Pianificazione e riforma (1959-1969)
2.3 L’università al centro: l’elaborazione del Piano Gui
Gli anni in cui si sviluppò in Italia il primo dibattito concreto su un progetto di riforma universitaria (che per la prima volta era affidata all’elaborazione del potere legislativo e non del solo governo com’era stato per la legge Casati, per la riforma Gentile e ovviamente per i successivi provvedimenti fascisti), possono essere considerati quelli in cui maggiore fu lo scarto fra le profonde esigenze di rinnovamento istituzionale e legislativo e le riforme poi effettivamente varate, fra le dichiarazioni d’intenti della classe politica al governo (specie della parte socialista) e l’effettivo impegno, dentro e fuori il Parlamento, per modificare a colpi di leggi un paese la cui struttura economico politica si stava rivelando ampiamente inadeguata alle profonde mutazioni sociali, culturali ed economiche.
Il progetto di riforma universitaria, il disegno di legge n. 2.314, è esso stesso l’emblema del fallimento del centrosinistra dal punto di vista innovatore e riformatore: tre anni di dibattito parlamentare, accademico e pubblico per una legge che in pochi volevano realmente e la cui difesa era nelle mani di pochi esponenti politici, spesso figure isolate dentro i propri stessi partiti.
Per chi osserva a distanza di decenni quella fase politica è relativamente facile rilevare quanto fosse difficile approvare una riforma complessiva dell’università per una coalizione che proprio sulla scuola aveva avuto le sue due ultime crisi di governo. Ai primi di giugno del ’64 infatti i socialisti insieme ai social democratici e ai repubblicani si astennero sulla votazione di un articolo del provvedimento di bilancio-‐ponte della Pubblica Istruzione per il secondo semestre del 1964: il ministro aveva infatti inserito degli stanziamenti alla scuola elementare e media non statale che non erano stati oggetto di discussione fra gli alleati di governo. Ciò nonostante il secondo governo Moro nacque a luglio con ben sei ministeri in mano ai socialisti. Questo secondo governo effettivamente di centro sinistra sarebbe poi caduto nel febbraio 1966 per riformarsi subito dopo come terzo e ultimo dei governi Moro del decennio, nello stesso anno in cui i socialisti ritrovarono l’unità fra PSI e PSDI nel Partito Socialista Unificato.
L’incapacità della classe politica di rispondere con riforme di struttura alle esigenze dello sviluppo trovava degna corrispondenza nelle strategie dei dirigenti d’azienda e degli uomini chiave del sistema economico italiano, che si preoccuparono poco di gettare delle basi solide per uno sviluppo duraturo e puntando sullo sfruttamento delle enormi masse in fuga dalle campagne: la stagione di rivolta dentro e fuori le fabbriche che avrebbe contraddistinto la fine degli anni sessanta e gli anni settanta, ebbe la sua gestazione in questi anni di occasioni mancate e innovazioni non sperimentate295.
Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, un simile quadro era paradossalmente compatibile con la priorità assoluta che i governi di centrosinistra e i dirigenti dell’economia italiana avevano assunto: la programmazione economica, che si sarebbe concretizzata nel Progetto di programmazione di sviluppo economico, 1965-‐69, approvato alla fine di gennaio del ’65 e basato anch’esso (come le previsioni che lo avevano preceduto) su una premessa di sviluppo del reddito nazionale del 5% annuo. Alcuni osservatori hanno fatto notare come sia quasi paradossale l’attuazione di un simile piano nel momento in cui “con l’improvviso abbassamento del tasso d sviluppo, venivano a cadere tutti i presupposti di una pianificazione che presupponeva un alto tasso di sviluppo e non aveva tra i suoi obbiettivi il sostegno del tasso di sviluppo”296.
Se la programmazione economica generale conteneva tali contraddizioni, la politica di pianificazione scolastica ne avrebbe sviluppato di analoghe e, come si vedrà a proposito dell’approvazione del piano quinquennale, il concetto stesso di programmazione scolastica avrebbe visto molteplici interpretazioni.
La fine del piano decennale e l’approvazione della legge n. 1.073, Piano per lo sviluppo della scuola nel triennio dal 1962 al 1965, avevano sancito sulla carta il principio che lo sviluppo
dell’istruzione dovesse basarsi sulla combinazione degli investimenti
monetari/infrastrutturali e delle riforme strutturali, non solo per adeguare quantitativamente ma anche e soprattutto rinnovando la formazione della forza lavoro italiana ad ogni suo livello, in questa fase soprattutto sull’università. Come si vedrà, questo duplice aspetto della politica universitaria sarebbe stato riaffermato dai suoi principali protagonisti (Ermini, il ministro Gui) ma non si sarebbe mai completato: agli investimenti e interventi prettamente
295 Riferendosi alla strategia economica dei dirigenti d’azienda a cavallo fra gli anni ’50 e ’60, Michele Salvati definì questa fase lo “sciopero del capitale” (cui sarebbe seguito per l’appunto quello del lavoro): riduzione de salari, contrazione dell’occupazione e intensificazione dello sfruttamento furono le basi della produzione italiana nella prima fase e quando la produttività prese poi il volo determinato tassi di sviluppo fra i primi in Europa, le contraddizioni di un simile sistema di rapporti produttivi e sociali esplosero generando le lotte operaie che avrebbero segnato un epoca. Michele Salvati, L’economia italiana dal dopoguerra ad oggi, Garzanti, Milano 1986.
“quantitativi” non sarebbero mai seguiti quelli “qualitativi” in un complesso gioco di opposizioni interne e dichiarazioni di facciata che avrebbero fatto arenare la parte più importante del cosiddetto piano Gui, le Modifiche all’ordinamento universitario.
Se dovessimo comprendere le priorità reali dei governi sull’istruzione analizzando i fatti e ignorando le dichiarazioni ufficiali, di prioritario la riforma dell’università non aveva poi molto. La stessa legge 1.073/62 disegnò un percorso abbastanza lungo di elaborazione di una riforma organica, prevedendo nelle norme transitorie il termine dei lavori della Commissione d’indagine per il 31 marzo 1963 (termine poi prolungato al 15 luglio) e la successiva presentazione di una relazione governativa entro al fine del 1963, termine poi posticipato all’estate di quell’anno. Neanche le successive scadenze per la trasformazione delle linee e delle relazioni in proposte di legge sarebbero state rispettate, slittando al 5 maggio 1965 la presentazione ufficiale del progetto n. 2.314 rispetto al termine di fine 1964 inizialmente previsto. Tre anni e due crisi di governo separano quindi l’affermazione ufficiale della necessità di una riforma strutturale dell’università come motore del cambiamento dell’istruzione italiana, dalla presentazione della relativa proposta di legge.
Oggetto di questo paragrafo è quindi il risultato del lavoro della Commissione d’indagine, il complesso di documenti noto come “piano Gui” e la successiva proposta di legge per l’università, ma anche quel complesso di interventi che furono definiti “quantitativi” e che rappresentano l’unico lascito concreto per l’università di questa prima fase di centro-‐sinistra, vale a dire la legge 14 febbraio 1963 n. 80 sull’assegno di studio universitario, la legge 26 luglio 1966 n. 585 istitutiva del ruolo di professori aggregati, la legge del 31 ottobre 1966 n. 942 “Finanziamento del piano di sviluppo della scuola nel quinquennio dal 1966 al 1970”, la legge 24 febbraio 1967 n. 62 che istituì 1.100 nuovi posti di docente e più di 7.000 si assistente e infine la legge per il finanziamento dell’edilizia universitaria, la n. 641 del 28 luglio 1967.
Punto d’inizio di questa fase è quindi la Commissione d’indagine e la sua relazione, sulle cui proposte si sviluppò il dibattito legislativo, ma anche d’idee, in merito alla natura dell’università in relazione allo sviluppo economico.
Composta da 31 membri, 16 dei quali parlamentari (di quasi tutte le formazioni politiche, opposizioni incluse) e 15 “tecnici” di materie scolastiche ed economico-‐sociali, la Commissione lavorò divisa per gruppi tematici, riunendosi 38 volte in assemblee plenarie e lasciando l’elaborazione delle proposte sui singoli comparti della formazione al lavoro delle
sezioni: quella sull’università, coordinata dal democristiano Giuseppe Ermini, era la prima e si riunì in ben 78 occasioni, molto più di tutte le altre297.
Il punto qualificante, ribadito fin dalle premesse della relazione e che dava il senso dell’elaborazione di una nuova politica scolastica era nel modo di intendere la programmazione e le riforme: se da un lato queste ultime assumevano sempre più il senso di una previsione di sviluppo, dall’altro programmare non poteva più significare soltanto espandere cifre e voci di spesa, ma implicava un intervento qualitativo concreto sulle strutture formative. L’altro scarto rispetto al passato era la collocazione dell’università al centro dell’istruzione, come motore propulsore del cambiamento dell’intero sistema e come tale il più bisognoso di una modernizzazione profonda298.
Nella premessa della relazione erano indicate le direttive delle proposte specifiche che si avanzavano: migliorare la produttività degli atenei partendo dalla constatazione che mentre il numero di studenti cresceva a velocità sempre maggiori, i laureati avrebbero superato il tetto dei 30.000 l’anno solo nel 1966 (vedi la Tabella 5 dell’Appendice statistica); diversificare l’offerta formativa per tipologia di corsi e loro contenuti; istituire titoli diversi accanto alla laurea; programmare una formazione più completa e moderna per la figura per eccellenza degli studi universitari, i futuri dirigenti dell’economia come dei servizi, pubblici e privati, integrando i percorsi formativi, a prescindere dalla natura degli studi, con le discipline a carattere sociale e organizzativo; sostenere in modo più ampio la ricerca legandola maggiormente alla didattica (lo strumento indicato per realizzare questo processo sarebbe stato il dipartimento).
Volendo esprimere un giudizio complessivo sulla relazione, credo si possa definire come il testo ministeriale (e insieme politico vista la composizione della Commissione d’indagine) più attento alle dinamiche e alle istanze sociali di quegli anni: le disparità sociali, geografiche e culturali che determinano l’accessibilità degli studi universitari sono la premessa dei
297 Dall’introduzione a Ministero della pubblica istruzione, Relazione della Commissione d’indagine sullo stato e lo
sviluppo della pubblica istruzione in Italia, Roma 1963.
298 “Ciò che un tempo erano le riforme della scuola, tende oggi ad essere assorbito nella più ampia
programmazione della scuola, la quale non può esaurirsi nell’espansione quantitativa e nella previsione di
scadenze tra loro collegate, ma necessariamente investe gli aspetti qualitativi della formazione dei giovani e le strutture che ad essa devono provvedere. La programmazione, che qui si delinea e propone, involge anche una serie di riforme”. “Solo con una scelta prioritaria, che impone all’Università l’onere di essere all’origine e al centro di una organica politica scolastica, si può cercare di ottenere un’adeguazione quantitativa che non sacrifichi il livello qualitativo proprio delle nostre migliori tradizioni”, Ministero della pubblica istruzione,
ragionamenti sulla natura delle riforme necessarie, partendo quindi dal principio del libero accesso di tutti i diplomati, “salvo opportune prove integrative disposte per legge”299.
Il primo capitolo d’intervento indicato è quello della diversificazione dei titoli e quindi dei percorsi di studi universitari: la necessità affermata è quella innanzitutto di istituire i titoli inferiori alla laurea, professionali, “conseguibili presso istituti d’istruzione superiore, non necessariamente di tipo universitario”. Quest’ultimo passaggio avrebbe aperto successivamente le porte a uno dei punti più controversi del progetto Gui, la possibilità che questo titolo professionale a metà fra un diploma di scuola e una laurea fosse pertinenza di istituti nuovi (“aggregati” a una qualche facoltà), dalla ambigua natura para-‐universitaria con propri organi di direzione e propri bilanci, additati dagli oppositori del d.l. n. 2.314 come i futuri atenei di serie b300. Nel dettaglio si proponevano titoli intermedi di questa natura per
tutte le facoltà, in special modo ingegneria ed economia: la prima per esigenze del tutto professionali di qualifiche diverse, la seconda per una non troppo celata preoccupazione di un affollamento eccessivo delle facoltà economiche in tutta Italia.
Successivo alla laurea avrebbe dovuto essere il titolo propriamente scientifico, il dottorato, il cui ambito di pertinenza sarebbe stato il dipartimento. Per quanto tali titoli non fossero immaginati come seriali, gradini cioè di un unico percorso, le forme di collegamento fra questi diversi studi non erano granché specificate.
Le proposte sulla didattica puntavano a erodere l’eccessiva rigidità e uniformità dell’offerta formativa universitaria italiana, prevedendo maggiori libertà nella formulazione dei piani di studio, una diversa concezione delle discipline da coltivare omogeneamente su tutti il territorio e quelle lasciate alla libera iniziativa degli atenei, un’ovvia differenziazione dei corsi in base al titolo, accorpamenti consistenti degli esami, forti limitazioni alla possibilità di ripetizione degli stessi o di finire fuoricorso, un disegno nuovo dei percorsi didattici che prevedesse anni o bienni iniziali uguali dentro le facoltà seguiti da successivi percorsi differenziati, corsi propedeutici per colmare le differenze di preparazione fra scuole e studi universitari troppo diversi fra loro. Ma il centro della proposta in campo di organizzazione didattica era sicuramente rappresentato dai dipartimenti, strumento essenziale per unire didattica e ricerca con i compiti di formulare i singoli piani di studio (in base a prescrizioni del previsto Consiglio Nazionale Universitario) e coordinare l’attività di ricerca e studio a partire
299 Ivi, p. 25.
300 “Tutto ciò induce, in generale, ad auspicare un’articolazione a tre livelli o gradi principali degli studi superiori:
un primo livello di diploma a carattere esclusivamente professionale, da realizzarsi anche al di fuori dell’ambito
da quella degli studenti dei corsi di dottorato; accanto ai dipartimenti c’era poi la proposta degli istituti policattedra, strumenti volti a scardinare l’individualità e l’isolamento dei precisi recinti didattico-‐scientifici rappresentati dalle cattedre dei professori di ruolo. A ben vedere nel testo elaborato dalla Commissione non si percepiscono nettamente le differenze fra questi due nuove istituti proposti e questa ambiguità sarebbe stato un facile argomento di polemica per chi vedeva nella creazione dei dipartimenti fonte di caos istituzionale per gli atenei301.
L’altro grande tema al centro dell’attenzione per tutto il decennio (e per quello successivo) era quello della docenza, delle figure lavorative che la rappresentavano, dei concorsi per accedervi, dello status giuridico e professionale, riflessione che partiva ovviamente dalla constatazione delle carenze del momento: il pessimo rapporto studenti/docenti, specie in alcune facoltà come economia o giurisprudenza, e la mancata copertura dei posti già messi a disposizione (nel ’62 erano trecento le cattedre e novecento i posti di assistente rimasti ancora vacanti).
In merito ai concorsi la relazione mostrò una netta discrepanza fra la lucidità con cui si elencavano i limiti del sistema in corso (mancanza di autonomia ma anche un meccanismo di cooptazione che riproduceva le storture del sistema) e la timidezza delle proposte in campo: la Commissione ammetteva di non essere giunta a proposte unanimi e si enunciava, ad esempio, l’idea di combinare l’elezione dei commissari per i concorsi con il sorteggio, proposta che dopo mille modifiche e marce indietro sarebbe stata quella definitiva dell’ultima versione del d.l. 2.314. Per citare chi ha concentrato i propri studi storici su questi elementi, “in pratica il sistema dei concorsi così come era non risultò più approvato da alcuno, ma quando si volle passare dalla critica alla modificazione del sistema vigente, nessuna proposta riusciva a trovare la maggioranza necessaria […] per questo il deprecato vecchio meccanismo concorsuale, inviso a tutti, riuscì a superare indenne il vaglio e costituì uno dei punti che il ministro Gui, vista la frammentazione molteplice della commissione sull’argomento, si dichiarò poi impossibilitato a riprendere per formulare le proprie linee di sviluppo della pubblica istruzione”302.
La Commissione si espresse poi in favore dell’istituzione dei professori aggregati, per facilitare la carriera dei futuri docenti e disporre di molteplici figure di docenti per molteplici percorsi e livelli formativi e, a maggioranza, per l’abolizione della libera docenza.
301 “Mentre l’Istituto policattedra vuole rispondere alla necessità di armonizzare e coordinare l’attività di ricerca e didattica in discipline aventi un comune campo di indagine, il Dipartimento dovrebbe costituire una ben distinta
unità didattico-scientifica nell’abito delle singole facoltà, con eventuali estensioni ad Istituti e cattedre di facoltà
diverse”. Ivi, p. 63. 302 Rugiu, op. cit., p. 261.
Ovviamente il nodo spinoso era rappresentato dalla disciplina dei docenti, l’adempimento o meno cioè dei doveri accademici, strettamente collegato a quello del pieno impiego e quindi della compatibilità fra l’attività di professore e libera professione, oltre che con cariche politiche e pubbliche.
Su questo una Commissione così composta non poteva arrivare all’unanimità a formulare proposte nette: se il rispetto dei doveri accademici era considerato un problema di costume (cui porre rimedio con una serie di prescrizioni e indicazioni come il registro delle lezioni e la vigilanza del rettorato sul lavoro dei docenti) sul rapporto fra l’ufficio di professore e libere professioni emersero due posizioni. Una prima era quella di chi riteneva parzialmente risolta la questione con le norme per il rispetto di una maggiore disciplina: per questo commissari permaneva la sperequazione economica fra chi aveva un doppio stipendio e chi no, problema risolvibile con indennità economiche per chi si dedicava solo all’attività universitaria. Una seconda posizione sosteneva la necessità di prevedere due status lavorativi, il full-‐time (senza possibilità di esercitare altre professioni) e il part-‐time, con possibilità periodiche di passaggio all’una o altra condizione e relative indennità per speciali mansioni lavorative. Altri passaggi da riportare sono quelli relativi alle previsioni di spesa e al diritto allo studio. Per le prime la Commissione valutava che si dovesse stanziare una spesa tra i 220 e i 240 miliardi di lire nei primissimi anni successivi e che in generale si dovesse prevedere nei 15 anni a venire una spesa media annua per l’università intorno ai 35 miliardi.
Sul secondo tema, logica conseguenza delle analisi sulle disparità economiche e sociali da superare, di proponeva l’attuazione di una seria politica di diritto allo studio che partisse dall’assunto che era “vero lavoro quello dello studente universitario, nel senso economico di attività diretta alla produzione di un bene, quale è la cultura”, e il sostegno a questo lavoro sarebbe dovuto derivare da chi traeva un beneficio da questo lavoro culturale, la famiglia e soprattutto la comunità (ovviamente con le condizioni dell’accertato merito negli studi e delle ristrettezze economiche)303. Da ciò derivava la legge del 14 febbraio 1963 n. 80 sull’assegno di
studio universitario, diventato proprio in quegli anni la principale (almeno dal punto di vista dell’immaginario nell’opinione pubblica) forma di sostegno allo studio universitario. Ovviamente la commissione prevedeva massicci investimenti in tutte le altre forme di assistenza, dalle mense alle case, ai collegi all’assistenza sanitaria alle facilitazioni per i materiali didattici.
Ovviamente questo investimento della comunità non poteva avere i caratteri del “fondo perduto”, ma andava collegato a un orientamento dei “giovani per quella preparazione scientifica e professionale, che sia di momento in momento, la più aderente ai bisogni effettivi del paese”. E’ evidente quanto avesse sedimentato “l’ideologia SVIMEZ”, con le sue previsioni circa i fabbisogni di manodopera quantificabili in archi temporali superiori al decennio, oltre che con l’idea di superare di colpo la gerarchia fra studi umanistici e scientifici, ribaltandola di netto per favorire lo sviluppo di scienza e tecnica.
Due ultime proposte devono essere riportate per il peso che avrebbero avuto nei mesi seguenti: da un lato quella di rendere direttamente abilitanti all’esercizio della professione alcune lauree (ingegneria, medicina, chirurgia, economia per i commercialisti, chimica, farmacia) intervenendo quindi direttamente sugli ordinamenti didattici delle facoltà per colmare eventuali lacune; l’altro nucleo di proposte rilevanti riguarda il capitolo dell’autonomia, l’ultimo dell’intera relazione, in cui si riaffermava l’idea di un doppio livello d’autonomia, quella tradizionale delle singole sedi (e si specifica in merito alcune proposte minime riguardo la composizione del c.d.a. o i maggiori poteri da attribuire al corpo accademico) ma soprattutto quella del sistema universitario nazionale, che poteva essere garantita solo dalla nascita di un nuovo organo (a sostituzione della prima sezione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione), il Consiglio Nazionale Universitario, organo di coordinamento delle singole autonomie ma anche di mediazione fra l’intero sistema e il potere esecutivo304.
Come previsto dalla legge del ’62, il ministro riportò nelle aule parlamentari i contenuti della relazione includendo i pareri del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e del Comitato Nazionale dell’Economia e del Lavoro305 e relazionando più dettagliatamente sugli aspetti
quantitativi (sedi, facoltà, studenti, docenti e finanziamenti stanziati negli anni precedenti) della situazione universitaria306. I tempi inizialmente previsti si dilatarono di parecchio e il
Parlamento ascoltò le proposte della commissione soltanto il 31 maggio 1964. Questo passaggio costituì una sorta di anticamera alla riforma effettiva arrivata nel maggio dell’anno