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L’introduzione successiva del termine di durata

Sebbene della fattispecie di recesso ad nutum sia possibile predicare il carattere inderogabile, non potendo i soci escludere l’operatività di questo rimedio laddove la società sia contratta a tempo anche solo sostanzialmente indeterminato, è opportuno adesso soffermare l’indagine sui rimedi approntati a favore dei soci in caso di introduzione successiva del termine di durata.

L’opposta ipotesi di eliminazione del termine di durata della società, tale da determinare il passaggio alla disciplina della società contratta sine die, non desta particolari problemi interpretativi: i soci, in virtù del nuovo assetto societario, potranno recedere in qualsiasi momento, nel rispetto del termine di preavviso di durata semestrale.

Con riguardo al problema pocanzi individuato, invece, è necessario dar conto di una recente decisione, emanata in materia di società a responsabilità limitata, proveniente dalla I Sezione civile della Corte di Cassazione36

: secondo il giudice di legittimità, la delibera assembleare avente ad oggetto l’introduzione del termine di durata, comportando l’eliminazione di una causa di recesso, attribuisce ai soci che non hanno concorso alla sua approvazione il potere di esercitare siffatto diritto37.

È possibile osservare come la soluzione interpretativa cui è pervenuto il Supremo Collegio non sia perfettamente aderente al disposto di cui all’art. 2473, comma 1°.

In primo luogo, il medesimo attribuisce al socio il diritto di recedere dalla società in caso di «eliminazione di una o più cause di recesso

36

Si allude alla già citata sentenza 22 aprile 2013, n. 9662.

37

In senso conforme si esprime anche il Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie, v. Massima H.H.4, Recesso e modifica della

durata da indeterminata a determinata, reperibile online sul sito:

previste dall’atto costitutivo»: la fattispecie di recesso ad nutum, peraltro, costituisce ipotesi di recesso di origine legale38

.

Non pare, poi, che nel caso di specie sia la delibera introduttiva del termine di durata a comportare l’eliminazione di questa ipotesi di recesso. Una volta che sia stato inserito nell’atto costitutivo il termine di durata, infatti, la sopravvenuta impossibilità di recedere “senza onere di motivazione” costituisce l’effetto legale di un cambiamento, che si pone allora come sua causa, dell’assetto societario originariamente previsto: il passaggio ad un regime di durata determinata della società comporta soltanto il venir meno del presupposto fattuale che sta alla base dell’ipotesi di recesso ad nutum (l’assenza del termine di durata o comunque la durata eccessivamente protratta dell’ente), e non la sua eliminazione come causa di recesso in quanto tale.

Se de iure condendo il riconoscimento del potere di recedere in caso di introduzione successiva del termine di durata si mostrerebbe coerente alla funzione generale assolta dall’istituto in parola39

, de iure condito, per le ragione sopra esposte e in assenza di diverse indicazioni provenienti dallo statuto 40

, dovrebbe escludersi che siffatto cambiamento possa legittimare l’esercizio del diritto de quo.

L’unico rimedio a disposizione del socio, al ricorrere di determinati presupposti, è rappresentato dalla possibilità di ottenere di annullamento della delibera viziata per “abuso della maggioranza”. 41

38

Analogamente, in materia di società per azioni, l’art. 2437, 1° comma, lett.

e, attribuisce il diritto di recesso in caso di eliminazione di una o più cause di

recesso convenzionali o derogabili.

39

La delibera introduttiva del termine di durata è, infatti, idonea ad incidere sulle condizioni di rischio originariamente previste dal socio perché comporta il venir meno dell’antecedente fattuale che sta alla base dell’ipotesi di recesso ad nutum; strumento, quest’ultimo, idoneo a consentire al socio una possibilità di exit alternativa all’alienazione della partecipazione.

40

In assenza, detto altrimenti, di un’ipotesi statutaria che preveda il recesso in caso di passaggio dal regime tempo indeterminato ad un altro, caratterizzato dalla presenza del termine finale della società.

41

La necessità di frenare eventuali comportamenti oppressivi della maggioranza sorge contestualmente all’emanazione del codice di commercio

In proposito, se il termine di durata è stato introdotto al sol fine di ledere gli interessi dei soci di minoranza, ovvero se l’adozione della delibera non trova alcuna giustificazione nell’interesse della società42, a questi ultimi l’ordinamento riconosce il potere di far valere dinanzi al giudice siffatto vizio. Così, in caso di accoglimento della domanda, costoro potranno ottenere la caducazione degli effetti della delibera viziata e, eventualmente, il risarcimento del danno a spese dei soci che hanno dato luogo alla condotta abusiva43.

del 1882: si tratta, come rilevato da M.CASSOTTANA, L’abuso di potere a

danno della minoranza assembleare, Milano, 1991, p. 1, di tutelare i soci

qualora attraverso il meccanismo della regola maggioritaria «la deliberazione risulti ispirata da finalità prevaricatrici della maggioranza a danno degli azionisti di minoranza».Se in un primo momento, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, si fece ricorso all’eccesso di potere, figura mutuata in ambito societario dal diritto amministrativo, con l’entrata in vigore del codice civile del 1942 fu richiamata, al fine di colmare la lacuna normativa riguardante il predetto abuso, la disciplina di cui all’art. 2373 c.c. (così, M.CASSOTTANA,

op. ult. cit., p. 64 ss.). Si cercò, più precisamente, di interpretare

estensivamente la norma dettata in materia di conflitto d’interessi del socio, valorizzandola al punto tale da ricomprendere al suo interno il vizio dell’abuso della maggioranza. Anche siffatta ricostruzione dogmatica, tuttavia, fu in seguito superata: infatti, mentre la fattispecie disciplinata all’art. 2373 c.c. contempla un conflitto tra «l’interesse particolare del socio e gli interessi tipici societari all’attività e al profitto comune», la delibera adottata a danno della minoranza assembleare è assunta «nella neutralità dell’interesse sociale» (così C. PASQUARIELLO, Il principio di correttezza applicato alle delibere assembleari: l’abuso della regola di maggioranza al vaglio dei giudici, in Giur. comm., I, 2002, p. 125 ss.). La dottrina e la

giurisprudenza più recente, seppur con argomentazioni profondamente eterogenee fra loro, al fine di individuare il referente normativo per sanzionare il comportamento abusivo della maggioranza, ha fatto ricorso alle clausole generali della buona fede (art. 1375 c.c.) e della correttezza (art 1175 c.c.), destinate dunque a trovare applicazione anche al di fuori dell’ambito strettamente contrattuale (v. ex multis in giurisprudenza: Cass., 26 ottobre 1995, n. 11151, in Giur. comm., 1996, II, p. 334 ss ; Cass., 12 dicembre 2005, n. 27387; sull’operatività di questi principi, seppur non espressamente richiamati in materia societaria dalla riforma del 2003, v. F. DI

SABATO,Il principio di correttezza nei rapporti societari, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum G. F. Campobasso, diretto da Abbadessa-

Portale, Torino, 2006, I, p. 133 ss.).

42

Così C. FRIGENI, Partecipazione in società di capitali e diritto al disinvestimento, Milano, 2009, pp. 245-246.

43

Legittimato passivo dell’azione di responsabilità è quindi il socio di maggioranza responsabile della violazione dei doveri di correttezza e buona

5. Recesso ad nutum da società contratta a tempo