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2.2. Aristotele e l’invidia

2.2.1 L’invidia nelle Etiche

L’obiettivo di Aristotele nei trattati etici è quello di guidare il cittadino verso un comportamento corretto. Il “buon agire” dipende, in tutta la sua complessità, dall’interazione e dall’interdipendenza di virtù etiche e dianoetiche. Il bravo cittadino deve quindi saper rispondere in modo adeguato alle spinte emotive di cui l’uomo è, in virtù della sua natura, inevitabilmente soggetto. All’interno di questo quadro dove le emozioni non sono dette né buone né malvagie in sé, l’invidia sembra rappresentare un’eccezione per Aristotele. In EN II, 4, egli mostra come le virtù etiche siano disposizioni intermedie rispetto alle emozioni e alle azioni, mentre i vizi risiedono nell’essere soggetti ad un’emozione in eccesso o in difetto. È solo in base alle virtù e ai vizi che un individuo può e deve essere lodato o biasimato. Tuttavia, alla fine di questo passaggio il filosofo ci tiene a mettere in guardia il suo lettore in quanto:

Non ogni azione né ogni passione accoglie la medietà, alcune infatti hanno nomi che immediatamente connettono strettamente alla cattiveria, come ad esempio malevolenza, impudenza, invidia, e, tra le azioni, adulterio, furto e omicidio162.

Riguardo a questo genere di azioni e passioni, dunque, non si può agire in modo corretto ma si cade sempre in errore. Ad esempio, non esiste un modo corretto o la situazione appropriata in cui il commettere un omicidio viene lodato. Allo stesso modo, quando proviamo invidia sbagliamo e l’obiettivo di Aristotele è proprio quello di metterne in luce la ragione.

Da questo momento in poi, tuttavia, Aristotele, secondo le esigenze teoriche dettate dal testo, non parlerà più dell’invidia come di una singola emozione, ma tratterà della disposizione di chi è disposto ad essere affetto da tale pathos.

Secondo la teoria aristotelica, le virtù del carattere forniscono l’impulso ad agire correttamente nelle diverse circostanze che si possono presentare all’individuo. Questo

impulso può essere realizzato solo grazie alla ragione (nous). La persona mite, pertanto, è descritta come colui che è capace di adirarsi nel momento opportuno, contro le persone giuste e per i motivi adeguati163. In questo quadro l’invidia o, meglio, la disposizione degli invidiosi, è presentata da Aristotele come il comportamento sbagliato che si verifica di fronte a una specifica circostanza: la fortuna altrui.

Lo sdegno è medietà tra invidia e malevolenza, e tutti e tre riguardano il piacere e il dolore che si provano per ciò che capita al nostro prossimo, infatti colui che si sdegna si addolora per coloro che hanno successo immeritatamente, l’invidioso, andando oltre si addolora per i successi di tutti; inoltre chi si sdegna si addolora per quelli che falliscono immeritatamente, mentre chi è malevolo è tanto lontano dall’adirarsi, che ne gioisce164.

Per Aristotele, dunque, la giusta indignazione, l’invidia e l’epikairekakia (malevolenza), sorgono tutte in riferimento alla fortuna o sfortuna del nostro prossimo. La persona che si sdegna correttamente prova sofferenza per le buone fortune immeritate: questa è la medietà, quindi provare tale emozione è, per Aristotele, segno di virtù165.

La persona invidiosa è descritta come quella che “va oltre” e prova sofferenza per le fortune di tutti, ossia in un insieme di circostanze più ampio rispetto a chi prova sdegno. Questa presentazione sembra suggerire che chi prova invidia soffre non solo di fronte ai casi di fortuna immeritati ma anche di fronte a quelli meritati. La differenza cruciale tra la persona invidiosa e quella che si sdegna correttamente è che esse hanno delle reazioni differenti allo stesso tipo di situazioni. Quando un vicino ha successo meritatamente, lo phthoneros prova dolore, mentre il nemesietikos no. Quest’ultimo è ferito solo quando la fortuna è immeritata. L’invidioso, dall’altra parte, prova dolore di fronte a qualsiasi caso di buona fortuna, come se non riuscisse a distinguere la fortuna meritata da quella immeritata. Nonostante sia possibile che entrambi i caratteri provino sofferenza nella stessa situazione, ciò non vuol dire che essi abbiamo una risposta emotiva uguale. Inoltre, in virtù della teoria del giusto mezzo, solo una tra esse è la risposta corretta. La difficoltà nell’interpretare le parole di Aristotele sta nel capire il motivo per cui l’invidioso si addolora per le cose sbagliate. Di certo il perché non risiede nella situazione in sé (che è la stessa) ma piuttosto negli individui, precisamente

163 Cfr. EN IV 1125b 30-33. 164 EN II 1108b 1-7.

165 Per quanto riguarda la medietà in riferimento alle passioni, Aristotele cita lo sdegno (nemesis), e il pudore

(eleos) ossia la medietà fra verecondia e sfacciataggine (EN II 1108a 30-36). Nonostante questo, Aristotele non ritiene opportuno identificare né l’una né l’altra come virtù in senso proprio. Entrambe sono piuttosto pathe che accompagnano un comportamento virtuoso.

nel loro modo di percepire ed interpretare la realtà. A differenza dell’invidioso, l’indignato quando giudica una situazione presta un’attenzione particolare per il merito inteso come valore oggettivo. Secondo Aristotele questa è la disposizione da perseguire e ricercare.

Per comprendere meglio la posizione di Aristotele si può prendere in considerazione anche un'altra opera etica ritenuta inferiore e precedente rispetto all’Etica Nicomachea, ma nondimeno illuminante se vista come “banco di prova” in attesa dell’elaborazione della sorella più famosa. Anche nell’Etica Eudemia, to nemesan è usato per indicare il mezzo virtuoso tra due estremi: l’eccesso è phthonos, mentre il difetto, secondo Aristotele, non ha nome nel vocabolario greco. L’invidia consiste nell’essere addolorati di fronte alle fortune altrui quando sono meritate; l’emozione senza nome, caratteristica delle persone che si rallegrano delle sfortune altrui, consiste nel provare piacere quando gli altri subiscono sventure, che lo meritino o meno. Aristotele chiama l’uomo che riesce a cogliere il medio tra questi due estremi, nemesietikos e aggiunge che quello che gli antichi chiamano nemesis consiste nel soffrire di fronte al successo o all’insuccesso altrui se contrari al merito, e nel gioire di queste stesse cose se meritate. Questo è il motivo per cui le persone pensano che

Nemesis sia una divinità166. Così come viene definita nell’EE, nemesis è un’emozione curiosa che sembra coinvolgere piacere e dolore in risposta alle diverse circostanze: precisamente, essa provoca piacere quando sono meritate e dolore quando invece non lo sono. Sappiamo invece che, secondo la definizione presente nella Retorica167, ogni pathos può essere descritto in base allo specifico tipo di piacere o di dolore che lo accompagna. Non possono esistere emozioni che provocano al soggetto, a seconda delle circostanze, entrambe le reazioni. Una certa logica comunque esiste: dolore verso la cattiva fortuna quando non è meritata (pietà); dolore verso la buona fortuna quando meritata (indignazione); piacere verso le fortune meritate e piacere verso le sfortune altrui quando meritate. Queste sono le stesse quattro emozioni che Aristotele tratta insieme nella Retorica, dove tutte sono considerate appartenenti allo stesso tipo di carattere buono.

Una teoria completa e chiara della sfera dell’indignazione è qui ancora in evidente elaborazione. Tuttavia, in questo testo, Aristotele mette in luce un aspetto molto importante che non viene invece ripreso nell’EN. Dopo aver trattato di tutte le medietà riguardanti le passioni egli precisa che queste disposizioni, sebbene siano dette buone, non possono essere dette virtù in senso stretto poiché non implicano una scelta (prohairesis) vera e propria. Allo stesso modo gli eccessi, sebbene biasimati, non sono detti vizi. Ad esempio, il pudore (aidos)

166 Cfr. EE 1221b 38 e ss. 167 Cfr. p. 37.

è il tipico caso di una buona disposizione che non è una virtù. Tutte queste disposizioni riguardano e sono più vicine ai pathe, che sono naturali ed hanno la facoltà di trasformarsi in virtù o vizi naturali168.

L’invidia, così, contribuisce all’ingiustizia, poiché le azioni che ne discendono si riferiscono a un’altra persona; e lo sdegno alla giustizia, il pudore alla temperanza – e questa è anche la ragione per cui alcuni definiscono la temperanza entro questo genere169.

Una naturale disposizione invidiosa può dunque contribuire a sviluppare un carattere predisposto all’ingiustizia, mentre la naturale disposizione allo sdegno, contribuisce alla giustizia come carattere permanente. Questo aspetto dell’invidia non compare nell’EN e, anzi, la triade invidia-sdegno-malevolenza è l’unica a non essere oggetto di una descrizione approfondita. Subito dopo il paragrafo dedicato al pudore, Aristotele passa infatti a parlare della virtù della giustizia, mentre il legame sdegno-giustizia, invidia-ingiustizia viene ignorato.

La presentazione della sfera dell’indignazione è in realtà una fonte di perplessità per molti studiosi ed interpreti della dottrina del giusto mezzo. J. O. Urmson è tra coloro che sostengono che la triade rappresenti una fonte di difficoltà per Aristotele:

If we consider envy to be regret at neighbors’good fortune and spitefulness to be rejoicing in their bad fortune, neither seems to be particularly in excess or deficient with regard to any common feeling or emotion170.

L’incapacità di poter definire i due estremi della triade come eccesso o difetto della medietà è in chiaro contrasto con le altre virtù analizzate: la medietà esprime la disposizione adeguata verso un’emozione e gli estremi sono rappresentati come l’eccesso e il difetto vizioso. In particolare non c’è nessuna spiegazione plausibile per ritenere la malevolenza un difetto: seguendo le altre triadi ci aspetteremmo che il difetto coincidesse con l’incapacità di sdegnarsi anche quando le circostanze lo richiederebbero. A questo proposito, M. J. Mills

168 La differenza tra le virtù naturali (o vizi) e le virtù (o vizi) propriamente dette è esposta da Aristotele nell’EN

VI, 13, 1144b 1 e ss. Le virtù naturali e i vizi sono disposizioni innate del carattere che possono anche caratterizzare soggetti come gli animali e i bambini, i quali non possono essere considerati come soggetti morali in virtù della loro incapacità di effettuare scelte consapevoli.

169 EE 1234a 29-32.

170 J.O. Urmson, Aristotle’s Doctrine Of The Mean, in A. O. Rorty Essay on Aristotle’s Ethics, University of

nel saggio “Phthonos and its related pathê in Plato and Aristotle” mostra come la triade invidia-sdegno-malevolenza sia l’unica all’interno delle Etiche in cui sono presenti due eccessi. Per risolvere il presunto errore, egli suggerisce di separare le emozioni e le relative disposizioni in due triadi: l’una riguardante il dolore verso le sventure altrui e l’altra riguardante il piacere che si prova di fronte alle sventure degli altri. Secondo lo schema, il mezzo virtuoso di entrambe le triadi corrisponderebbe alla capacità di valutare il merito e di provare piacere o sofferenza nelle situazioni adeguate. Gli eccessi nelle triadi sono identificati rispettivamente con invidia e malevolenza, mentre i due difetti corrispondono all’apatia.

Nonostante alcune imprecisioni ed incertezze, l’immagine che Aristotele ci offre della sfera dell’indignazione nelle due opere etiche prese in considerazione è coerente e ci permette di isolare alcuni aspetti:

- l’invidia è un’emozione cattiva in sé.

- Le persone caratterialmente predisposte a provare invidia, quando valutano ciò che accade al prossimo non tengono in considerazione il merito o, meglio, ne hanno una concezione sbagliata.

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