Per capire fino in fondo le ragioni e i termini del dibattito pubblico e politico che si è sviluppato dagli anni cinquanta in poi sulle tematiche universitarie, la gestione degli atenei e le necessità del paese in relazione alla formazione superiore, è necessario ricostruire una panoramica, dati alla mano, della reale situazione delle università italiane dal dopoguerra in poi.
Impossibile comprendere altrimenti i dibattiti sull’affollamento degli atenei, sulla necessità di apertura o chiusura delle porte accademiche, sui bisogni di infrastrutture e di personale, sulla stessa organizzazione degli studi.
La maggior parte di questi dati (raccolte nelle tabelle contenute nell’appendice statistica) è stata elaborata grazie alle serie storiche dell’Istat, ripubblicate in forma organica dall’istituto
in occasione del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia82. La base è rappresentata dalle
“Rilevazioni su scuole e università” realizzate annualmente dall’Istat e pubblicate nell’Annuario statistico dell’istruzione.
Un’altra fonte che verrà citata più in avanti è rappresentata dalle cinque pubblicazioni a cura del Comitato di Studio dei problemi dell’università italiana, animato da docenti e intellettuali impegnati sulla tematica, promosso e finanziato dalla fondazione Ford (che in quegli anni si distinse in tutto il mondo per il sovvenzionamento di analoghi studi e pubblicazioni) in collaborazione con la casa editrice il Mulino. Dal 1958 al 1960 il Comitato curò un approfondito studio sulla condizione dell’università e si fece promotore nell’aprile del ’60 di un importante convegno, “Una politica per l’Università”, cui si farà riferimento più avanti. Altra fonte ufficiale di notevole importanza è la Relazione sullo stato della pubblica istruzione e Linee direttive del piano di sviluppo pluriennale della scuola per il periodo successivo al 30 giugno 1965, presentata dal Ministro dell’Istruzione Gui (dopo aver ricevuto i pareri del Consiglio superiore dell’istruzione e del CNEL) ai sensi della legge 24 luglio 1962, n. 1.073, che rappresenta il terzo e ultimo stralcio del piano decennale. La relazione presentata in parlamento insieme con le linee direttive fu la base (vedremo poi con quanta corrispondenza) della prima proposta di riforma organica dell’istruzione dopo il progetto Gonella del 1950, il d.d.l n. 2.314 del 1965.
Alcune cifre estratte dalla relazione saranno il riferimento per l’illustrazione della situazione universitaria italiana dal dopoguerra fino alla prima metà degli anni ’60.
A cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta il quadro dell’istruzione universitaria era così delineato: “24 università statali, 4 università libere, 2 politecnici, 3 istituti universitari ad alto ordinamento speciale, 6 istituti superiori di magistero pareggiati, 2 istituti universitari statali e 5 istituti superiori di educazione fisica, di cui uno statale e gli altri pareggiati”; fra istituzioni pubbliche, private e pareggiate il totale nel 1957-‐58 era di 41 istituti di formazione
82 Nel secondo Dopoguerra, l’Istat riprende l’attività di rilevazione in modo sistematico e con cadenza regolare. Dal 1945 in poi, i dati riguardanti gli studenti sono raccolti distintamente per sede, per facoltà e corso di laurea di iscrizione e per anno di corso frequentato. A partire dal 1950 furono anche raccolte con maggior dettaglio le informazioni sugli studenti fuori corso, il che permise di effettuare analisi sulla regolarità dei percorsi di studio. In quegli anni, i dati riguardanti l’università cominciarono a essere pubblicati in volumi specificamente dedicati ai diversi gradi del sistema scolastico e universitario: l’Annuario statistico dell’istruzione, prima, e le Statistiche
dell’istruzione poi (ISTAT, L’Italia in 150 anni. Sommario di statistiche storiche 1861-2010, Roma 2012, p. 344). I
singoli capitoli e le serie complete della maggior parte dei dati sono reperibili sul web nella sezione istruzione alla pagina web istruzione.istat.it.
superiore83. Le cifre sulla popolazione universitaria e sul personale cui si fa riferimento in
questo lavoro sono ovviamente riferite alle sole istituzioni statali.
Per la descrizione dettagliata della tipologia d’istituti e per la loro distribuzione geografica (in merito alla quale è evidente l’enorme squilibrio nord-‐sud) rimando direttamente alle prime pagine della relazione della Commissione d'Indagine dedicate all’università.
Guardando ai dati della Tabella 1, si può notare come i numeri della popolazione universitaria nei primissimi anni del dopoguerra fossero stati alterati proprio dal conflitto bellico, durante il quale l’iscrizione all’università consentiva l’esonero dal servizio militare. Dai 246mila studenti del 1946/47 si passa ai 210mila di nove anni dopo, minimo storico dell’età repubblicana, cifre che da sole dovrebbero smentire la tesi dell’affollamento dell’università che, come si è potuto vedere, tanto stava a cuore a numerosi docenti ed esponenti politici dei primi anni cinquanta.
In realtà per tutto quel decennio, l’andamento delle iscrizioni all’università ha seguito l’andamento del mercato del lavoro in una corrispondenza esplicitata dalla dibattuta tesi di Marzio Barbagli nei suoi studi sulla disoccupazione intellettuale, su cui si tornerà più approfonditamente nei prossimi capitoli e nelle conclusioni84.
Almeno per il periodo in esame, è possibile affermare che la corrispondenza rilevata da Barbagli (ad inferiori chance occupazionali corrisponde maggiore propensione all’immatricolazione) sia alquanto corretta: la Tabella 3 evidenzia come il picco del tasso di passaggio (indicato dal rapporto fra gli iscritti all’università e il numero di diplomati delle scuole medie superiori dell’anno scolastico precedente) sia stato raggiunto nel ‘48/’49 (73,7%) mantenendosi poi al di sotto del 50% per tutto il periodo di espansione economica e corrispondente crescita dei livelli occupazionali85.
Una panoramica più generale in merito alle iscrizioni è ricavabile dall’analisi del tasso d’iscrizione, ovvero la percentuale di immatricolazioni rispetto ai giovani d’età compresa fra i diciannove e i venticinque anni: il tetto del 10% fu superato soltanto nell’a.a. 1968/69 (nello specifico per gli uomini tre anni prima, per le donne tre anni dopo, rapporto che si è poi invertito negli ultimi anni con le donne che hanno raggiunto il tasso del 40% nel 2002/03,
83 Relazione sullo stato della pubblica istruzione in Italia e linee direttive del piano di sviluppo pluriennale (ai sensi
della legge 24 luglio 1962, n. 1073), Tipografia del Senato, Roma 1964, p. 41.
84 Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Il Mulino, Bologna 1974, p. 384, “Il tasso di passaggio è infatti molto più alto nei periodi in cui le difficoltà di occupazione sono fortissime (la grande crisi e la ricostruzione) mentre diluiscono nel decennio 51-‐61 in cui si ha un miglioramento della situazione di mercato dei diplomati”.
anche in relazione alle maggiori difficoltà occupazionali, percentuale che per gli uomini rappresenta ancora un tetto da superare) e ciò dimostra l’esiguità dell’accesso all’istruzione superiore86.
Le donne iscritte sono state stabilmente meno della metà degli uomini fino alla metà degli anni ’60 (il sorpasso sarebbe avvenuto solo a cavallo fra ’80 e ’90 e attualmente le donne sono da lustri la maggioranza) e di questo ovviamente c’è poco di che meravigliarsi.
Volgendo lo sguardo alla distribuzione fra le facoltà si nota che la maggiore affluenza si è concentrata nei settori letterario, economico e giuridico, e che una certa stabilità ha contraddistinto anche la popolazione universitaria delle facoltà scientifiche e d’ingegneria (tra il 13% e il 15%), mentre le facoltà mediche conobbero un calo di iscrizioni (in termini relativi) per quasi tutti gli anni sessanta.
Per analizzare l’efficienza del sistema universitario è possibile valutare vari dati, alcuni dei quali (come la percentuale di studenti fuori corso) dipendenti però da variabili esterne all’università. L’indicatore per eccellenza della produttività dell’università è il numero dei laureati annui, se confrontiamo questi dati (Tabella 5 dell’Appendice Statistica) con quelli delle immatricolazioni di cinque o sei anni (Tabella 3), si ricava un’idea della sopravvivenza di chi si iscrive fino al compimento del ciclo di studi. Un simile calcolo è riportato da Luzzato che mostra una crescita abbastanza lieve della produttività così calcolata, dal 51,6% del 47/48 al 54% del 57/58, rapporto persino sceso al 52,8% e al 51,3% nel 63/64 e nel 65/6687. Più
impietoso appare un confronto fra le cifre assolute dei laureati con il numero di abbandoni: a fronte dei 20.606 laureati del 1951 ben 18.098 studenti lasciarono l’università lo stesso anno, diventati più di 22.000 nei due anni seguenti e rimasti oscillanti fra i 18.000 e i 23.000 per tutti gli anni cinquanta (mentre la produzione di laureati rimase stabile intorno alle ventimila unità annue), con un aumento nettissimo di abbandoni nel decennio seguente quando, fra il 1965/66 e il 1966/67, si passò dai quasi 40.000 abbandoni a 55.000, iniziando una fase ascendente che l’aumento delle immatricolazioni avrebbe solo accelerato ma a cui non sarebbe corrisposta la produzione di laureati da parte dell’università italiana. Per quanto riguarda i settori (Tabella 5), tralasciando la costanza del contingente di laureati del gruppo
85 A partire dal 1959 la media annua del tasso di disoccupazione che fino a quel momento era stato superiore al 6% per gli uomini e al 9 per le donne, scese fin sotto il 4 fino al 1963 per i primi e sotto al 6% per le seconde, ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-2010, Roma 2011, p. 474.
86 Secondo le rilevazioni curate da Gozzer, nel 1957-‐58 in Italia frequentavano l’università appena 3.133 individui su un milione di abitanti, dato che vedeva il nostro paese sopra l’Olanda (2.953) e l’Inghilterra (2.000), ma sotto il resto d’Europa, la Francia ad esempio contava 4.749 universitari ogni milione di abitanti. Giovanni Gozzer, L’espansione scolastica, Fratelli Palombi, Roma 1960, tavola XLI.
letterario (rimasto stabilmente intorno al 20% del totale durante gli anni cinquanta), è evidente la perdita di primazia da parte dei settori scientifico e medico a favore di quello giuridico ed economico, il primo reso sempre più appetibile in quanto immediatamente professionalizzante e caratterizzato da sempre da un certo prestigio sociale, il secondo in quanto sbocco obbligato per la gran parte di studenti provenienti dagli istituti tecnici che in numero sempre maggiore affluivano all’università.
L’altra metà della popolazione universitaria sono i docenti, di ogni ordine e grado.
La Tabella 6 riepiloga i numeri ufficiali della docenza negli atenei italiani. La colonna “altro personale insegnante” raggruppa gli assistenti e i liberi docenti i quali, specie i primi, sono sempre stati la colonna portante dell’insegnamento accademico, mentre all’altra estremità del confronto troviamo i professori ordinari e straordinari.
Il dato più interessante, utile per dare chiarezza sui numeri della didattica, è certamente il rapporto studenti/personale insegnante, sceso ai minimi storici sul finire degli anni cinquanta grazie all’effetto combinato del calo d’iscrizioni e degli innesti di personale docente effettuati prima con la l. 1.262 del 1954 (quattrocento nuovi posti di assistente) e poi con le leggi n. 311 e n. 348 del 1958, che istituirono trenta posti di professori ordinari all’anno per tre anni accademici e un totale di 750 posti di assistente. Nel complesso, nel ventennio ‘45/’46 – ‘65/’66 il numero di docenti ordinari e incaricati raddoppiò, ma a crescere enormemente fu il restante corpo docente, vero antidoto all’enorme crescita della popolazione studentesca e unico motivo per cui il rapporto studenti/docenti ritornò ai livelli del primissimo dopoguerra soltanto all’inizio degli anni ’80. E’ utile rivolgere un rapido sguardo anche alle differenze fra le varie facoltà in merito a questo rapporto, prendendo in esame un anno accademico specifico del periodo (ad esempio il 1960/61) si vedrà che il peggior rapporto è nella facoltà di economia (107,3) unico sbocco universitario consentito fino al 1961 per i diplomati degli istituti tecnici commerciali, seguita da giurisprudenza dove l’elevato numero di docenti non è mai stato adeguato all’enorme afflusso di iscrizioni (83,4); di contro il migliore rapporto studenti/docenti delle facoltà scientifiche e d’ingegneria non è dato semplicemente, come si potrebbe credere, da un afflusso più ridotto ma dalla presenza di un numeroso corpo docente (nel 1960 nelle facoltà di s.m.f.n. il rapporto era di 1/27,5, ad ingegneria di 1/29,3)88.
L’analisi e il commento delle statistiche universitarie non si esaurisce certo qui. Le tabelle e i dati raccolti saranno oggetto di riferimenti più precisi paragrafo dopo paragrafo, e serviranno anche a comparare i contenuti dei dibattiti con i dati concreti.
Quanto illustrato fin’ora è quindi un semplice quadro introduttivo, prima di entrare nel merito del dibattito apertosi sulle tematiche universitarie dalla fine degli anni cinquanta, quando le discussioni parlamentari sui bilanci del Ministero che lentamente uscirono dai tecnicismi degli addetti ai lavori per diventare le scadenze annuali del confronto parlamentare, insieme con i posizionamenti in merito alla pianificazione scolastica, con l’affermarsi della tematica universitaria nei discorsi pubblici sull’istruzione, grazie anche al proliferare di pubblicazioni di vario tipo (saggistica, inchieste, riviste specializzate) che costituì il retroterra su cui poi la questione universitaria assunse centralità nel corso degli anni ’60.
1.3.1 - Gli accessi all’università
Ritornando all’analisi delle tematiche universitarie, ripartiamo da quella più scottante del periodo, su cui maggiormente si espressero personaggi pubblici, docenti e politici: l’affollamento vero o presunto degli atenei, le forme di accesso alle facoltà e quindi la natura e la legittimità di meccanismi di sbarramento e selezione, in base agli studi di provenienza piuttosto che tramite forme di “numerus clausus”, come veniva chiamato nei discorsi dell’epoca.
Si è già avuto modo di vedere come la tesi dell’affollamento dell’università fosse ampiamente condivisa in modo trasversale.
Il punto di vista era quello che si evince dalle dichiarazioni del Ministro dell’istruzione liberale Gaetano Martino: “Il numero dei giovani che entrano attualmente nelle nostre università è, in ogni modo, superiore a quello che dovrebbe essere in relazione al reddito e alla popolazione totale della nazione. Nulla più di questo rapporto comparativo è atto a confermare che veramente le nostre Università sono superaffollate. Quid agendum? Che cosa bisogna fare per contenere e ridurre questo fenomeno? Il numerus clausus non è un rimedio né possibile né efficace nelle nostre condizioni”89.
89 “Il rapporto tra la popolazione studentesca universitaria e la popolazione totale è in Italia: 0.46%. Esso supera il rapporto che esiste negli altri paesi europei. Detto rapporto è in Belgio 0,23%, in Francia 0,33%, In Germania occidentale 0,21%, in Norvegia 0,23%, in Olanda 0,20%, in Inghilterra 0,22%, in Svezia 0,24%, in Svizzera 0,25%. Fuori dall’Europa è superiore solo in Canada ove raggiunge 0,50% e negli Stati Uniti d’America ove raggiunge 1,43%. Ma bisogna considerare che in questi due paesi il calcolo ha compreso anche la popolazione dei colleges. La comparazione va integrata con l’osservazione relativa al reddito. Tra i Paesi confrontati quello che ha il reddito più basso è proprio l’Italia, cioè il paese in cui è maggiore l’afflusso dei giovani verso le professioni liberali il cui esercizio presuppone il più alto reddito”. AP, II Legislatura, Camera dei Deputati, Discussioni, seduta del 13 luglio 1954, p. 10631.
Questo intervento in Parlamento dell’allora ministro liberale Gaetano Martino, ripreso anche dalla rivista ufficiale del’associazione dei professori di ruolo, il “Giornale dell’Università”, rappresenta bene il punto di vista dominante di quegli anni sul tema dell’accesso ai più alti livelli d’istruzione. La prospettiva era diametralmente opposta a quella che avrebbe dominato la scena soltanto cinque anni dopo: una ricchezza complessiva del paese inferiore a quella degli altri stati occidentali unita a un reddito pro capite ancora stagnante, piuttosto che stimolare politiche d’investimento complessive (e quindi anche sull’istruzione), imponevano un ridimensionamento della popolazione universitaria.
Il confronto fra questo punto di vista e quello che sarebbe stato egemone pochi anni dopo (le previsioni di uno sviluppo economico dirompente e duraturo che avrebbero reso necessari immensi piani d’investimento anche nell’istruzione) è forse la sintesi più efficace dell’evoluzione del pensiero sull’università in Italia a cavallo fra i difficili anni del dopoguerra e la vigilia del boom economico.
Come si vedrà nel prossimo capitolo, l’istruzione, e in particolar modo quella universitaria, fu infatti lo specchio del mutato clima che si sarebbe respirato fra la classe dirigente del paese dai primi anni sessanta. Ancora negli anni ’50 la classe politica faticava a immaginare un riassorbimento della disoccupazione di cui fosse strumento principale l’istruzione, ad ogni suo livello.
Emblematico il punto di vista delle sinistre per cui la lotta alla disoccupazione nei difficili anni immediatamente successivi alla guerra era la priorità ma ciò implicava limitare l’accesso ai più altri gradi di istruzione: non bisognava alimentare speranze e disillusioni in una contesto economico in cui, secondo il deputato comunista Sciorilli Borelli, tanta era la penuria di posti di lavoro adeguati agli studi compiuti, che moltissimi giovani maestri chiedevano “insistentemente di poter essere occupati in lavori manuali nella costruzione delle centrali idroelettriche del Sangro e presso altre imprese di costruzioni”90.
In realtà, esaminando i dati occupazionali di diplomati e laureati nel 1951 (quindi qualche anno prima che gli effetti dell’espansione economica si facessero sentire nel mercato del lavoro), i laureati in cerca di prima occupazione erano 23.330, il 6,28% del totale della popolazione in età lavorativa (percentuale che era del 9,54% al sud Italia e del 4,53% al nord,
con cifre triplicate se riferite alle donne rispetto agli uomini). I numeri insomma non erano così catastrofici91.
Alla fine degli anni ’50 la linea dei comunisti in merito agli accessi all’università mutò radicalmente ma è interessante sottolineare come già nel ’51 ci fosse chi, nonostante la rigidità della tesi dell’affollamento universitario, rilevasse una certa incompatibilità tra le istanze democratizzanti del Partito nei vari settori della società e l’auspicio della riduzione delle immatricolazioni: “Uno dei fenomeni più lamentati, per esempio, è quello del numero, che si conclama eccessivo degli studenti, anche se ogni anno è rilevante perché non possono economicamente sostenerli più oltre. Ma il fenomeno della accresciuta affluenza all’università non può essere considerato in sé un male. […] E noi non potremo mai persuaderci, che l’accresciuto desiderio di elevazione delle masse italiane sia da considerarsi un male contro il quale si debbano escogitare rimedi e provvedimenti”92.
Ancor prima delle pubblicazioni Svimez quindi, emergeva lentamente l’inadeguatezza dei numeri universitari di fronte alle sfide economiche e sociali del tempo.
In uno dei primissimi articoli93dedicati specificamente all’università apparsi su “Rinascita”, il
senatore comunista Gianfranco Ferretti denunciò l’insufficienza di studenti italiani citando i dati dell’OECE e proponendo in Senato, pochi mesi dopo, sdoppiamenti di corsi e cattedre pur di evitare limitazioni formali alle iscrizioni94.
L’ufficialità del cambio di linea dei comunisti è del febbraio 1958: all’interno della “Proposta di un piano generale per la riforma della scuola” (da contrapporre a quello governativo che sarà analizzato più avanti) si affermava che “dev’essere chiaro che neppure nel settore della scuola secondaria e universitaria si può parlare di una crisi di sovraffollamento, bensì di un fenomeno triste di stagnazione strutturale e di sclerosi del personale studentesco, e quindi dirigente, della nazione”95.
91 Dati ripresi da ISTAT, IX censimento generale della popolazione, Vol. V: Istruzione, Roma 1957. L’importanza di questo censimento è data dal fatto che è il primo in cui si rilevarono informazioni sulla composizione della popolazione per livello d’istruzione.
92 Ranuccio Bianchi Bandinelli, Il nostro lavoro nella scuola, in “Rinascita” n. 4 1951, ripreso in Giovannini, op. cit., p. 57.
93 “In Italia, nel ‘50, gli studenti rappresentavano lo 0,30% circa della popolazione, mentre in Francia lo 0,31 in Finlandia lo 0,34 in Svezia lo 0,24. In altri paesi extraeuropei il rapporto è ancora maggiore: 0,59 in Giappone, 0,66 in Canada, 0,74 in Argentina, 1,43 negli Usa (dati Oece). Si consideri anche che in Italia solo il 4% circa dei giovani tra i 18 e i 24 anni frequentano l’Università mentre gli esperti americani affermano che il 32% dei giovani dovrebbero essere avviati agli studi di livello universitario.” Gianfranco Ferretti, La crisi delle Università, in “Rinascita” n .9 1958.
94 AP, II legislatura, Senato della Repubblica, seduta del 12 novembre 1959, p. 9174. Intervento ripreso in Gianfranco Ferretti, L’università di Roma e l’università cattolica, in “Rinascita” n. 7-‐8 1960.
95 Sezione cultura del Pci, Proposta di un piano generale per la riforma della scuola, documento allegato alla circolare del 4 febbraio 1958 di convocazione della riunione nazionale sui problemi della scuola del 9-‐10
Non è mia intenzione accomunare le precedenti posizioni di chiusura sull’argomento da parte dei comunisti con quelle prettamente conservatrici di parte del ceto accademico o della formazione democristiana della prima metà degli anni cinquanta: se per alcuni rappresentanti del mondo politico e accademico si trattava di una preoccupazione concreta sulla capacità di accoglimento delle strutture universitarie, unita all’analisi del mercato del lavoro cui si è fatto riferimento, altre posizioni erano invece ancorate alla visione organica della società ben riassunta da questo intervento di Gonella del 1959, in piena continuità con lo spirito della riforma Gentile del 1923: “le nostre scuole sono organiche, il nostro ordinamento ha questa caratteristica: ci sono scuole che preparano all’Università, e ci sono Scuole che invece sono concepite come fine a se stesse nell’ambito dell’ordine secondario. Noi non possiamo perdere di vista questa distinzione, ammettendo tutti all’Università dopo il conseguimento di qualsiasi