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L'invidia nell'interpretazione aristotelica e nelle teorie contemporanee

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laura Magistrale in Filosofia e Forme del Sapere

L’INVIDIA NELL’INTERPRETAZIONE

ARISTOTELICA E NELLE TEORIE

CONTEMPORANEE

Relatore

Candidato

Prof.ssa Alessandra Fussi

Elena Benassi

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Sommario

INTRODUZIONE ... 3 1. ARISTOTELE E LE EMOZIONI ... 6 1.1 Le emozioni nel De anima e l’origine del movimento ... 8 1.2 Ta pathe nell’Etica Nicomachea ... 13 1.3 Le emozioni nella Retorica ... 32 2. L’INVIDIA ... 47 2.1 Un’emozione dolorosa ... 47 2.1.1 I beni invidiati ... 49

2.1.2 Chi è invidiato e chi invidia ... 50

2.1.3 L’invidia ama nascondersi ... 54

2.1.4 Il rapporto con le altre emozioni. ... 56

2.1.5 Invidia e gelosia ... 59

2.1.7 L’invidiato ... 61

2.1.8 L’intensità. ... 63

2.1.9 Le conseguenze dell’invidia per chi la prova ... 64

2.2. Aristotele e l’invidia ... 66

2.2.1 L’invidia nelle Etiche ... 69

2.2.2 L’Invidia nella Retorica ... 73

3. INVIDIA E SOCIETÀ ... 84

3.1 Le emozioni e la politica ... 84

3.1.1 L’invidia e l’ordine sociale ... 85

3.1.2 Politics of envy ... 88

3.1.3 Invidia e disuguaglianze ... 92

3.1.4 Invidia come forza rivoluzionaria ... 97

3.1.5 Invidia e progresso ... 99

3.1.6 Società immune all’invidia ... 101

3.2 Aristotele osservatore del suo tempo ... 102

3.2.1 La Politica ... 105

3.2.2 L’invidia e l’origine delle staseis ... 108

CONCLUSIONI ... 124

BIBLIOGRAFIA ... 131

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INTRODUZIONE

Siano esse piacevoli o spiacevoli, viviamo di emozioni per quasi il 90% della nostra vita: le emozioni colorano i nostri pensieri, scandiscono il nostro tempo ed influenzano le nostre decisioni. Esse pongono in evidenza i nostri scopi e attribuiscono dinamismo alle nostre esperienze quotidiane. Tutti i rapporti interpersonali, che si tratti di legami familiari, sociali o lavorativi, si nutrono di emozioni. Senza emotività non conosceremmo la ragione dello “stare insieme”. Nonostante l’apparente familiarità che abbiamo con esse, però, le emozioni sono una realtà estremamente complessa e in gran parte ancora inesplorata. La loro complessità dipende dal fatto che presentano, contemporaneamente, una serie di caratteristiche: hanno profonde radici neurobiologiche nell’organismo; sono esperienze soggettive dotate di importanti significati in connessione con gli interessi e scopi del soggetto; hanno una valenza sociale e vengono definite dalla cultura di appartenenza. Altre difficoltà sorgono in merito al fatto che spesso non riusciamo nemmeno a dare un nome a quello che proviamo, non capiamo le emozioni di chi ci sta di fronte e, a volte, non vogliamo che siano gli altri a comprendere le nostre.

Nel vasto panorama delle emozioni, il mio interesse per l’invidia nasce in relazione dalla sua singolarità: essa è universalmente diffusa ed è legata agli aspetti più intimi della nostra personalità ma, allo stesso tempo, è l’unica tra le emozioni che non ammettiamo di provare né agli altri né a noi stessi. Di conseguenza, proprio a causa di questo suo “nascondersi”, l’invidia è una tra le emozioni più complesse e più difficili da studiare. Essa, inoltre, dispiega la sua forza paralizzante e dolorosa tanto a livello individuale che sociale. L’obiettivo della mia tesi è dunque quello di esplorare la natura di questo fenomeno emotivo così intenso che è, allo stesso tempo, pervasivo di ogni aspetto della vita umana e condannato da ogni società e cultura.

Autore di riferimento del mio studio sull’invidia, è Aristotele. Nella storia del pensiero greco, la ricerca sulle dinamiche passionali è una presenza costante che è stata continuamente ripresa e modificata nel corso delle varie epoche. Tuttavia, il primo pensatore a dare un’analisi sistematica delle emozioni è stato proprio Aristotele. La scelta di adottare un metodo di indagine rigoroso basato sul modello scientifico, l’acume e, soprattutto, la semplicità e la chiarezza con cui il filosofo si approccia ad un tema così complesso, rendono la teoria aristotelica sulle emozioni ancora attuale e ricca di spunti di riflessione. In

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particolare, alcune sue intuizioni riguardo alla natura e all’espressione dell’invidia ci permettono di comprendere questa emozione nella sua totalità e, soprattutto, di capirne la portata all’interno dei rapporti politico-sociali.

Punto di partenza di questa tesi saranno dunque i testi aristotelici in cui viene preso in considerazione il tema delle emozioni. Il filosofo non dedica un’opera specifica all’argomento, ma la sua analisi si frammenta in una molteplicità di scritti nei quali le caratteristiche dei pathe (emozioni) vengono trattate a seconda dei temi e delle necessità dell’autore. Una volta unite, tutte le informazioni dipingeranno quella che può essere considerata a tutti gli effetti la teoria aristotelica sulle emozioni. Attraverso lo studio del De

Anima, illustrerò come Aristotele attribuisca a queste affezioni un carattere sia psichico che

fisico. Inoltre, evidenzierò il loro rapporto con alcune facoltà dell’anima, quali la percezione e l’immaginazione ed, infine, spiegherò il motivo per cui i singoli individui rispondono alle diverse circostanze con reazioni emotive differenti. Passerò quindi all’Etica Nicomachea, primo trattato sistematico di etica della storia della filosofia. L’obiettivo di questo testo, che ha come oggetto l’agire umano, è quello di dare al lettore tutti gli strumenti funzionali alla realizzazione della “buona vita” (eu zen). Destinatario del trattato è dunque l’uomo, il cittadino greco, il quale organizza la sua vita all’interno della polis. In questo quadro le emozioni, componenti ineludibili della natura umana e, quindi, non passibili di censura totale, sono viste come quegli elementi devianti che corrodono i rapporti all’interno della comunità. Mostrerò dunque il modo in cui, secondo Aristotele, l’energia passionale può venire incanalata per esercitare un comportamento corretto. Infine, mi dedicherò alla

Retorica, opera in cui troviamo la trattazione più dettagliata della serie di fenomeni che oggi

chiamiamo emozioni. Oggetto specifico del testo è la techne retorike, ossia la tecnica retorica intesa come facoltà di trovare il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun oggetto e in riferimento a qualsiasi soggetto. Le emozioni, dunque, vengono qui analizzate come uno dei mezzi di cui si avvale l’oratore per persuadere il suo pubblico. È in questo testo che Aristotele illustra la caratteristica più importante dei pathe, ossia il loro valore cognitivo. Spiegherò dunque come esse rappresentino per l’uomo delle modalità di accesso al reale e, integrando la conoscenza intellettiva, influenzino la formazione di opinioni e giudizi.

Illustrati i concetti principali per una lettura adeguata, ci dedicheremo alla trattazione dell’invidia come singolo fenomeno.

L’obiettivo del capitolo 2 sarà quello di esplorare la natura dell’invidia e la sua fenomenologia e anche quello di mostrare le ragioni di tale stigmatizzazione culturale. Grazie all’aiuto degli studi recenti e di contribuiti provenienti da diversi ambiti disciplinari

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(filosofia, neuroscienze, sociologia e antropologia) tenterò in principio di fare luce su diversi aspetti che interessano questa emozione. Ad esempio, quali sono le condizioni necessarie affinché sorga, verso chi e rispetto a quali beni si provi; il rapporto che intrattiene con gli altri fenomeni emotivi; le conseguenze che derivano dall’esserne bersaglio e a quale tipo di atteggiamenti viene indotto il soggetto che la prova. Nella parte finale del capitolo ritorneremo ad Aristotele e alla sua posizione nei riguardi di questa emozione. Noteremo dunque come la sua analisi, a distanza di secoli e nonostante la scarsa disponibilità di strumenti d’indagine e testi di supporto, abbia molti elementi in comune e non debba recriminare nulla in termini di esaustività e precisione alle teorie moderne. Ad ogni modo, capiremo come anche per il filosofo promotore della naturalità e della necessità delle emozioni, l’invidia sia da considerare come dannosa e malevola per l’uomo.

Per concludere, il terzo e ultimo capitolo sarà dedicato all’invidia intesa come fattore politico, in quanto causa di instabilità dell’equilibrio sociale e della frattura dei rapporti che intercorrono tra le diverse parti in cui la società è suddivisa. Le società di qualsiasi epoca e di qualsiasi conformazione politica risultano, per loro stessa natura, un terreno fertile per questa emozione. Ampio spazio sarà dato all’analisi della relazione che intercorre tra invidia, disuguaglianze sociali e giustizia. Nel secondo paragrafo del capitolo mi concentrerò invece su una tendenza singolare esplosa negli anni recenti e che sta interessando lo scontro politico tra destra e sinistra: mi riferisco all’uso, per mano dei partiti conservatori, dell’etichetta “politics of envy” come accusa verso le politiche liberali progressiste. L’intento è quello di fare leva su un’emozione ripudiata in modo unanime dalla società, al fine di bloccare il programma delle riforme e mantenere lo status quo. Sarà indagata, così, la forza inibente dell’invidia sul progresso sociale e politico. Mi interrogherò inoltre, quali soluzioni la società può adottare per respingerla e quanto esse siano efficaci. Infine, tornerò ad Aristotele, per vedere quale posto occupino le emozioni nella Politica e, in particolare, per comprendere il motivo per cui l’invidia rappresenta un grande pericolo per la stabilità della polis. L’invidia, infatti, viene individuata da Aristotele tra le cause principali che contribuiscono allo scatenarsi delle rivolte e dei conflitti politici, rovina e morte della polis.

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1. ARISTOTELE E LE EMOZIONI

La prima risposta alla domanda “che cos’è un’emozione?” risale alla civiltà greca antica. Nella storia del pensiero greco l’indagine sulle dinamiche passionali è una presenza costante, che è stata continuamente ripresa e modificata nel corso delle varie epoche. Quelle che noi chiamiamo “emozioni”, nella Grecia classica venivano indicate con il termine ta

pathe (pathos al singolare), sostantivo derivante dal verbo paschein – soffrire, subire, essere

passivo, essere sottoposto a una sofferenza1. Il significato antico stava ad indicare qualcosa di doloroso o sofferto che si subisce e che solo in seguito verrà a rappresentare ciò di cui si ha esperienza, ossia un modo di agire del soggetto in base a un certa cosa.

Descritte nella poesia, messe in scena dalla tragedia e sfruttate nella retorica per raggiungere il consenso politico, le emozioni sono al centro dei discorsi della città. A questa pluralità di prospettive, la filosofia cerca di rispondere a quelle domande a cui la rappresentazione e le tecniche del discorso non danno risposta: qual è la loro origine? In che modo e perché condizionano l’agire umano? È un orizzonte di riferimento, questo, segnato al proprio interno da profondi contrasti: da un lato troviamo la censura delle passioni in quanto segno patologico e malattia dell’anima contratta dal legame con il corpo2; dall’altro il riconoscimento dell’esistenza e, al contempo, l’esigenza di controllo sono i due principali poli teorici intorno a cui si riuniscono le risposte provenienti dalle diverse correnti di pensero.

Platone, in questo quadro, occupa una posizione a se stante, perché ha avuto il merito di aver saldamente collocato l’anima al centro della riflessione filosofica. Inizialmente Platone opta per la rimozione e l’annullamento dei pathe, scelta dettata dall’adesione alle posizioni orfico-pitagoriche3. A questa posizione egli sostituisce nel corso degli anni un atteggiamento più duttile, grazie al quale la carica passionale risulta passibile di contenimento e addirittura di una canalizzazione positiva4.

1F. Montanari, “GI. Vocabolario della lingua greca”, II ed., 2004.

2 Il primo valore della nozione pathossembra rinviare proprio al linguaggio medico: qui è usato come sinonimo

di nosos per indicare la malattia,ovvero la modificazione patologica a cui il corpo va incontro e che provoca sofferenza.

3 L’identificazione del pathos con la malattia che affligge il corpo e lo corrompe, motiva i pitagorici

all’elaborazione di pratiche destinate alla sua totale espulsione e a restituire alla psyche lo stato di salute. L’armonia corporea, è ripristinata attraverso un incantesimo che si avvale del duplice potere della parola e della musica. Cfr su questo Lain Entralgo, The Therapy of the Word in Classical Antiquity, New Haven London, 1970, pp. 78 e ss.

4 Diversi sono gli scritti in cui Platone affronta il problema dell’anima e dello scontro tra le sue componenti

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Il primo pensatore che diede un’analisi sistematica dei pathe fu Aristotele: egli si distinse per il suo approccio scientifico razionale e rappresentò, dunque, una spaccatura rispetto alla tradizione.

Con lui il termine pathos, così come viene definito nella Metafisica “qualità secondo la quale è possibile l’alterazione” (1022b 15-16), si presenta come categoria concettuale ampia. Attraverso esso diventa possibile leggere ed interpretare sia i molteplici fenomeni del mondo del divenire sia le qualità sempre mutevoli delle sostanze in movimento, in quanto indissolubilmente connesse all’hyle, la materia. La varietà dei significati collegati al termine

pathos porta Aristotele ad intraprendere uno studio policentrico che si frammenta in una

serie di scritti, nei quali le specifiche caratteristiche dei pathe sono trattate a seconda dei temi e delle necessità dell’autore. La biologia, per esempio, ha come oggetto di studio le passioni degli animali, cioè le modificazioni a cui vanno incontro a seconda dell’età e delle stagioni5, mentre la meteorologia analizza e discute i pathe della natura, come tuono, siccità e uragano6.

È nell’ambito umano, inoltre, che le emozioni trovano il loro naturale terreno di analisi: ecco che, in quanto fenomeno psichico, esse ricadono entro i confini della ricerca psicologica; in quanto dinamica emotiva governabile dal discorso persuasivo, le emozioni divengono oggetto d’indagine per lo studioso di retorica; infine, poiché interferiscono con l’agire morale, esse sono problematizzate nell’analisi etica e politica7.

Uno dei presupposti dell’analisi che seguirà, è che a tal fine si possono utilizzare molte delle opere di Aristotele, quali De Anima, Parva Naturalia, De Motu Animalium, Etica

Nicomachea, Politica, Retorica e Poetica: ognuna di queste opere ha il proprio impianto e

nel quadro della teoria platonica sono affiancate da una terza forza psichica intesa come animosità, thymos, sono: l’immagine della biga alata nel Fedro (246a-b) e il mito dei metalli nella Repubblica (III, 415a-415c e 439a-442b). La contrapposizione tra epithymetikos – logismos trova spazio anche nel Timeo durante l’esposizione del mito del Demiurgo: l’anima mortale, plasmata dalle divinità inferiori con il suo corredo di “temibili e ineluttabili passioni” (69c-d), è chiamata a sottostare al dominio del “principio immortale” forgiato invece dal Demiurgo (39a-41d). Soltanto nelle Leggi (644a1 e ss.), Platone sembra intravedere per le passioni un ruolo diverso nel quadro dell’esistenza umana. Sebbene in questo scritto la lotta tra la parte irrazionale e quella razionale risulti più aspra, data la scomparsa della funzione mediatrice del thymos, le spinte passionali possono essere utilizzate positivamente, purché siano adeguatamente governate e canalizzate.

5 Cfr. ad es. Hist. An. VIII 17, 600b 29, dove è indicato come pathos il periodico distacco della pelle che si

riscontra nei serpenti; De gen. an. V 3, 783b 10, dove lo stesso termine designa i fenomeni, tra loro analoghi, della calvizie nell’uomo, della defoliazione nelle piante e della perdita delle piume e dei peli negli animali; De

ge. an. V, 785a 21 e ss, in cui è pathos il processo che conduce le piume della gru a scurirsi nel corso del tempo.

6 Cfr. Meteor. II 9, 369 a 31 per il tuono; II 7, 365 a 15 per il terremoto, tutti eventi che Aristotele raggruppa

sotto il denominatore comune di symbainonte pathe del cosmo, oggetti specifici dunque della meteorologia.

7 Silvia Gastaldi, Aristotele e la politica delle passioni. Retorica, psicologia ed etica dei comportamenti

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requisiti differenti, per costruire una visione unitaria e coerente, quasi una vera teoria delle emozioni8.

In particolare nella sfera che riguarda l’uomo, le emozioni sono l’elemento fondamentale che congiunge teoria dell’azione, etica, politica e, dunque, unisce il piano individuale e quello sociale.

1.1 Le emozioni nel De anima e l’origine del movimento

Per giungere ad una chiara comprensione della teoria delle emozioni è necessario prima di tutto gettare uno sguardo alla psicologia umana e all’anima, tema di cui Aristotele si occupa nel trattato omonimo.

L’obiettivo principale del De Anima è esplicitato come di consueto nelle prime righe dello scritto:

noi ci prefiggiamo di considerare e conoscere la sua natura ed essenza (dell’anima), e successivamente tutte le sue caratteristiche che le competono9.

“Principio di tutti gli animali” e dunque non esclusiva degli esseri umani, la conoscenza dell’anima deve passare per la definizione della sua natura (physis) ed essenza (ousia) così come per le sue caratteristiche (pathos). L’analisi della psyche, e la dimostrazione della sua natura non è naturalmente cosa facile e necessita del superamento di alcune aporie, tra le quali si colloca anche la determinazione dello statuto dei pathe. Come vediamo, in questo passo i pathe vengono innanzitutto indicati come affezioni e questo ci fa

8La maggior parte dei commentatori esprime molte esitazioni riguardo alla possibilità di ricostruire una vera

e propria teoria delle emozioni nella filosofia aristotelica. John M. Cooper in Reason and Emotion: Essays On

Ancient Moral Psychology and Ethical Theory, (Princeton: Princeton University Press. 1999, p. 406), dice che

“Aristotle provides no general, analytical account of the emotions anywhere in any of the ethical writings. And we are in for disappointment if we look for this in his supposedly scientific account of psychological matters in the De Anima”. Silvia Gastaldi a sua volta, nel testo Aristotele e la politica delle passioni. op.cit. sottolinea come le passioni non costituiscano nel Corpus l’oggetto di una trattazione sistematica e di un discorso unitario. Prova ne sono i diversi significati che la parola pathos assume: affezione dell’anima, accadimento, malattia, qualità, caratteristica, sentimento, attributo, emozione. Il fatto che pathos si arricchisca di sfumature diverse a seconda delle esigenze teoriche non deve essere preso, però, come una dimostrazione di inconsistenza e opacità in fatto di terminologia. Aristotele è un filosofo sistematico e attraverso i suoi scritti disegna un quadro in cui i molteplici significati sono tra loro logicamente interconnessi. È a W.W. Fortenbaught che si deve la rivalutazione in questa chiave del Corpus: nello scritto Aristotle on Emotion, A Contribution to Philosophical

Psychology, Rhetoric, Poethics, Politics and Ethics, (Duckworth, London, 1975), mostra come ci sia un solido

filo conduttore capace di connettere tutti gli ambiti di problematizzazione dei pathe: il carattere cognitivo. Le emozioni sarebbero in grado, infatti, di dare luogo a opinioni e a giudizi aperti alla razionalità e perciò non sono bisognose di un controllo da parte del logismos, come era previsto da Platone.

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subito intendere come il senso che assumono nel testo sia molto ampio e vada ben oltre il senso ristretto di “passioni”. Ci interroghiamo prima di tutto se:

[le passioni] sono tutte comuni al soggetto che le possiede oppure se ce n’è qualcuna che sia propria della stessa anima. Per ciò che riguarda la maggior parte di queste affezioni, risulta (phainetai) che l’anima non subisce nulla separatamente dal corpo, com’è il caso della collera, del coraggio, del desiderio, e in generale della sensazione mentre il pensiero10 assomiglia molto ad

un’affezione propria dell’anima11.

Se Platone aveva diviso l’anima in parti distinte, tra le quali era sempre possibile che si scatenasse una feroce lotta per la supremazia intrapsichica, nella prospettiva psicologica aristotelica l’anima costituisce un intero inseparabile dal corpo. Essa si configura come principio vivificatore12 del corpo che si specifica differenziandosi a seconda del vivente a cui appartiene, nel prevalere di una determinata facoltà (dynameis) propria di essa13. L’inseparabilità dell’anima dal corpo induce Aristotele ad evidenziare la prima caratteristica riscontrabile dei pathe, ossia la loro dimensione tanto psichica quanto fisica. Il carattere psicofisico di queste affezioni è un criterio di evidenza che viene espresso nel testo da Aristotele con il phainetai iniziale, un’evidenza che si fonda sull’esperienza e sui dati ricavati dall’osservazione.

Fino a questo punto della trattazione Aristotele ha argomentato sulla comunanza delle affezioni tra anima e corpo a partire dall’anima stessa, la quale “sembra non agisca e non patisca nulla senza il corpo”14. L’argomentazione prende poi come punto di partenza il corpo, ed è articolata attraverso vari esempi secondo il metodo deduttivo. Alla manifestazione dei pathe, il corpo subisce una modificazione e ciò è comprovato dal diverso grado di insorgenza con cui essi si presentano nei diversi individui. Inoltre, secondariamente, non solo un individuo è diverso da un altro nel reagire ad un medesimo stimolo, ma lo stesso individuo reagisce in modo differente a seconda delle situazioni. Questa differenza, non

10

La trattazione dei pathe implica anche il problema rappresentato dal pensiero (nous). L’approccio naturalistico-empirista che domina il trattato, e che afferma la stretta unità tra anima e corpo, si scontra con un secondo approccio, quello divino-antiempirista, secondo il quale Aristotele deve necessariamente staccare il

nous dal corpo. Per una trattazione completa dell’aporia si veda Lucia Palpacelli, Le passioni nel De anima, un esito estremo del pollachos, Educação e Filosoa. Uberlândia, v. 27, n. 54, pp. 675-698, jul./dez.

11 De An., I, 403a 3-8.

12 Pia Campeggiani, Le ragioni dell'ira: potere e riconoscimento nell'antica Grecia, Carocci Editore, Roma,

2013, p. 89.

13 Tre sono le dynameis dell’anima umana e ciascuna di esse è assorbita nella forma che le è superiore. Esse

sono nell’ordine: facoltà vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’anima è dunque unitaria e non distinguibile in parti diverse localizzate in sedi corporee differenti. La psyche dei viventi risulta definita dalla propria dynamis e dalle funzioni che sarà in grado di svolgere.

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potendo essere spiegata attraverso lo stimolo che, per ipotesi, è uguale, rinvia necessariamente alla disposizione del corpo e allo stato dell’anima ad esso conseguente.

Sembra che anche le affezioni dell’anima abbiano un legame con il corpo: l’ira, la tenerezza e la paura, la pietà, il coraggio e inoltre la gioia, l’amore e l’odio. Infatti non appena esse si producono, il corpo subisce una modificazione. Lo comprova il fatto che talvolta, pur presentandosi stimoli forti e manifesti non ci si irrita né si prova paura; mentre in altre circostanze siamo mossi da stimoli piccoli ed appena percettibili, qualora il corpo sia agitato e si trovi nella stessa condizione di quando si è in collera15.

Innegabile è qui la predilezione di Aristotele verso le emozioni canoniche, come ira e timore, così da poter far riferimento ad un terreno noto e comprensibile per la maggior parte dei lettori. A questo punto del discorso Aristotele è finalmente in grado di dare una definizione chiara delle emozioni come “forme contenute nella materia”16. Si tratta, come si vede, di una definizione generale della nozione di pathos, conforme, d’altronde, all’intento della trattazione del De anima di mantenersi su un piano generale, in modo da fornire una definizione dell’anima applicabile a tutte le specie viventi. L’importanza dell’analizzare congiuntamente materia e forma attraverso un approccio globale è sottolineata dall’esempio dell’ira con i suoi ben noti correlati somatici del rossore e dell’eccitazione. Due sono le definizioni possibili di ira:

Il fisico e il dialettico definirebbero però ciascuna di queste affezioni in modo diverso. Ad esempio: che cos’è la collera? Mentre il dialettico la definirebbe desiderio di molestare a propria volta (o qualcosa di simile), il fisico la definirà ebollizione del sangue e del calore intorno al cuore17.

La volontà di introdurre due figure, ognuna incaricata di fornire una specifica informazione sulle diverse passioni, serve qui ad Aristotele ad anticipare l’approccio metodologico che userà nella Retorica e, contemporaneamente, a sottolineare l’insufficienza e la parzialità delle due angolazioni prese separatamente. La figura incaricata di unire le due forme di sapere è naturalmente il filosofo, l’unico in grado di giungere ad una definizione omnicomprensiva e completa.

Un’altra occorrenza dei pathe nel De anima si ritrova nel contesto della critica alle dottrine dei predecessori, in particolare a quelle che attribuiscono il movimento all’anima18.

15 De An., I, 403a 15-22.

16 Ivi., I, 403a 23.

17 Ivi., I, 403a 30 b1.

18 Bersaglio delle critiche sono dapprima chi considera l’anima principalmente come motore, come i Pitagorici,

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Abbiamo dimostrato sopra che i pathe sono stati psicofisici e al loro insorgere il corpo si muove, ovvero subisce qualcosa (paschein). Di conseguenza si deve pensare che anche l’anima si muove, quando prova ira, dolore, gioia, coraggio o paura o quando pensa e percepisce? È questo il problema che preoccupa Aristotele, perché se nel provare passioni o nello svolgere attività come il percepire e il pensare l’anima fosse soggetta a movimenti quali quelli del corpo, anche l’anima stessa sarebbe un corpo e ciò andrebbe contro la definizione di psyche che Aristotele prevede di dare19. Si deve, infatti, riconoscere che a tutti i tipi di pathe sono sottesi movimenti degli organi corporei o per traslazione o per alterazione. Per quel che riguarda ira e timore, presumibilmente egli ha in mente movimenti del cuore quali la palpitazione, che potrebbe essere considerata un movimento locale, e il mutamento di qualità derivante dall’ebollizione del sangue nella regione cardiaca che si accompagna all’ira. Per quel che riguarda il pensiero, potrebbe trattarsi dei moti immaginativi che interessano il cuore come organo primario della percezione, come conseguenza delle percezioni dei singoli organi di senso che si riconducono al cuore. In ogni caso, secondo Aristotele ciò non vuol dire che l’anima stessa sia soggetta come il corpo e i suoi organi a questi mutamenti: “Non è necessario pensarlo” - egli scrive - “meglio forse dire non che l’anima prova compassione o apprende o pensa, ma l’uomo tramite l’anima”20. Di per sé l’anima non palpita, ribolle, immagina, percepisce o pensa ma è l’uomo il vero soggetto del movimento, in quanto essere animato e per natura dotato di anima e corpo.

Lo sviluppo successivo del trattato non concede altro spazio alla tematizzazione in senso stretto dei pathe. Dopo aver dimostrato come tutte le affezioni dell’anima, eccetto il

nous , abbiano una natura psicosomatica, Aristotele rinuncia ad altri approfondimenti sui

meccanismi eziologici ad essi sottesi. Seguendo la linea tracciata da Silvia Gastaldi nel testo “Aristotele e la politica delle passioni” possiamo comunque estrapolare dal trattato elementi che vanno ad integrare, se così si possono chiamare, le lacune presenti.

Ci chiediamo prima di tutto a quali facoltà, tra le tre note, afferiscono le emozioni ed in che modo. Una chiave interpretativa è fornita da Aristotele stesso in un passo già preso in considerazione: adirarsi ed avere coraggio sembrano condividere con la categoria più ampia del desiderio la connessione con la funzione cardine della psyche preposta alla registrazione

(404b8-27), soprattutto Empedocle e il Timeo di Platone, infine viene trattato il rapporto tra anima, elementi e principi (404b28-405 a10).

19 Si vedano in dettaglio le due definizioni di anima che Aristotele propone nel libro B: “l’atto primo di un

corpo naturale dotato di organi” (412 a27-28) e “l’anima è una certa attività ed essenza di quell’ente che in potenza è tale”. Qualsiasi definizione si prenda come riferimento è chiaro che l’anima non può identificarsi con il corpo ma sia piuttosto la “forma” di esso.

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degli stimoli esterni21. La percezione, aisthesis, è definita, infatti, come la facoltà che consiste “nell’essere mossi e nel subire un’azione”22, un pathos dunque nella misura in cui in seguito all’azione di qualcosa di esterno (l’oggetto percepito), si subisce un’affezione. L’effetto di questo meccanismo è un mutamento che non va inteso, però, in senso qualitativo: in esso, infatti, il soggetto non perde la propria identità ma muta solamente le sue disposizioni affettive. L’organo sensorio riceve passivamente la forma (non la materia) dell’oggetto esterno, e viene alterato e modificato dall’oggetto23. A questa prima passività nella ricezione degli stimoli segue un processo attivo, mediante il quale il soggetto discrimina in rapporto a ciascuno di essi il carattere doloroso o piacevole. Questi stimoli, aggiunge Aristotele, possono essere percepiti nell’immediato, o ricordati attraverso un’altra funzione dell’anima: l’immaginazione. L’immaginazione o phantasia è la dynamis che permette all’uomo di rappresentarsi gli oggetti anche quando essi sono assenti ed è, di conseguenza, quella che offre il materiale cognitivo per l’intelletto. Essa dipende dalla volontà del soggetto, gode di un certo margine di arbitrio ed è diversa dall’opinione (doxa), la quale è una specie di apprensione intellettiva che risulta necessariamente vera o falsa. Ciò che porta Aristotele a distinguere tra immaginazione e opinione è, in secondo luogo, la constatazione del fatto che essere dell’opinione di trovarsi in una situazione piacevole o spiacevole provoca un’emozione, mentre ciò non avviene se tale situazione è soltanto immaginata24. La phantasia infine non è riconducibile alla mera sensazione in quanto quest’ultima, sempre in contatto con l’oggetto, è sempre vera mentre l’immaginazione può essere sia vera che falsa.

Le emozioni in senso stretto sembrano, dunque, condividere con la percezione una modificazione psico-fisica e, data la stretta correlazione tra percepire un oggetto e sentirlo come piacevole o doloroso o pauroso e così via, esse possono produrre effetti visibili congiunti.

Un’ultima caratteristica delle emozioni, qui appena accennata, può essere dedotta dalla lettura dell’ultima parte del testo: essa riguarda il loro coinvolgimento in ciò che porta l’uomo ad agire. Aristotele tratta del movimento degli esseri viventi nel libro III, dove lo

21 Cfr. De An., I, 403a 3-8. 22 De An, II, 416b 34.

23 La metafora che il filosofo usa per spiegare tale processo è quella del sigillo che stampa qualcosa sulla cera

molle: quest’ultima riceve la forma del sigillo, non la sua materia (sia essa oro o ferro). Cfr De anim. I 424a 17-21.

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descrive come “sempre in vista di qualcosa ed accompagnato dall’immaginazione e dalla tendenza, orexis”25.

L’orexis, funzione di tipo tensionale, è presente nell’anima sensitiva nella misura in cui la percezione del dolore e del piacere produce desiderio26. Non è la facoltà vegetativa ciò che muove, perché, se così fosse, anche le piante sarebbero in grado di muoversi27. Non è nemmeno la facoltà razionale: capita, infatti, che, nonostante l’intelletto ordini e la ragione dica di evitare o perseguire qualcosa, non ci si muova affatto ma si agisca sempre in conformità al desiderio28.

C’è pertanto un unico motore:

ciò che muove sarà specificamente unico, ossia la facoltà appetitiva in quanto tale (e anzitutto l’oggetto della tendenza)29.

In conformità con l’obiettivo e la natura del testo, Aristotele non va oltre nella dimostrazione dell’essenza del desiderio, ma si limita ad accennare che la maggior parte delle emozioni può essere definita in termini di specifici tipi di desiderio e può essere accompagnata da sensazioni di piacere e di dolore. Risulta evidente da queste parole come Aristotele pensi per la sua teoria dell’azione ad un coinvolgimento forte delle emozioni. La funzione attiva che le emozioni hanno nell’attività psichica e soprattutto pratica del soggetto sarà l’argomento della prossima sezione dedicata all’Etica Nicomachea. In particolare cercherò di mostrare quale ruolo giochino le emozioni per Aristotele in ambito etico e quale sia il loro posto all’interno della “vita buona”.

1.2 Ta pathe nell’Etica Nicomachea

L’Etica Nicomachea rappresenta il primo trattato sistematico di etica e, tra i testi filosofici che hanno come oggetto l’agire umano, è stato probabilmente quello più influente nella storia della filosofia.

25 De An. III, 432b15-17. 26 Pia Campeggiani, op cit, p. 92.

27 Per quanto riguarda le piante e il loro movimento di crescita e di decrescita, Aristotele afferma che non si

può parlare di movimento in senso proprio. Cfr. De An. 432b 9-10.

28 Cfr. De An., III 432a 27- 433a 2. 29 De An., III 433b 12.

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Conformemente al suo statuto di scienza pratica30, il cui scopo non è conoscere ma agire, l’etica aristotelica si propone di dare al lettore gli strumenti funzionali alla realizzazione della “buona vita” (eu zen). Destinatario del discorso del trattato è il cittadino greco che, realizzando la propria essenza di animale politico31, organizza la sua vita all’interno della città. In questo quadro le emozioni e i desideri, componenti ineludibili della natura umana e, quindi, non passibili di censura totale, sono visti come gli elementi devianti che corrodono i rapporti all’interno della polis. Di conseguenza, per Aristotele è necessario mostrare e far comprendere due elementi fondamentali: il ruolo che le emozioni hanno nella vita di ciascuno e il modo in cui l’energia passionale può venire incanalata per esercitare un comportamento corretto.

Il primo riferimento ai pathe si trova nel libro II. Fino a qui, Aristotele ha stabilito che l’opera propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione (psyches energeia kata

logon, EN I,1098a7); che il bene umano consiste nel portare ad eccellenza l’opera sua

propria32, quindi che esso coincide con l’attività dell’anima secondo virtù (kat’areten, EN I,1098a16). Infine, che la felicità umana (eudaimonia), poiché sembra essere il fine ultimo e il bene verso il quale l’agire umano è orientato, viene a coincidere con quel medesimo

30 Aristotele divide le scienze in tre gruppi: le prime hanno per oggetto il necessario, le altre due hanno per

oggetto il possibile. Le prime sono dette “scienze teoretiche” e riguardano gli eventi che non possono non avvenire come avvengono: “Infatti, la fisica riguarda realtà separate ma non immobili; alcune delle scienze matematiche riguardano realtà che sono immobili ma non separate, bensì immanenti alla materia; invece la filosofia prima riguarda realtà che sono separate e immobili.” (Metaph. E, 1026a 13-16). Le rimanenti cioè azione e produzione hanno per oggetto ciò che può avvenire in un modo o nell’altro. A loro volta, azione (praxis) e produzione (poiesis) si distinguono per il fatto che l’azione ha il proprio fine in se stessa, mentre la produzione ha il proprio fine fuori di sé, ossia nell’oggetto che essa produce. A questo punto, Aristotele fa coincidere la produzione con la techne, che imita e porta a compimento ciò che la natura da sola non è in grado di fare. La produzione è poi una forma di imitazione mentre la tragedia è in particolare la forma più alta di poesia che, a differenza di quanto sosteneva Platone, non porta all’incremento incontrollato delle passioni, bensì alla purificazione (o catarsi) dell’anima da esse. La poesia allora non va svalutata, anzi essa è superiore alla storia perché possiede un valore conoscitivo più filosofico e non semplicemente nozionistico come la storia.

31 In Politica I 2 Aristotele, dopo aver esposto la genesi della città ed aver affermato che essa è qualcosa di

naturale, introduce la celebre affermazione: “l’uomo è un animale politico (zoon politikon) per natura, e colui che è senza città (apolis) per via della <sua> natura e non per un qualche accidente è un meschino oppure è superiore all’uomo” (Pol. I, 2, 1252b 31-33). Con questa frase Aristotele vuole specificare che solo all’interno della città l’uomo realizza il tipo di vita, praktikòs bios o politikòs bios, che costituisce il fine, il compimento, la perfezione della sua stessa natura.

32 Questo passo è tramandato tra gli studiosi come “argomento della funzione”. Aristotele riprende qui la

nozione platonica di ergon: “Adesso allora io credo che tu possa intendere meglio ciò che chiedevo poco fa: se la funzione propria di ciascuna cosa non fosse ciò che essa compie o da sola o meglio di ogni altra” (Rep, I, 353a 1-3). Alla definizione dell’essenza della felicità Aristotele perviene partendo dalla comprensione di quella che è la funzione propria dell’uomo. Se guardiamo al mondo circostante, dice Aristotele, possiamo constatare che esiste un ergon proprio per ciascun individuo che eserciti una qualche arte (ad esempio è così per il flautista, per lo scultore e per l’artigiano) così come di ogni singola parte costitutiva dell’uomo, si tratti dell’occhio, della mano o del piede (EN I, 6, 1097b 25-35).

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operare: eudaimonia, dunque, è l’attività dell’anima secondo virtù completa (kat’areten

teleian, EN I,1102a5).

Inizia poi il nucleo centrale del testo dedicato all’indagine sulla virtù e sulla sua natura. Le virtù sono di due tipi e si distinguono in base alla parte dell’anima a cui fanno riferimento. Aristotele, infatti, divide l’anima in due parti: una parte razionale e una parte non razionale. La parte non razionale a sua volta è duplice ed è composta da quella che viene chiamata “anima vegetativa”, la quale non ha nessun rapporto con la ragione e una seconda parte che, potenzialmente, è in grado di dare ascolto al logos: essa è la parte impetuosa e in generale desiderante. Si distinguono così le virtù intellettuali, proprie della parte razionale e le virtù morali, anche dette virtù del carattere (ethos), le quali si estrinsecano nell’azione, ossia nell’ambito della prassi. Se le virtù dianoetiche o intellettuali si sviluppano attraverso l’insegnamento, con il tempo e l’esperienza, le virtù etiche si acquisiscono e si perfezionano in noi attraverso l’abitudine e il continuo esercizio. L’uomo, per natura, è potenzialmente capace di formarle e, mediante l’esercizio, traduce questa potenzialità in attualità33. In quanto eccellenze della parte dell’anima che regola il comportamento umano, esse hanno a che fare con piacere e dolore:

è a causa del piacere che la gente compie azioni ignobili ed è a causa del dolore che rifugge dal compiere azioni belle. […] Inoltre se le virtù riguardano le azioni e le passioni, e a ogni azione e a ogni passione conseguono piacere e dolore34, la virtù verrà a riguardare piacere e dolore anche per

questo motivo35.

In questo passo, Aristotele coglie subito l’occasione per polemizzare contro le dottrine dei predecessori, le quali hanno sempre definito le virtù come un certo tipo di immobilità e impassibilità rispetto a qualsiasi spinta passionale, sia positiva che negativa. Per Aristotele, invece, la virtù è produttrice delle azioni migliori proprio grazie al legame che essa ha con ciò che per l’uomo è piacevole o doloroso36. Le azioni virtuose sono dette tali se e solo se chi agisce lo fa trovandosi in determinate condizioni:

33 Giovanni Reale, Introduzione ad Aristotele, Laterza, Roma, 2008, p. 108.

34 Per un’analisi dettagliata del rapporto tra piacere e dolore con le emozioni si veda il paragrafo successivo “I

pathe nella Retorica”.

35 EN II, 1104b 9-16.

36 “Inoltre fin dall’infanzia il piacere si genera e si sviluppa insieme a noi tutti: per questo è difficile disfarci di

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prima di tutto se agisce consapevolmente, poi se ha compiuto una scelta e l’atto virtuoso è stato scelto per sé stesso, in terzo luogo se agisce con una disposizione salda ed immutabile37.

Questo è quanto si può dire riguardo al modo della virtù. Aristotele prosegue la sua analisi concentrandosi sul genere proprio della virtù. Il ragionamento è il seguente: poiché la virtù caratterizza l’attività dell’anima, essa va cercata nelle cose che si generano nell’anima, che sono: passioni (pathe), capacità (dynameis) e stati abituali (hexeis).

Troviamo qui una prima specificazione del termine pathe:

Chiamo passioni (pathe): desiderio (epithymian), ira (orgèn), paura (phobon), ardimento (tharsos), invidia (phthonon), gioia (charan), affetto (philian), odio (misos), brama (pothon), gelosia (zelon), pietà (eleon) e in generale tutto ciò cui fa seguito piacere e dolore; chiamo capacità quelle cose in base alle quali siamo capaci di provare quelle passioni, per esempio ciò in base a cui siamo in grado di adirarci, addolorarci o avere pietà; chiamo stati abituali quelle cose in base alle quali ci atteggiamo bene o male riguardo alle passioni38.

Aristotele, in questo passo, raggruppa sotto il termine pathe molte di quelle che oggi chiamiamo comunemente “emozioni”, ma anche il desiderio (epithymia) e la brama (pothon). Ancora una volta, la scelta degli esempi è dettata dal tipo di ricerca svolto. Il filosofo, infatti, vuole arrivare ad identificare per esclusione la virtù con gli stati abituali e, per questo, seleziona tra i possibili significati di pathe quelli che possono tornargli utili da un punto di vista morale. Comune a tutti è sicuramente il riferimento a piacere e dolore. Emozioni e appetiti, come nota Natali, sono modi di reagire dell’anima quando essa subisce le percezioni esterne. L’aspetto reattivo (piuttosto che attivo) agli stimoli esterni e, quindi, l’elemento di passività che li costituisce è ciò che permette ad Aristotele di contrapporli a virtù e vizi, i quali sono, invece, frutto di una scelta39. Le virtù non sono neanche capacità (dynameis), poiché queste le abbiamo per natura (physei) ed è proprio grazie ad esse che l’uomo è in grado di provare le emozioni.

Se quindi le virtù non sono né passioni né capacità, rimane solo che esse siano stati abituali40.

37 EN II, 1105a 31-34. 38 Ivi, 1105b 2.

39 Cfr. EN, nota 130 p. 464. 40 EN 1106 a 13.

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Le hexeis sono disposizioni a compiere sempre lo stesso tipo di scelta (buona o cattiva) in date circostanze, le quali includono la presenza di pathe: emozioni e appetiti. Prima di lodare una persona come virtuosa o biasimarla in quanto viziosa, abbiamo infatti bisogno di sapere che quella persona si comporterà sempre in un dato modo e che le azioni compiute non accadranno accidentalmente. La relazione tra virtù ed emozioni è dunque oggettuale:

la virtù verrà ad essere ciò che tende (stochastiké) al giusto mezzo. Sto parlando della virtù morale: essa infatti riguarda le passioni (pathe) e le azioni ed è in queste che si danno eccesso, difetto e giusto mezzo; per esempio, di avere paura, adirarsi e in generale del provare sensazioni di piacere e di dolore vi è un troppo e un poco, entrambi i quali non sono bene, ma il provarlo nel momento adatto, riguardo alle cose e in relazione alla gente adatta, per il fine e nel modo adatto, è giusto mezzo e un’ottima cosa, e questo è proprio della virtù. Allo stesso modo, anche in relazione alle azioni vi è eccesso, difetto e giusto mezzo41.

La virtù riguarda in primo luogo le azioni. Abbiamo già visto come l’eccellenza della parte più propria dell’uomo debba necessariamente svolgersi e si potrebbe addirittura affermare che la stessa virtù è azione: è nell’agire, infatti, che ci si mostra agli altri per ciò che si è realmente e che ci si relaziona con loro.

Proprio della virtù morale è, inoltre, avere a che fare con le passioni: il virtuoso è colui che sarà in grado, nelle diverse situazioni, non di soffocare le proprie emozioni ma di esperirle nel momento adatto, verso le cose e le persone adatte, per il fine e soprattutto nel modo adatto e di agire di conseguenza. È questo il vero significato della virtù e del suo coincidere con il giusto mezzo42. Aristotele non ci sta dicendo che è bene provare delle emozioni mediocri nè tanto meno di condurre una vita mediocre lontana dagli stimoli esterni. La medietà virtuosa è l’antitesi della mediocrità: il giusto mezzo è un superamento dei due estremi viziosi, uno per difetto43 e l’altro per eccesso, e, per riprendere le parole di Aristotele, esso è di fatto un “culmine”, ossia il punto più elevato rispetto al bene e alla perfezione. Poiché la virtù è una medietà che riguarda le azioni e le passioni umane, essa non può essere un criterio universalmente applicabile:

41 EN II, 1106b 15-25

42 Come nota Carlo Natali in La Saggezza di Aristotele p. 56, Aristotele concepisce il giusto mezzo non come

un punto, ma come un segmento. Si può avere infatti un comportamento corretto non solo se si coglie esattamente la giusta misura di emozioni tra eccesso e difetto, ma anche se ci si allontana di poco dalla medietà. Figurativamente la virtù potrebbe essere indicata in questo modo:

A_____ B__ C_________ D.

43 Da notare che in generale la totale mancanza di passioni è classificata come l’estremo inferiore rispetto alla

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l’intermedio rispetto a noi è ciò che non eccede né fa difetto, e questo non è uno solo, né è lo stesso per tutti. […] Così, allora, ogni esperto rifugge dall’eccesso e dal difetto, ma cerca il giusto mezzo e lo sceglie, non quello relativo alla cosa ma quello relativo a noi44.

Iniziamo a capire come per Aristotele l’eccellenza del carattere coincida con la capacità di adeguarsi alle circostanze nel modo migliore possibile. L’Etica Nicomachea del resto è rivolta al cittadino, all’uomo concreto e Aristotele comprende bene che è anche attraverso le emozioni che noi interagiamo con gli altri, sia nel bene che nel male. Per adeguarsi alla molteplicità degli eventi, l’uomo deve agire e il suo agire implica compiere il giusto tipo di azioni ma anche esibire il giusto tipo di emozioni. Azioni e passioni sono di fatto i due poli dell’agire umano e non possono essere trattati come due momenti separati dello stesso atto.

Riguardo a questo tema L.A. Kosman afferma:

[…] then Aristotle’s moral theory must be seen as a theory not only of how to act well but also of how to feel well; for the moral virtues are states of character that enable a person to exhibit the right kinds of emotions as well as the right kinds of actions. The art of proper living, we would say, includes the art of feeling well as the correlative discipline to the art of acting well45.

A tal proposito, la trattazione del coraggio, una virtù che si realizza in relazione a due emozioni, è molto esplicativa:

L’uomo coraggioso è intrepido come si conviene a un uomo, quindi avrà paura di ciò che è temibile a misura d’uomo, così come si deve e come la ragione comanda, e lo affronterà in vista del bello: questo è il fine della virtù. [...] Quindi chi affronta, pur temendole, le cose che deve affrontare e per il fine corretto, come si deve e quando si deve, e allo stesso modo mostra ardimento, è coraggioso, infatti il coraggioso subisce e agisce secondo il valore delle circostanze e come prescrive la ragione. [...] il coraggio è medietà relativa a ciò che suscita ardire e paura, nelle situazioni che abbiamo detto, situazioni che chi ha coraggio sceglie per ciò che è bello, oppure perché è turpe non farlo; invece il morire per sfuggire povertà, amore o altre fonti di dolore non è da coraggiosi, ma da

44 EN II, 1106a 31-1106b 6.

45 L. A. Kosman, Being Properly Affected: Virtues and Feelings in Aristotle’s Ethics, in Oksenberg Rorty, ed.,

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vili, dato che è debolezza lo sfuggire i mali, e in questo caso non si affronta la morte perché ciò è bello, ma per sfuggire ai mali46.

La persona coraggiosa dunque, proverà paura verso le cose appropriate, nel modo corretto e nelle giuste circostanze.

Arrivati a questo punto è chiaro che le virtù sono acquisite dal soggetto e non vengono semplicemente esercitate. Esse non sono per natura, ma neanche contro natura e questo è ciò che le rende delle disposizioni (hexis), piuttosto che delle semplici potenzialità (dynameis). Le virtù devono essere acquisite e la loro acquisizione non può essere semplicemente il frutto di una scelta. Non mi basta scegliere di voler essere virtuoso, per diventarlo. Le virtù devono essere coltivate attraverso un lento e lungo processo che passa attraverso l’esercizio e l’abitudine. Ci chiediamo ora come sia possibile essere virtuosi rispetto alle emozioni, dal momento che abbiamo visto non poter essere passibili di scelta. In altre parole, nei confronti delle passioni siamo di fatto passivi. Kosman ci può essere ancora d’aiuto per rispondere a questa domanda:

A person may act in certain ways that are characteristically and naturally associated with certain range of feelings, and through those actions acquire the virtue that is the disposition for having the feeling directly. Acts are chosen, virtues and feelings follow in their wake, though in logical different ways47.

Dalla lettura di queste righe risulta che il modo in cui si acquisiscono certi “poteri passivi” è collegato ad un certo modo di agire. Io non posso scegliere quali emozioni provare, ma posso scegliere quali azioni compiere. Ad ogni mia azione sono naturalmente associate determinate emozioni e, esercitandomi nel compiere azioni virtuose, le emozioni divengono per noi quasi una seconda natura. Chi agisce non ha un controllo diretto sulle proprie passioni, proprio perché le emozioni non sono scelte. Ciò che si può scegliere, sono le azioni che andranno a costruire le disposizioni, ossia le virtù, che permetteranno di esperire i giusti

pathe nelle circostanze, modi e verso le cose adatte. In altre parole, le emozioni, se educate

attraverso il percorso di apprendimento della virtù, diventano funzionali alla hexis propria dell’individuo e vanno di pari passo con essa.

46 EN III, 10-11.

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Riguardo al tema dell’acquisizione e del possesso della virtù, Myles Bernyeat48 propone un interessante approfondimento. Aristotele ancora una volta sceglie di prendere le distanze dai predecessori ed in particolare dal maestro Platone, scardinando l’uguaglianza “conoscenza = virtù = bene”. Il noto “intellettualismo socratico” si basa sul principio secondo cui solo attraverso la consapevolezza e la conoscenza del bene l’uomo è in grado di agire rettamente. Di conseguenza, secondo questo principio chi compie il male lo fa per ignoranza49. Ciò che conduce l’uomo alla conoscenza del bene sono le virtù, le quali, pur essendo diverse, possono essere raggruppate in un unico insieme: la scienza del bene50. Naturalmente solo chi conosce una virtù è in grado di possederla ed esercitarla: da ciò deriva l’assunto secondo cui la virtù può essere anche oggetto di insegnamento. Aristotele, invece, come abbiamo sottolineato già in precedenza, esplicita chiaramente che la virtù si acquisisce solamente con la pratica. È solo attraverso il ripetersi delle azioni virtuose nel tempo che la virtù può essere conosciuta anche a livello teorico. Per conoscere il “perché” (l’essenza) della virtù si deve prima conoscere il “che”:

Per questo motivo deve essere stato educato ad abitudini buone colui che si prepara a recepire in modo adeguato le lezioni sul bello, sul bene e in generale sugli oggetti della politica. Principio difatti è il che: e se in questi oggetti apparirà sufficientemente chiaro, non vi sarà bisogno del perché51.

Ricordiamo che l’obiettivo dell’Etica non è la conoscenza ma l’agire. La teoria aristotelica, così com’è articolata, è molto complessa e, a differenza dell’intellettualismo socratico, ammette casi di conflitto interiore: la conoscenza del bene non è sufficiente a garantire un risultato virtuoso. Le virtù sono stati abituali che si acquisiscono con il tempo, grazie ad un percorso educativo cui si è sottoposti fin da giovani. Non si tratta, però, di una forma di apprendimento statico in cui il giovane è passivo di fronte alla serie di nozioni che gli vengono imposte ma, attraverso l’educazione a compiere azioni virtuose, egli imparerà con il tempo a realizzarle sempre più spontaneamente.

48 M. F. Burnyeat, Aristotle on Learning to be Good, in Essays on Aristotle’s Ethics, edited by A. O. Rorty,

University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London, 1980, pp. 69-92.

49 Cfr. Platone, Apologia di Socrate, 20d-31c. 50 Cfr. Platone, Protagora, 329c-333b. 51 EN II, 1095b 3-8.

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The thesis is that we first learn what is noble and just not by experience of or induction from a serie of istances, nor by intuition (intellectual or perceptual), but by learning to do noble and just things, by being habituated to noble and just conduct.52

Per Aristotele sono in principio la pratica e l’azione ad avere poteri cognitivi e proprio attraverso di essi si realizzano l’apprendimento delle virtù e il raggiungimento del bene: solo le azioni compiute in prima persona ci fanno veramente capire il significato in esse racchiuso.

La non insegnabilità della virtù porta Aristotele ad un’altra tesi forte: non è possibile nemmeno convincere qualcuno ad essere virtuoso solo con le parole.

Ora se i discorsi fossero sufficienti a renderci persone per bene “farebbero di certo affari d’oro” come dice Teognide, e dovremmo procurarceli; in realtà è chiaro che i discorsi conducono i giovani d’animo generoso a rafforzare la propria disposizione, e li incoraggiano, rendono un carattere nobile e veramente amante del bello adatto ad ospitare la virtù, ma non hanno la capacità di condurre la massa all’eccellenza morale53.

Il discorso educativo servirà a mostrare il perché della virtù a chi già la possiede come stato abituale. Il discepolo deve avere già a cuore la virtù e l’agire correttamente: se ciò non fosse, l’agire virtuoso non potrà mai essere un suo obiettivo né tanto meno una sua priorità. Il modo in cui ordiniamo i diversi valori che compongono il nostro sistema di riferimento, infatti, dipende principalmente da ciò che ci sta a cuore e questo è determinato dall’educazione ricevuta.

Il cammino verso la virtù è lungo e complesso: l’individuo deve saper mettere insieme come i vari frammenti di un grande tutti gli elementi che caratterizzano il “vivere proprio dell’uomo”, ossia: azioni, stimoli, desideri ed insegnamenti.

A partire dal libro III prende avvio la trattazione descrittiva delle singole virtù, ognuna analizzata in base all’oggetto di cui è medietà54:

• andreia, coraggio: è medietà rispetto a paura ed ardimento; • sophrosyne, temperanza: è medietà rispetto a piacere e dolori;

52 M. F. Burnyeat, op. cit., p.73.

53 EN X, 1179b 4-10.

54 Aristotele sottolinea tuttavia che non di tutte le azioni e le passioni si può cogliere la medietà ma che alcune

sono dette turpi per natura: “Non ogni azione né ogni passione accoglie la medietà, alcune infatti hanno nomi che immediatamente le connettono strettamente alla cattiveria, come ad esempio malevolenza, impudenza, invidia, e tra le azioni, adulterio, furto, omicidio.” (EN II, 1107a 8-11).

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• eleutheriotes, generosità, e megaloprepeia, magnificenza: sono medietà rispetto al dare e all’avere ricchezze;

• megalopsychia, fierezza: è medietà rispetto all’onore e al disonore; • proates, mitezza: è medietà rispetto all’ira;

• aletheia, sincerità, eutrapelia, arguzia, e philia, amabilità: sono medietà rispetto alla virtù sociale.

Due sono le eccezioni: la giustizia e le “medietà nelle passioni”. Alla giustizia è dedicato l’intero libro V e ciò è dettato dal fatto che, tra tutte le virtù etiche, essa è considerata quella più importante. In un primo senso generale55, la giustizia è il rispetto della legge dello Stato e, poiché la legge dello Stato copre tutta l’area della vita morale, la giustizia è in questo modo comprensiva di tutte quante le virtù. Aristotele, in seguito, parla di un altro tipo di giustizia chiamata “particolare”, la quale si distingue in due forme: distributiva e correttiva. La prima concerne l’assegnazione dei beni che riguardano la comunità politica (cariche e ricchezze) in modo proporzionale al merito; la seconda è tesa a correggere eventuali imprecisioni nelle transizioni private. Quest’ultima, inoltre, può essere esercitata in due diversi ambiti: quello dei rapporti volontari, da un lato, e involontari (ossia determinati da frode o da violenza), dall’altro56.

Per quanto riguarda invece le medietà fra le passioni, Aristotele cita il pudore e lo sdegno. Aidos, pudore, è medietà fra verecondia e sfacciataggine. Nemesis, sdegno, è medietà fra invidia (phthonos) e malevolenza (epichairekakia). Anche in questo caso Aristotele utilizza il termine pathe, questa volta però riferendosi unicamente a emozioni ben precise ed alle loro manifestazioni. Se andiamo nel dettaglio delle definizioni, vediamo come Aristotele abbia già qui ben chiari alcuni degli aspetti che caratterizzano le emozioni, i quali verranno sviluppati con precisione nelle opere successive.

Riguardo al pudore, non è opportuno parlarne come di una virtù, infatti somiglia più a una passione che a uno stato abituale. Ciò nonostante lo si definisce come “timore di avere cattivafama”,

55 Cfr., EN V,1129b14 e segg.: “Le leggi si pronunciano su tutto e tendono all’utile comune, per tutti o per i

migliori, o comunque per chi governa secondo virtù, o secondo qualche altro criterio consimile, di modo che, in uno dei sensi del termine, noi diciamo giusto ciò che produce e preserva la felicità, e le parti di essa, nell’interesse della comunità politica. [...] Ora, questo tipo di giustizia è virtù completa, non in generale, ma rispetto al prossimo per questo si ritiene che la giustizia sia la virtù più eccellente [...] È virtù completa, soprattutto, perché è attuazione della virtù completa, ed è completa dato che colui che la possiede è capace di servirsi della virtù anche nei riguardi del prossimo, e non solo in relazione a se stesso”.

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e ha come effetto cose paragonabili a quelle che derivano dalla paura delle cose terribili: chi si vergogna arrossisce, chi teme per la sua vita impallidisce. Quindi entrambe le reazioni hanno in qualche modo un aspetto fisico, e ciò è la ragione per cui si ritiene che siano passioni57.

Aristotele inizia ora a mettere in luce le caratteristiche specifiche delle emozioni, le quali ci permettono di distinguerle dal gruppo generico pathe in cui erano state inserite all’inizio dell’opera. Le emozioni sono ancorate alla corporeità ed il loro insorgere produce reazioni fisiche che si manifestano chiaramente nel corpo. Alle emozioni sono connessi piacere e dolore, i quali non sono né l’oggetto né le conseguenze delle emozioni, bensì le costituiscono. A differenza degli appetiti (epithymia), che sono rivolti sempre verso un oggetto esterno che il soggetto percepisce come piacevole, le emozioni hanno, con la realtà esterna, un rapporto molto più complesso. Abbiamo già identificato in precedenza le emozioni come rielaborazione degli stimoli esterni, ma ciò non è sufficiente. Di fatto, nelle emozioni siamo coinvolti in prima persona insieme ai nostri valori, alla nostra percezione della realtà e, come vediamo dall’esempio del pudore, all’idea che abbiamo di noi stessi. Il pudore è l’emozione che ci impedisce di commettere quelle azioni turpi, che andrebbero ad intaccare l’opinione che abbiamo di noi stessi e, soprattutto, quella che gli altri hanno di noi. In questi primi libri dell’EN Aristotele, però, non esplicita tutti questi nessi concettuali, ma tenterà di farlo nel libro II della Retorica.

Fino ad ora abbiamo visto ed ampiamente dimostrato come le emozioni abbiano un rapporto diretto con le virtù del carattere. Inoltre, il buon rapportarsi alle spinte emotive determina conseguenze positive anche se andiamo a considerare l’eccellenza della parte razionale dell’anima. In particolare è il buon agire che, in tutta la sua complessità, dipende dall’interazione e dall’interdipendenza tra virtù etiche e dianoetiche. Per dimostrare tutto questo è prima necessario fare alcune precisazioni ed andare ad esaminare la teoria aristotelica dell’azione.

Dall’analisi precedente riguardante il De Anima abbiamo appreso come gli animali in generale siano portati ad agire non solo per preservare il loro essere ma, anche per ottenere ciò che procura loro piacere e per fuggire dal dolore. Anche nell’uomo, animale razionale, ciò che produce il movimento, ossia l’azione, è il desiderio. Tuttavia, la sua prerogativa è la capacità di compiere azioni che seguono un tipo particolare di desiderio (orexis), ossia la

57 EN IV, 1128b10-15.

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scelta (orexis bouletikè). L’analisi della scelta nell’EN è inquadrata all’interno dell’indagine sugli atti volontari e ne rappresenta una sottospecie.

Aristotele distingue: azioni involontarie, ossia quelle compiute per forza o per ignoranza (EN 1110a1-2), ed azioni volontarie:

[…] il volontario ci sembrerà essere ciò il cui principio è in chi agisce, quando costui conosca i singoli aspetti nei quali l’azione si verifica. Infatti non dice bene di certo chi afferma che gli atti compiuti a causa dell’impetuosità o del desiderio sono involontari58.

A fianco di queste Aristotele classifica poi un terzo tipo di azione: le azioni “miste”. Esse sono azioni volontarie (l’origine dell’azione è nell’agente), ma dettate dalle circostanze (altrimenti non sarebbero state compiute, sono azioni turpi che hanno senso solo nell’economia delle circostanze)59.

A questo punto resta da esaminare la scelta, che è strettamente collegata alla nozione di volontarietà. Quanto al genere, essa rientra nella nozione di “volontario”, la quale ha un’estensione più ampia: anche i bambini e gli animali irrazionali hanno infatti volontarietà, ma non sono in grado di compiere delle scelte. Queste ultime riguardano l’ambito delle azioni morali che, per essere portate a termine, necessitano di un precedente ragionamento e che sono effettivamente praticabili. Riguardo alla differenza specifica, la si può determinare per esclusione: La scelta, infatti, non è né desiderio (epithymia), né impulsività (thymos), né volontà (boulesis) e nemmeno opinione (doxa). Con il procedimento dialettico che gli è consueto, Aristotele passa a dimostrare che la scelta non si può identificare con nessuna delle forme dell’appetito da un lato, né con una forma di conoscenza dall’altro. Essa non è desiderio né impulsività: di entrambe partecipano anche gli esseri irrazionali che, invece, non sono in grado di compiere scelte; il desiderio può essere in contrasto con la scelta (giacché si può scegliere una cosa e desiderarne un’altra) ed esso riguarda piacere e dolore, mentre non è così per la prohairesis. Più precisamente, le scelte hanno a che fare con ciò che dipende da noi e riguardano il bene e il male: per questo motivo, infatti, rientrano nell’analisi etica. Inoltre, è in base alle scelte che possiamo veramente dire se una persona agisce correttamente o meno. Ancora meno la si può identificare con il thymos: infatti, dice

58 EN III, 1110a 22-26.

59 Questo tipo di azione ibrida, volontaria e voluta non in sé, ma solo in relazione alle opzioni disponibili, è

fondamentale per quanto riguarda il giudizio che diamo sul soggetto agente: quando la realtà ci chiama a rispondere e non possiamo rimanere inerti ecco che vengono alla luce le nostre priorità. Le azioni miste sono di fatto quelle in cui siamo costretti ad ordinare tra loro valori indipendenti, scegliendo di compiere azioni anche turpi per non compierne altre che sarebbero ancora più turpi.

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Aristotele, le azioni compiute con impulsività sono considerate quanto più lontane dall’essere oggetto di scelta. A differenza della boulesis, da cui dipende il fine dell’azione e che può riguardare anche obiettivi impossibili, la scelta si riferisce solo a cose che siamo in grado di raggiungere con le nostre azioni. Infine la scelta non è neppure doxa, perché l’opinione ha a che fare anche con ciò che è eterno ed impossibile ed essa si distingue secondo il falso e il vero, non di certo in base ai concetti di bene e male. Mentre l’opinione si forma riguardo alla natura di una cosa o in riferimento alla persona, la scelta concerne le nostre azioni. Avere delle buone opinioni, infine, non significa operare delle buone scelte, perché queste dipendono dal carattere. Non rimane che definire la scelta:

[…] forse è ciò che è stato già deliberato (probebouleumenon)? Infatti la scelta è unita a ragionamento e pensiero (meta logou kai dianoias). Anche il nome (prohairesis) sembra indicare quello che viene scelto invece di altre cose (pro heteron haireton)60.

La scelta si presenta quindi come il culmine della deliberazione, a cui segue immediatamente l’azione. La deliberazione è un tipo di ragionamento che necessita a sua volta di una spiegazione adeguata. Aristotele dice, infatti, che non è possibile deliberare su tutte le cose, bensì solo su quelle che dipendono unicamente da noi, che “per lo più” si verificano in un determinato modo e del cui esito non possiamo avere certezza61. Il campo della deliberazione è dunque quello etico e politico, ossia quello della praxis. Si delibera poi sui mezzi, sulle cose che portano al fine e sulle modalità migliori per realizzarlo. Per Aristotele, difatti, la deliberazione viene a coincidere con la ricerca (zetesis) di uno o più termini medi che colleghino un fine a qualcosa che è possibile fare in una situazione attuale62. Il fine, invece, è dato dalla volontà di raggiungere o ottenere qualcosa che per noi è un bene63. Se dunque la deliberazione stabilisce quali e quanti sono le azioni e i mezzi che bisogna mettere in atto per raggiungere certi fini, la scelta è quella che agisce su azioni e mezzi, li scarta se irrealizzabili e li mette in atto se li trova realizzabili. La prohairesis è dunque la manifestazione del calcolo deliberativo ed, insieme, della volontà desiderante.

60 EN III, 1111b4-1112a17. 61 Ivi.,1112a 21-31.

62 Natali, op. cit, p. 198-202.

63 Riguardo alla natura del fine dato dalla volontà, Aristotele prende in considerazione due posizioni che sono

antitetiche: quella platonica, che sostiene l’esistenza di un Bene in sé come valore assoluto (Gorgia, 466e), e quella sofistica che, relativisticamente, considera bene ciò che di volta in volta sembra tale a ogni individuo. Né l’una né l’altra sono ammissibili per il filosofo, il quale tenta di conciliare entrambe le posizioni: ciò che si vuole è in assoluto e secondo verità è il bene, ma questo bene può cambiare a seconda dell’individuo. Solo nell’uomo virtuoso esso andrà a coincidere con il bene in senso proprio.

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