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L’orientamento restrittivo della Corte di giustizia.

Come si è evidenziato nel paragrafo precedente, secondo un tradizionale orientamento della giurisprudenza europea, le norme di diritto primario in materia di libera circolazione delle persone e gli atti emanati in esecuzione delle dette norme non possono essere applicati ad attività che non abbiano alcun nesso con una qualsiasi delle situazioni considerate dal diritto comunitario/europeo ed i cui elementi si collocano tutti all’interno di un solo Stato membro396.

Tale orientamento, applicato anche in pronunce più recenti della Corte di giustizia397, intervenute a seguito dell’istituzione della cittadinanza europea, si

configura quale sostanziale limite all’operatività delle norme sui diritti dei cittadini dell’Unione europea. Esso, per quanto in questa sede ci interessa, ha trovato spazio anche con riferimento specifico all’esercizio del diritto del cittadino europeo ad essere accompagnato o raggiunto da un proprio familiare.

395 Sostanzialmente diretto a fa sì che le cd. discriminazioni “alla rovescia” non vengano più relegate a

problema esclusivo degli Stati membri, ma che vengano affrontate e risolte tramite la valorizzazione degli strumenti offerti dal diritto dell’Unione europea. Per approfondimenti, anche con riferimento alla dottrina, si rinvia al par. 3.

396 V., in particolare, sentenze della Corte 27 ottobre 1982, cause riunite 35/82 e 36/82, Morson e Jhanjan v. Netherlands, in Raccolta, p. 3723, punto 16; 22 settembre 1992, causa C-153/91, Petit, in Raccolta, pp. I-4973, punto 8; 5 giugno 1997, cause riunite C-64/96 e C-65/96, Uecker e Jacquet, in Raccolta, pp. I-3171, punto 16; 11 ottobre 2001, cause riunite da C-95/99 a C-98/99 e C-180/99, Khalil e a., in Raccolta, pp. I-7413, punto 69.

397 Cfr., ad esempio, sentenza del 14 ottobre 2008, Grunkin e Paul, causa C-353/06, in Raccolta, p. I-

In particolare, tale tipo di approccio – che sinteticamente verrà definito come “restrittivo” – risulta ben messo in evidenza nella nota pronuncia relativa ai casi

Morson and Jhanian398. In essa trova applicazione quella regola dell’esclusione delle

situazioni puramente interne, sostanzialmente riconducibile al caso Saunders399, ove la

Corte aveva affermato che “Le disposizioni del Trattato in materia di libera circolazione dei lavoratori non possono quindi essere applicate a situazioni puramente interne di uno Stato membro, cioè in mancanza di qualsiasi fattore di collegamento ad una qualunque delle situazioni contemplate dal diritto comunitario” (par. 11 della sentenza)400.

Nella specie, le cause principali, traggono origine dalla richiesta di due cittadine del Suriname di ottenere il permesso di soggiorno al fine di stabilirsi nei Paesi Bassi, presso i rispettivi figli, in qualità di ascendenti a carico. Dal fascicolo, la Corte deduce che tali figli svolgono un lavoro dipendente nei Paesi Bassi, ma non sono mai stati occupati in altri Stati membri. In particolare, viene in rilievo l’applicazione dell’art. 10, n. 1, del Regolamento n. 1612/68 – all’epoca dei fatti vigente e attualmente confluito nella Direttiva 2004/38/CE –, il quale attribuisce ad alcuni familiari, tra cui gli ascendenti a carico di un lavoratore cittadino di uno Stato membro, occupato nel territorio di un altro Stato membro, il diritto di stabilirsi col lavoratore. Pertanto, la questione pregiudiziale verte sull’esatta interpretazione di tale disposizione: in particolare, viene chiesto se l’art. 10 del Regolamento citato sia di ostacolo a che uno Stato membro vieti ad un familiare di un lavoratore, rientrante fra le categorie previste dalla disposizione, di stabilirsi presso tale lavoratore, nel caso in cui questi abbia la cittadinanza dello Stato in cui lavora, mentre il familiare ne abbia un’altra.

Secondo la Corte, poiché la lettera del suddetto regolamento non comprende i familiari a carico di un lavoratore cittadino dello Stato membro nel cui territorio è occupato, la soluzione della questione pregiudiziale dipende dal se il loro diritto d’entrata e di soggiorno possa essere desunto dal contesto della normativa e dalla sua collocazione nel diritto comunitario complessivamente considerato. In proposito, le ricorrenti nella causa principale invocano il principio di non discriminazione in base

398 Cit. Nei casi di specie, si trattava di domande pregiudiziali vertenti sull’interpretazione dell’art. 17,

comma 3, del TCEE, nonché dell’art. 10 del Regolamento del Consiglio 15 ottobre 1968, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori nell’ambito della Comunità. Per alcuni commenti, si vedano C. GREENWOOD, Free Movement of Workers under EEC Law and English Law, in New Law

Journal, 1983, p. 828 e G. DRUESNE, Liberté de circulation des personnes, in Revue trimestrielle de droit européen, 1984, pp. 292-294.

399 Sentenza del 28 marzo 1979, caso 175/78, The Queen c. Vera Ann Saunders, in Raccolta, 1979, p.

1129. Su cui si veda T. STEIN, Strafgerichtliche Aufenthaltsbeschränkungen gegenüber eigenen

Staatsangehörigen und EWG-Ausländern, in EuGRZ, 1979, pp. 448-450.

400 Nel caso Saunders, la questione era volta ad accertare se il principio della libera circolazione dei

lavoratori disciplinato dall’allora art. 48 TCE, in particolare in quanto implica per il lavoratore, fatte salve limitazioni giustificate, fra l’altro da motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, il diritto di spostarsi liberamente nel territorio degli Stati membri onde rispondere ad offerte di lavoro effettive e di dimorarvi al fine di svolgervi un’attività lavorativa, potesse essere invocato da un cittadino di uno Stato membro, ivi residente, per opporsi a provvedimento che limitavano la sua libertà di circolare nel territorio di detto Stato o di stabilirvisi in una località di sua scelta.

alla cittadinanza il quale, enunciato in termini generali dall’allora art. 7 del TCE, è stato espressamente precisato nell’allora art. 48 del Trattato stesso.

La Corte ha rilevato che tali disposizioni possono essere invocate solo in quanto la fattispecie di cui si tratta rientra nell’ambito di applicazione del diritto comunitario e, nella specie, nelle norme a tutela della libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità. Una conclusione del genere può essere desunta non solo dalla lettera dei summenzionati articoli, ma risulta anche conforme allo scopo del Trattato che è quello di contribuire ad eliminare tutti gli ostacoli per l’instaurazione di un mercato comune nel quale i cittadini degli Stati membri possano spostarsi liberamente nel territorio degli Stati stessi al fine di svolgere le loro attività economiche.

Da ciò consegue che le disposizioni del Trattato e la normativa adottata per la loro attuazione in materia di libera circolazione dei lavoratori non possano traovare applicazione per quelle situazioni che non presentano alcun nesso con una qualsiasi delle situazioni considerate dal diritto comunitario.

È quanto avviene certamente per i lavoratori che non hanno mai esercitato il diritto di libera circolazione all’interno della Comunità.

Orbene, con riferimento alle conclusioni cui è pervenuta la Corte di giustizia nel caso Morson and Jhanian, non sembra che vi siano elementi di irrazionalità, specie se procediamo ad inquadrarle nel più ampio contesto degli obiettivi propri della Comunità europea, ancora connotata dall’attributo “economico”, all’epoca dei fatti presi in considerazione.

Cionondimeno, pur se fedele alla lettera della disposizione e all’impianto complessivo dei Trattati, tale interpretazione è suscettibile di creare problemi di cd. “reverse discrimination”, specie in considerazione del fatto che le regole interne sull’immigrazione prevedono spesso discipline più restrittive rispetto alle corrispondenti previsioni dell’ordinamento europeo.

La soluzione dei casi Morson and Jhanian non appare, ad ogni modo, isolata: essa, trova, in particolare, conferma in una altrettanto nota, successiva pronuncia della Corte (sentenza Uecker)401.

In questo caso, la Corte di giustizia ha avuto occasione di precisare che una persona, cittadina di un paese terzo, coniugata con un lavoratore cittadino di uno Stato membro non può far valere il diritto attribuito dall'art. 11 del regolamento n. 1612/68

401 Sentenza del 5 giugno 1997, cause riunite C-64/96 e C-65/96, Land Nordrhein-Westfalen c. Kari

Uecker e Vera Jacquet c. Land Nordrhein-Westfalen, in Raccolta, 1997 pp. I-03171. Su cui si veda M.

LUBY, Chronique de jurisprudence du Tribunal et de la Cour de justice des Communautés européennes.

Libre circulation des personnes et des services, in Journal du droit International, 1998, pp. 513-514; D.

M. WEBER, Joined Cases C-64/96 and C-65/96, Land Nordrhein-Westfalen v. Kari Uecker/Vera Jacquet, Judgment of 5 June 1997, in CML Rev., pp. 1437–1445. In precedenza, la Corte aveva avuto

modo di precisare che gli artt. 7 e 48, n. 2, del Trattato CEE devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a che il beneficio di una prestazione quale un assegno per adulti minorati, contemplato dalla normativa di uno Stato membro, sia negato ad un familiare di un cittadino comunitario il quale non si sia mai avvalso del diritto alla libera circolazione all' interno della Comunità. Cfr. sentenza della Corte del 16 dicembre 1992, causa C-206/91, Ettien Koua Poirrez c. Caisse d' allocations familiales de la

se detto lavoratore non ha mai esercitato il diritto alla libera circolazione all'interno della Comunità402.

Non può sfuggire che il caso Uecker sorge in un’epoca, a cavallo tra il Trattato di Maastricht e quello di Amsterdam, in cui la Comunità ha perso il suo attributo economico e ad essa si è affiancato un nuovo soggetto, l’Unione europea.

Pertanto, lo stesso giudice a quo considera lecito domandarsi se i principi fondamentali di una Comunità avviata sulla strada dell’Unione europea consentano ancora che una disposizione nazionale contraria al diritto comunitario - per violazione dell'allora art. 48, n. 2, del Trattato - possa continuare ad essere applicata da uno Stato membro nei confronti dei propri cittadini e dei loro coniugi originari di paesi terzi.

L’approccio “moderato” della Corte, porta quest’ultima a limitarsi a rilevare che la cittadinanza dell'Unione – di cui all’allora art. 8 del Trattato CE – non presenta lo scopo di ampliare la sfera di applicazione ratione materiae del Trattato anche a situazioni nazionali che non abbiano alcun collegamento con il diritto comunitario.

Peraltro, la Corte evidenzia che l’allora art. M del Trattato sull'Unione europea stabilisce che “nessuna disposizione del suddetto Trattato pregiudica i trattati che istituiscono le Comunità europee, fatte salve le disposizioni che modificano espressamente questi trattati”.

Di conseguenza, in linea con quanto precedente affermato nella risoluzione di situazioni analoghe, secondo la Corte, le eventuali discriminazioni di cui possono essere oggetto i cittadini di uno Stato membro con riguardo al diritto di questo Stato rientrano nella sfera di applicazione di quest’ultimo. Conseguenza strettamente legata a tale conclusione è che tale tipo di discriminazioni trova risoluzione esclusivamente nell’ambito del sistema giuridico nazionale dello Stato membro di riferimento403.

3. Ipotesi di soluzioni delle cd. discriminazioni “alla rovescia” a livello di

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