2.2. Aristotele e l’invidia
2.2.2 L’Invidia nella Retorica
L’analisi aristotelica di phthonos nella Retorica fa parte del gruppo di capitoli (8-11) che riguardano le emozioni relative alla fortuna degli altri: la pietà, l’indignazione, l’invidia, l’emulazione e il piacere verso le sfortune altrui. Il modo di procedere in questi capitoli rappresenta un’eccezione nel quadro dell’opera. In questo testo, infatti, il filosofo è solito trattare le emozioni a coppie: ira e mitezza, philia (amichevolezza171) e odio per citarne alcune. Lo schema a coppie sottende la tesi per cui ogni emozione esprime un certo set cognitivo che esclude quello proprio dell’emozione ad essa contrapposta172. Il gioco di relazioni ed opposizioni che il filosofo disegna in questi capitoli ha il suo centro nella compassione che, tra le reazioni emotive che si possono suscitare attraverso il discorso, ha un ruolo primario. Prendendo come riferimento le orazioni che ci sono state tramandate,
171 Nella Retorica, con il termine philia si vuole indicare l’amichevolezza, ossia quel pathos puntuale che
coinvolge l’individuo in uno stato emotivo dai contenuti affini a quelli dell’amicizia vera e propria. La philia come disposizione durevole, ossia come virtù, è descritta infatti nell’EN. VIII-IX.
172 L’oratore non deve suscitare nel pubblico il desiderio di assolverlo o condannarlo, bensì deve suscitare
emozioni come la compassione, invidia, sdegno ed ira, cioè emozioni che il pubblico già prova o ha provato nei confronti dell’imputato per una determinata ragione.
l’appello dei giudici alla compassione sembra costituire una costante dei processi giudiziari. Lo stesso Aristotele nel libro III ci mostra come il momento centrale dell’epilogo sia dedicato al tentativo di condurre i giudici a provare una gamma di emozioni, tra cui primeggia proprio l’eleos (compassione).
Abbiamo già visto in precedenza che la pietà è quell’emozione dolorosa che nasce alla vista di un male rovinoso che ricade sulla persona che ci sta di fronte173. Affinché la compassione insorga nello spettatore devono essere soddisfatte determinate condizioni: prima di tutto il male deve essere manifesto (phainomenos) o deve apparire tale a chi lo contempla. Inoltre il male deve essere prossimo allo spettatore, quindi: il soggetto deve poter immaginare che il male possa capitare anche a lui o ai suoi familiari ed amici. La vicinanza e l’identificazione con il soggetto non deve però superare una certa soglia: in tal caso, infatti, non si tratterebbe più di compassione, bensì di paura vera e propria. Per concludere, la sofferenza subita dall’individuo a cui è diretta la compassione deve essere immeritata. Tre sono, dunque, i nuclei cognitivi che Aristotele individua nella compassione: il male dell’altro, la comunanza con sé stessi e il merito. Dopo aver illustrato il quadro della compassione, il filosofo passa a descrivere le diverse relazioni che coesistono con le altre emozioni.
Egli inizia con lo sdegno (nemesan), che contrappone alla compassione: infatti, all’essere addolorati di fronte a sventure immeritate è in un certo senso contrapposto l’esserlo di fronte a fortune immeritate. Queste emozioni hanno origine dal medesimo carattere ed, inoltre, entrambe sono proprie di un carattere nobile. Infatti, bisogna essere partecipi del dolore di chi è immeritatamente sfortunato e provare compassione per lui, mentre bisogna provare sdegno nei confronti di chi prospera immeritatamente. La ragione è che ciò che accade contro il merito individuale è ingiusto ed, inoltre, è proprio per questo motivo che attribuiamo lo sdegno anche agli dei174.
Sdegno e pietà si delineano come pathe opposti ma al contempo complementari, caratteristici dell’uomo per bene. Colui che guarda con compassione chi soffre, non è incline ad apprezzare nemmeno una fortuna non commisurata al merito. Possiamo affermare, quindi che Aristotele vede lo sdegno come una sorta di baluardo contro l’ingiustizia175.
173 Cfr., p. 45.
174 Reth. II, 9, 1386b 8-16.
175 Nel testo greco è adikon. Tale espressione è usata nell’accezione presente nell’Etica Nicomachea, dove
corrisponde all’espressione “contro la legge” (EN 1130b 23-24). Qui, ad essere violate sono la legge di natura e quella dell’uomo, che sono ciò che indica il giusto comportamento. In conformità a ciò che è chiamato giusto, è naturale che una persona ottenga ciò che gli spetta in base al merito (EN 1158b 30-31). Quando questo principio viene violato, la risposta degli dei e degli uomini è lo sdegno.
[Nemesis] seems to present the natural and almost indestructible ideas of justice in human mind – an instinct in man of what is right176.
Questa posizione è resa evidente dall’elencazione di quali beni e verso quali tipi di persone questa emozione può insorgere. Le fortune che ricadono nell’ambito dello sdegno non sono i beni che si posseggono per natura, bensì quelli che si acquisiscono con l’abilità o che dipendono dall’eccellenza, come ricchezza e potere. La naturalità è proprio il criterio discriminante dei beni, in quanto essa dona un’aura di sacralità. Lo sdegno non sarà suscitato da doti del carattere o da qualità naturali, quali la bellezza, la nobiltà di natali e neppure da tutto ciò che è posseduto da lungo tempo. Il tempo dona, infatti, una parvenza di naturalità.
Poiché ciò che è antico sembra prossimo a ciò che è naturale, necessariamente gli uomini si sdegneranno in misura maggiore, tra le persone che possiedono lo stesso bene, con quelle che si trovano ad averlo da poco tempo e che prosperano grazie ad esso: le persone arricchite da poco infastidiscono più di quelle che sono ricche da lungo tempo e di famiglia, e lo stesso discorso vale per le cariche pubbliche, il potere le amicizie, la discendenza, e ogni altro aspetto di questo genere.
In generale i beni verso cui si prova sdegno sono quelli di cui si può dire che spettano a qualcuno per merito, per qualsiasi tipo di diritto o criterio di appropriatezza. Seguendo la linea delle opere etiche, il focus of concern di nemesis è chiaramente il merito della persona che gode di certi beni.
Per quanto riguarda il tipo di uomo che è solito provare sdegno, Aristotele individua una serie di personalità:
Gli uomini sono portati a provare sdegno quando si trovano a meritare i beni maggiori o a possederli, poiché non è giusto che persone che non sono pari a loro siano ritenute degne di beni pari ai loro; in secondo luogo quando capita che siano persone oneste e virtuose, perché in tal caso sanno giudicare correttamente e odiano l’ingiustizia177; inoltre, quando sono ambiziosi e aspirano a
conseguire alcuni obbiettivi, soprattutto se la loro ambizione è rivolta verso ciò che altri pur essendo indegni riescono ad ottenere178
176 William M. A. and Grimaldi S., ARISTOTLE, RETHORIC II A COMMENTARY, Fordaham University
Press, New York, 1988, p.152.
177Cfr. EN III 1113a 29-32. 178 Reth. II, 1387b 7-15.
In generale, colui che è tipicamente propenso a provare sdegno è chi si ritiene meritevole di beni di cui però non ritiene degne in alcun modo le altre persone. Inoltre, secondo l’uso del termine in età arcaica179, il nemesan è strettamente collegato alla consapevolezza della struttura sociale ed è tanto più intenso quanto più è avvertita la propria superiorità da parte del soggetto. È naturale dunque che, per Aristotele, i cittadini più inclini all’indignazione siano gli spoudaioi e agathoi,i quali si vedono defraudati nelle loro legittime aspirazioni al dominio da persone che ritengono inferiori, sono esenti da questa emozione, gli individui “servili, ordinari e prive di ambizione”180.
Sia lo sdegno che la compassione, dunque, sono emozioni che valutano il merito: affinché una situazione susciti sdegno o compassione la fortuna, da una parte, e la sfortuna, dall’altra, devono essere viste come immeritate. Questa valutazione non dipende solo dal tipo di persona la cui situazione viene giudicata, ma anche dallo spettatore stesso:
È anche evidente che a queste terranno dietro le emozioni contrarie. Gli uomini che provano dolore di fronte a chi subisce sventure immeritate, infatti, godranno, o non soffriranno, alla vista di chi ne è giustamente colpito. Nessun uomo onesto, ad esempio, soffrirà se dei parricidi o degli assassini saranno puniti, in quanto bisogna gioire di avvenimenti di questo genere, come anche delle fortune delle persone meritevoli: gli uni e le altre sono cose giuste, e possono far gioire un uomo onesto, perché è inevitabile che egli speri che quanto accade a un suo simile accada a lui. Tutti questi sentimenti sono propri di uno stesso tipo di carattere, quelli contrari di un carattere di tipo contrario: è la stessa persona che gioisce del male e che è invidiosa del bene altrui in quanto se un uomo soffre perché un altro acquista o possiede un bene, immancabilmente godrà se costui ne sia privato o debba subirne la distruzione. Tutti questi sentimenti, perciò, inibiscono la compassione ma differiscono per le ragioni che si sono dette. Di conseguenza risultano tutti utili allo stesso modo per non creare sentimenti di compassione181.
Tutte le emozioni che sono qui descritte, sono rivolte alle fortune o alle sfortune altrui. La sorte dell’altro è indipendente da quella del soggetto che lo osserva ma la valutazione
179 Nell’epica arcaica nemesis e i suoi derivati erano usati per indicare le reazioni emotive che nascevano in
risposta a quei comportamenti che andavano contro le leggi sociali. Queste norme non erano però universali, nel senso di essere applicate equamente a tutti i soggetti, ma tenevano conto del ruolo che una persona deteneva all’interno della società e, dunque, del suo status sociale. Per un approfondimento sul tema si rimanda a David Konstan, The Emotions of the Ancient Greeks: Studies in Aristotle and Classical Literature, University of Toronto Press, Toronto, 2007, pp. 111-129.
180 Reth. II, 1387b 9.
risultante dipende molto dal confronto che lo spettatore giudice fa con sé stesso. I diversi punti di vista che egli assume contribuiscono a determinare l’emozione da cui è affetto e viceversa. Il nodo determinante è di fatto il carattere: caratteri diversi favoriscono o meno determinate reazioni emotive. Ad esempio, un carattere che dà particolare importanza al criterio del merito sarà più propenso a reagire ad una situazione con sdegno e compassione. Un carattere che, al contrario, non utilizza il merito come criterio principale per interpretare la realtà ne utilizzerà altri, primo fra tutti il confronto con gli altri: ne nascerà l’invidia e un’emozione che compare per la prima volta nella Retorica e che non avrà particolare approfondimento da parte di Aristotele, ovvero la gioia per i mali altrui.
L’analisi di questo passo è importante per capire il motivo per cui Aristotele vede l’invidia maggiormente in contrapposizione alla compassione: esse sono, di fatto, due emozioni che non si incontrano mai.
Anche l’invidia potrebbe sembrare, nello stesso modo, contrapposta alla compassione – in quanto prossima o identica allo sdegno – ma in realtà è differente; anche l’invidia è una forma di sofferenza che sconvolge l’animo ed è diretta contro la felicità ma non quella di una persona indegna, bensì quella di un simile e di pari condizione182.
Aristotele struttura la trattazione dell’invidia secondo i criteri canonici individuati all’inizio del testo: in quale disposizione d’animo si trova colui che prova l’emozione, l’oggetto che causa l’emozione e la persona a cui essa è diretta. A differenza della presentazione che troviamo nelle opere etiche, nella Retorica l’invidia non sorge alla vista delle fortune meritate (EE) o delle fortune di tutti (EN) bensì di quelle di coloro che sono o sembrano nostri pari. Mentre, nel caso dello sdegno, il fatto che l’altra persona meriti o non meriti la situazione che sta vivendo è di centrale importanza, nell’invidia passa in secondo piano. Parlare di una totale non curanza del merito è improprio. L’invidia è diretta principalmente verso chi è nostro eguale o chi noi vediamo (phainestai) come nostro simile: questo implica necessariamente una qualche valutazione di sé e di quello che ci spetta, il tutto prendendo l’altro come termine di paragone. È ciò che risulta dal confrontarsi con l’altro che provoca la sofferenza di cui è soggetto l’invidioso, ovvero il fatto che non possiede la stessa fortuna di cui egli sta godendo. L’interessarsi all’altro in sé e per sé183 potrebbe sembrare una nota altruistica: in realtà, come nel caso dello sdegno, non è
182Reth. II 1386b 19-24. 183 Cfr Reth. II, 11387b 24.
l’altruismo a muovere il giudizio, bensì il senso di giustizia da una parte e l’egoismo dall’altra. Aristotele mostra come l’invidia sia rivolta all’altro ma, in realtà, non si preoccupa dell’altro. Il focus of concern di questa emozione non è l’altro ma il soggetto e il suo sentirsi inferiore. Il fulcro del set cognitivo è l’io dell’osservatore, quell’ego che ha una serie di aspettative per sé, le quali orientano la realtà circostante. È importante, tuttavia, sottolineare che l’altro è oggetto di attenzione in quanto altro da sé e competitore.
I beni posseduti dal rivale e alla vista dei quali insorge l’invidia sono molti:
L’invidia si rivolge più o meno a tutte le azioni e ai possessi a causa dei quali gli uomini competono, sono ambiziosi e cercano di ottenere reputazione, e a quelli che provengono dalla buona sorte; e soprattutto quelli a cui aspirano essi stessi o ritengono di avere diritto o il cui possesso li rende di poco superiori o di poco inferiori184.
La lista dei beni è quindi molto ampia: si va dai beni a cui aspirano le persone ambiziose, quali gloria, onori e ricchezze (che sono tutti segni di eccellenza) a quelli che semplicemente toccano in sorte185.L’invidia, però, è soprattutto personale e si concentra verso quei beni che hanno particolare importanza per il soggetto e a cui egli aspira:
Poiché gli uomini lottano per prevalere soprattutto contro i competitori, i rivali in amore e, in generale, contro coloro che hanno i loro stessi obiettivi, inevitabilmente proveranno invidia soprattutto verso queste persone […]186.
È chiaro, inoltre, che gli uomini invidiano coloro che raggiungono il successo e che acquisiscono beni che rappresentano una fonte di biasimo per l’osservatore. Alla vista di una simile situazione risulta evidente che è solo colpa del soggetto se non è stato in grado di ottenere le stesse cose di chi è suo pari.
E anche verso le persone che possiedono o hanno acquistato ciò che spettava invece a loro o che essi stessi un tempo avevano posseduto, ed è per questo motivo che i vecchi invidiano i giovani, e quelli che hanno speso molto invidiano quelli che hanno avuto la stessa cosa per poco; e anche
184 Reth. II, 1388a 1-6.
185 Diversamente a quello che accadeva con lo sdegno. 186 Reth. II, 1388a 18-22.
quelli che hanno ottenuto una cosa a fatica o non l’hanno ottenuta invidiano chi ci è riuscito in breve tempo187.
Il riferimento all’invidia dei vecchi verso i giovani ci permette di introdurre un fattore che abbiamo visto coinvolto in altre emozioni: la speranza. Nella Retorica i vecchi sono dipinti come meschini, egoisti, freddi e vili. La prodigalità e l’ardimento giovanili si tramutano, nella vecchiaia, in avarizia e timore generalizzato. Alessandra Fussi nel saggio “L’invidia, le emozioni competitive, la speranza. Platone, Aristotele e Plutarco” sostiene che è proprio la perdita di speranza a determinare questo atteggiamento da parte delle persone anziane.
La speranza allunga la prospettiva sul futuro e la sua assenza la restringe, costringendo i vecchi al chiacchiericcio sul tempo che fu (si pensi a Cefalo nella Repubblica) e lasciandoli in preda al sentimento della penuria. L’avidità, la viltà, il cinismo sono tutti modi in cui si declina affettivamente il fatto che ciò che veramente sfugge di mano, il tempo, appartiene ormai ad altri. È proprio verso i giovani, che sembrano godere con leggerezza di un tempo che i vecchi sentono come rubato a loro, si scatena l’ostilità188.
L’assenza di speranza, dunque, è propria dei vecchi e, in generale, degli invidiosi: l’invidioso, non vedendo possibilità alcuna, è frenato nell’agire in direzione del bene desiderato. Nell’invidia l’impulso ad agire per colmare la disparità percepita come ingiusta è verso il basso: si desidera o si tenta di privare l’altro del bene o della fortuna che determina la disuguaglianza, non di ottenerla a propria volta. Quest’ultima caratteristica dell’invidia è quella che permette ad Aristotele di distinguerla dall’emulazione, zelos, emozione giudicata buona dal punto di vista morale.
Se lo spirito di emulazione è una forma di sofferenza nel constatare la presenza, in persone simili a noi per natura, di beni tenuti in grande considerazione e che è possibile anche per noi ottenere, sofferenza che deriva non dal fatto che un altro possiede questi beni, ma dal fatto che non li abbiamo anche noi […]189.
187 Ivi. II, 1388a 29-36.
188 A. Fussi, L’invidia, le emozioni competitive, la speranza. Platone, Aristotele e Plutarco, in A. Fussi e V.
Fiorino (a cura di), Emozioni, corpi, conflitti, Edizioni ETS, Pisa, 2016, p. 19.
Come per l’invidia, l’emulazione nasce non perché l’altro ha un bene ma perché io non lo possiedo: il focus of concern dell’emozione è il soggetto piuttosto che l’oggetto. La sofferenza nasce non perché gli altri sono in una situazione favorevole, bensì perché io sono in una situazione sfavorevole che, dal mio punto di vista, dovrebbe essere modificata. Al contrario di quello che accade con l’invidia, l’emulazione spinge chi ne è soggetto ad acquistare in prima persona i beni desiderati. Lo sforzo che impieghiamo nell’ottenere i beni che riteniamo di meritare non comporta un danno verso l’altro, bensì solo il miglioramento delle nostre qualità. Alla luce di ciò possiamo ben capire il motivo per cui Aristotele attribuisce l’emulazione a persone nobili ed oneste, mentre phothons “è un sentimento spregevole e proprio di uomini spregevoli”190. Trovando il suo presupposto nella consapevolezza del proprio valore, l’emulazione è diffusa soprattutto nelle persone che si ritengono degne di grandi cose: i giovani e i magnanimi. Infine l’emulazione si concentra verso quei beni degni di essere tenuti in considerazione come le virtù191, le cose utili e benefiche per l’uomo, ma anche ricchezza, bellezza e salute. Tornando all’invidia, è chiaro come essa nasconde una certa sfumatura di malvagità: nonostante ciò, quando Aristotele la descrive la attribuisce anche ad individui che nel complesso possono essere visti come nobili e stimabili.
Saranno invidiose anche le persone a cui manca poco per avere tutto quello che desiderano – per questo motivo gli uomini che compiono grandi imprese e che ottengono successo sono invidiosi – in quanto credono che tutti portino via ciò che spetta loro; quelle inoltre, che vengono straordinariamente onorate per qualche motivo, e in particolare per la loro sapienza o per la loro felicità. Chi possiede delle ambizioni sarà più invidioso di chi ne è privo, e anche chi aspira alla fama di sapiente, in quanto è ambizioso in relazione alla sapienza; e in generale chi desidera essere stimato per qualche cosa sarà in rapporto a essa, facile all’invidia; e anche gli uomini meschini, in quanto a costoro tutto sembra grande192.
In realtà, quello che si nasconde dietro questa lista è un grande senso di fragilità e insicurezza che caratterizza le persone invidiose e che non è presente, invece, in coloro che sono inclini a provare sdegno ed emulazione. Colui che si sdegna ha sufficiente fiducia in se stesso e nelle proprie capacità da riuscire a considerare ciò che accade agli altri in base al criterio del merito. Allo stesso modo, chi agisce sotto la guida dell’emulazione si sente in
190 Reth. II, 1388a 52-53.
191 Per la prima volta le virtù appaiono nell’elenco dei beni che sono oggetto di un’emozione. 192 Reth. II, 1387b 40-52.
grado di ottenere i beni desiderati e che, per il momento, si trovano solamente nelle mani del rivale.
Come osserva Tina Rupcic:
For Aristotle, what distiguishes the indignant person and the envious person is not an issue of self esteem; the differences is not that one has, and the other lacks, a sense of self- worth. Aristotle does not characterize the envious persona as one who is lacking in a sense of self-worth, but rather as one who is anxious or insecure about self-worth193.
Nel soggetto che prova invidia è come se il proprio senso di sé, la propria reputazione e il proprio valore fossero costantemente esposti e danneggiati dagli attacchi di chi possiede quei beni oggetto di desiderio. Chi invidia vuole essere il solo ad avere l’esclusività di possedere certi beni: in altre parole è estremamente egoista. Affinché i giudici optino per un