguendo esattamente quei processi di trasformazione magica descritti dalla legge della similarità di Frazer, mentre con l’avvento dell’agricoltura, e quindi la radicale modifica della struttura della società, qualcosa cambia (Propp 1972, 266, 341, 367, 418, 567). La violenza lascia il passo a prove differenti, spesso solo simbolicamente vicine alla forma originaria del rituale e ormai stravolte: ad esempio, se in origine ci si trasformava nell’animale totemico per acquisirne il potere, nelle forme favolistiche basta invece solo dominare e possedere tali esseri (ibidem). L’andare a cavallo infatti sostituisce così il diventare un cavallo, oppure l’animale perde alcune delle sue caratteristiche più selvagge antropomorfizzandosi e divenendo così più simile all’essere umano, magari acquisendo il dono della parola e modalità di pensiero solo umane (ibidem). Ed è qui, nel volgere del rituale in una sua forma più edulcorata che inizia il crepuscolo del mito e con esso il sorgere della fiaba, la quale incarna spirito e funzione di entrambi, ma si muove in una direzione differente, sostenuta dall’evoluzione stessa della società che l’ha prodotta (Propp 1965, 224-225). D’altro canto, e questa volta a favore della tesi di Lévy-Strauss, vi sono numerose fiabe nate ben prima, e coeve, rispetto alla caduta dei miti e persino antecedenti alla loro nascita come quella dei due fratelli; antica fiaba egizia nata nel 1.250 a.C. (Bettelheim 1976, 90; Bottigheimer 2014, 13; Propp 1965, 183). Tuttavia, non essendoci strumenti idonei a comprende l’esatta struttura originaria del rito, la successiva genealogia del mito e quindi poi della favola e della fiaba, diventa arduo attribuire la ragione a una o all’altra prospettiva teorica. Il rito rappresenta infatti un universo ormai andato perduto e per questo insondabile, se non per mezzo di immagini sacre sopravvissute allo scorrere del tempo e ricostruzioni filologiche dei racconti attuali, come quella proposta da Propp (Propp 1972, 32-33). Le ricerche compiute da questo autore, così come quelle compiute da Tylor e Frazer, incarnano proprio questo approccio, ma il problema degli antropologi è che prendono in considerazione solo alcuni aspetti del rituale, come ad esempio la sua funzione e il significato, tralasciando l’aspetto psichico, o del ruolo svolto dalla magia. Frazer ha infatti si scoperto lo schema di funzionamento del modello causale magico, ma ha anche ritenuto che esso fosse sorto dall’inferiorità della mente del selvaggio, mentre in realtà è già stato ampiamente mostrato come non sia così. Qual è stata allora la causa scatenante alla base dell’origine del rito? Tra le ipotesi ad oggi più discusse, la più interessante è forse quella che chiama in causa lo sviluppo della coscienza da parte dell’essere umano e con essa la possibilità di vivere contemporaneamente in due dominii, quello del reale e quello del fantastico, entrambi divisi dal giudizio consapevole dell’individuo. In altre parole, la distinzione tra ciò che reale e il fantastico, l’impossibile, è delegata al giudizio consapevole, frutto delle percezioni corporee, prodotto dall’essere umano. D’altronde i sogni, così come l’uso delle droghe, possono suscitare la presenza di stati percettivi che minano la solidità dei confini tra ciò che viene comunemente considerato reale e
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il fantastico, gettando così un’ombra sul concetto di realtà. E se tale meccanismo è presente, e fragile ancora oggi, come dimostrano gli studi psicologici, allora è altrettanto plausibile che esso fosse presente anche in passato e forse più instabile rispetto alla sua versione odierna (Bettelheim 1975, 39; Quiroga 2016; Subbotsky 2019, 35-50; Wilson 2017, 71-73, 86-88). Le teorie formulate a partire da questa prospettiva sono molteplici, il problema è che nessuna di esse è verificabile empiricamente, poiché mancano quei dati minimi per confermare le ipotesi neuroscientifiche attuali e anche la possibilità di domandare all’uomo di Neanderthal che cosa pensasse dei sogni o quale fosse il senso dei primi disegni nelle caverne preistoriche. Ulteriori indagini sull’origine del rito rischierebbero quindi di restare ipotesi, teorie e congetture prive di fondamento empirico, per quanto esse siano affascinanti e per questo degne d’interesse. Si può giusto suggerire come in passato i primi esseri umani abbiano dovuto far fronte a una crescita esponenziale delle proprie facoltà cognitive e allo stesso tempo integrare eventi, come le morte, nonché le immagini prodotte dai sogni e dalle allucinazioni, prive di comprensione senza la creazione di un mondo parallelo oltre a quello reale: ovvero, quello degli spiriti. Quest’ipotesi è forse la più ragionevole, benché sia priva di quei requisiti minimi per poter essere adottata, ma almeno argina, momentaneamente il problema dell’origine del rito e si riaggancia alla nascita della nascita di un dio moralista e la cooperazione umana. È quindi possibile immaginare che i primi riti avessero a che vedere con l’integrazione di eventi inspiegabili e forme percettive incoerenti con la realtà quotidiana e che poi essi si siano evoluti, a volte perdendo, a volte acquisendo interpretazioni coeve o passate, dalla propria cultura o da altre. Il rituale rappresenterebbe dunque una forma di integrazione di eventi inspiegabili che non muore mai, ma muta semplicemente la propria forma, mantenendo una sorta di nucleo sempre vivo, benché ormai cambiato nel proprio significato. Sebbene questa teoria genealogica possa risultare credibile, in realtà ne esistono altre che antepongono il mito alla nascita del rito e sono sostenute da studiosi come Tylor e Frazer, per i quali il rito sarebbe l’attuazione del mito (Segal 2004, 63-70). Per altri studiosi, invece, come Malinowski, Harrison, Hooke e Smith, sarebbe nato prima il rituale e poi il mito (Segal 2004, 61-63, 70-73). Entrambe le prospettive incorporano dei limiti, la prima ad esempio, non permetterebbe la nascita di nuovi miti contemporanei, poiché essi dovrebbero discendere da una mente primitiva, ormai estinta (Segal 2004, 67). La seconda vulgata di studiosi invece, spiega sì il mito, ma non aggiunge nulla alla nascita del rito (Segal 2004, 63). Tra questi due schieramenti, Propp sceglie una versione di mediazione, poiché per egli sarebbe nato il rito e con esso il mito, con questo ultimo che svolgerebbe la funzione di testo sacro e per questo ritenuto vero (Prpp, 1972, 43, 569- 574). Sempre secondo questa prospettiva, non sarebbe tanto fondamentale affrontare la questione del rapporto tra rito e mito, in termini di nascita, quanto la differenza tra il racconto mitico e la fiaba. Per Propp, infatti, la fiaba altro non sarebbe che un mito che ha perso il suo valore sacro e con esso il suo
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senso. Quest’ipotesi si aggancia a quella di Northrop Frye, per il quale ogni genere letterario discenderebbe dal racconto mitico (Segal 2004, 81). Ad ogni modo, quelle prodotte sino ad ora sono da considerarsi solo ipotesi e teorie, come del resto lo sono anche la teoria della coscienza e l’ascesa del rito, eppure lo schema storico proposto da Propp, appare quanto meno convincente e ben documento dalla sua rassegna di fiabe Russe, nonché dalla convergenza di altri studiosi.
Fig. 4, Schema della nascita della fiaba Propp (1965; 1972)
L’efficacia dell’argomentazione di Propp risiede per l’appunto sia nella metodologia con la quale egli analizzò un insieme di fiabe ben più ampio di molti altri studiosi a lui contemporanei, sia nella funzione che egli propose per ogni tema e situazione presente in questi testi. Grazie a Propp ogni sequenza, oggetto e personaggio presente nella fiaba acquista infatti un significato comprensibile e ruolo. L’idea stessa che le fiabe ripropongano, in chiave “moderna”, le tappe del rito d’iniziazione nato dal retaggio di tribù primitive è sicuramente suggestiva e ricca di evidenze empiriche: una di queste è sicuramente la perdita della danza nella fiaba, che invece era presente nel rito, oppure la presenza del motivo della strega non morta, ma neppure viva, che assume sembianze animali, tipiche dei riti totemici del passato più arcaico, nonché il tema della morte e della rinascita del giovane protagonista del racconto (Propp, 1972, 168, 341). Si potrebbe poi annoverare tra questi esempi anche quello del duello col serpente, che si ritrova in quasi tutte le culture dell’antichità, dalla Cina all’antica Babilonia, e che a sua volta, è nato da quello dell’inghiottimento, rispetto a lui ben più arcaico. Ed inoltre interessante notare come il combattimento con questo rettile non compaia nei riti e nei racconti di quei popoli che non hanno ancora raggiunto la formazione di uno Stato (Propp 1972, 357-358). Il perché fosse necessario essere inghiottiti dall’animale sarebbe da ricercarsi nel rito, oggi ormai perduto, mentre dal mito si evince come la permanenza nello stomaco del serpente possa conferire delle proprietà magiche all’iniziato e allo stesso tempo sia quindi fonte di trasformazione (Propp 1972, 361-364). •Iniziazione dei giovani alla società •Crudo e violento
Rito
•Racconto del rito •Funge da spiegazione degli
eventi
Mito
•Nasce dalle ceneri degli altri due •Riprende sempre itemi dell’iniziazione
Fiaba
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Tutti questi esempi dovrebbero aver reso evidenti alcuni dei punti fondamentali su cui si fonda l’approccio dell’origine del rito e del successivo mito. Il primo è senza dubbio l’idea che entrambe queste forme siano influenzate dall’evoluzione della società che n’è stata fautrice, non è quindi possibile scindere il progresso conoscitivo di una cultura dalla costruzione dei suoi riti e miti, si vedrà inoltre poi come tale ragionamento sussista anche nel caso della fiaba. Non sarebbe infatti possibile separare, neppure volendo, il racconto dal contesto nel quale egli è nato (salvo stravolgerne il significato), benché in esso sia presente una struttura e dei motivi che non conoscono tempo, come quelli individuati da Propp. Il secondo aspetto riguarda l’abbellimento, o lo si potrebbe definire, la rivisitazione in toni più deboli di tutte quelle forme più cruente presenti nel rito e nelle prime versioni di miti e fiabe. Si presuppone infatti come siano esisti riti nei quali era usanza bere sangue, essere mutilati, uccidere bestie feroci e dove compiere gesti oltremodo riprovevoli nei confronti del sesso opposto era cosa comune e sostenuta dalla collettività; anche se per alcuni studiosi, come Jung, in realtà tali riti non siano da leggere in modo letterale, ma rappresentino piuttosto un insieme di simboli usati per veicolare un messaggio (Segal 2004, 82). Ritornando a Propp, egli stesso ha compiuto un’analisi queste forme cruente e ne ha spiegato l’evoluzione verso evoluzioni assai più attenuate, agganciando in modo puntuale il mito e alla fiaba, e dimostrando così, non senza occasionali forzature, la presenza di una specifica struttura di fondo a quest’ultima tipologia di racconto composta da 31 funzoini. Può quindi valer la pena riprendere il punto di vista dell’autore Russo ed agganciarlo alle ricerche prodotte da archeologi e storici, i quali propongono una concatenazione pressoché identica della genealogia dei motivi e oggetti più ricorrenti all’interno delle fiabe. Un buon esempio dal quale partire per comprendere la sensatezza di tale affermazione può essere l’ascesa del bastone caduceo quale simbolo della medicina e dell’eterno potere di guarigione associato alla figura del serpente.
Nel periodo compreso tra il 4.000 a.C. e il 1.000 a.C., il serpente compare irrompe nella letteratura come una figura minacciosa, tuttavia non ancora investita da alcun potere di guarigione e dalla quale proteggersi attraverso quegli strumenti descritti da Frazer oltre 2.000 anni dopo. All’epoca di Assiri, Babilonesi, Ittiti e Accadi erano infatti ben diffusi degli amuleti a forma di serpente, da infrangere e porre sulla testa da colui che era stato morso, a quale occorreva poi far bere dell’acqua di mare per far così uscire il veleno dalla ferita; almeno questo era il rituale (Devies & Peter Maxwell Stuart 2017, 2; Feldt 2012, 85). In questo caso si rende già evidente la presenza di quella prima legge che Frazer indicò nel suo Il Ramo D’Oro, ovvero quella della similarità, che richiede una condivisione di proprietà tra causa scatenante ed effetto desiderato: in tal senso, si usa l’immagine di un serpente per contrastare il morso prodotto da quello stesso rettile e così la causa giunge a condividere, per similarità, delle caratteristiche con l’effetto. Si dovrà aspettare l’ascesa del popolo Egizio e con essi