Pianificazione e riforma (1959-1969)
2.4 Il primo tentativo di riforma: la “2314”
Con la luce dei riflettori oramai stabilmente puntata sull’università e sulle relative proposte legislative, il 4 maggio 1965 il ministro Gui presentava alla Camera il disegno di legge n. 2314 con un titolo che da solo simboleggiava la cautela e il ridimensionamento delle istanze riformatrici, Modifiche all’ordinamento universitario.
Dal giorno passò all’esame della VI Commissione permanente della Camera che lo esaminò per due anni in sole trenta sedute, mentre sedici furono della Camera che lo discussero prima che la fine della legislatura imponesse altri ordini del giorno, dal 5 dicembre 1967 al 18 febbraio 1968.
In questo arco temporale la vita degli atenei cambiò radicalmente entrando in una fase inedita e intensa come nessun altra: occupazioni, mobilitazioni permanenti, dibattiti accessi divennero una costante in una dinamica che vide il suo picco persino dopo la caduta stessa della proposta Gui. Gli atenei si politicizzarono enormemente, uscendo dal tradizionale isolamento dell’università liberale aristocratica e diventando specchio delle contraddizioni e contrapposizioni che attraversavano il paese: il momento più emblematico da questo punto di vista è certamente rappresentato dall’assassinio alla Sapienza di Roma dello studente socialista Paolo Rossi, caduto dal ballatoio della Facoltà di lettere durante gli scontri provocati dai militanti del Movimento Sociale in occasione delle elezioni studentesche del 1966. L’ondata di occupazioni che seguì cambiò radicalmente i connotati della protesta studentesca, che da quel momento in poi si sarebbe politicizzata in termini globali come mai nella storia d’Italia, scavalcando il ruolo delle associazioni di categoria, specie studentesche (l’UNURI si sarebbe sciolta senza clamore nel 1968) che non sarebbero infatti sopravvissute al decennio “dell’azione collettiva”.
Tornando alla proposta di legge Gui, per tutti “la 2314”, c’è subito da dire che l’esame della Commissione fu incentrato su due proposte di riforma complessiva, quella governativa e il disegno di legge n. 2.650 a firma dei deputati comunisti, fra cui Berlinguer, Rossanda, Banfi, Natta e altri, presentata l’8 ottobre 1965.
Partiamo dalla presentazione del progetto in aula da parte del ministro Gui e dal testo originario della proposta326, definita come l’intervento qualitativo di un piano innovatore che
aveva nei precedenti (o successivi ma già annunciati) provvedimenti su assistenza, edilizia, incrementi di personale, creazione di nuove figure di docenti, la sua componente quantitativa, oltre che ovviamente il piano quinquennale per lo sviluppo dell’istruzione e la parte della generale programmazione economica del paese dedicata al comparto formativo.
Punto centrale era rappresentato dai tre livelli formativi indicati all’articolo 3 (corsi di diploma, corsi di laurea e corsi di dottorato): il primo per formare la ormai celebre figura dei tecnici superiori e quadri intermedi con una preparazione “impartita dalle università, o sotto il controllo dell’università” e che sarebbe stata definita non dal Parlamento o dagli organi rappresentativi degli atenei a livello nazionale (il previsto CUN) ma da leggi delega del governo; il secondo che si “caratterizza per entrambe le componenti, quella scientifica e quella professionale” e il terzo “privo di ogni riferimento a finalità professionali”. L’orizzonte (definito dall’art. 1 e dall’art. 4) era ancora quello di delegare il più possibile il primo livello a istituti esterni alle università che dovevano essere dotati di personalità giuridica autonoma. La proposta dei dipartimenti era definitivamente confinata agli ambiti della ricerca, individuando in questi nuovi organismi le sedi dei corsi del dottorato di ricerca: in realtà permaneva un elemento non chiaro, visto che sia i dipartimenti che gli istituti scientifici avrebbero dovuto coordinare più insegnamenti e più cattedre ma non erano specificate le differenze fra questi due diversi livelli di nuovo coordinamento e cooperazione interna alle facoltà. Viste le resistenze a simili innovazioni strutturali, Gui si vide costretto a renderne l’applicazione facoltativa, elencando gli elementi “d’incoraggiamento” alla loro istituzione: al dipartimento sarebbe stata conferita la gestione di strutture di ricerca e biblioteche, sarebbero stati condizione essenziale per la creazione dei corsi di dottorato e, cosa sicuramente più rilevante, i dipartimenti avrebbero ricevuto quote di finanziamenti ordinari diretti dal ministero che avrebbero potuto amministrare in autonomia.
Com’era prevedibile gli allargamenti della rappresentanza dentro gli organi d’ateneo non erano certamente la parte più innovativa: assistenti e studenti dentro il c.d.a. avrebbero avuto solo poteri consultivi, per i consigli di facoltà era esclusa la presenza studentesca da esplicarsi
Bilancio di legislatura (1963-1968), Roma 1968, p. 194.
326 AP, IV Legislatura, Camera dei Deputati, Documenti, Disegno di legge n. 2.314, presentato dal ministro della pubblica istruzione Luigi Gui di concerto col ministro del tesoro Emilio Colombo, Modifiche all’ordinamento
invece in appositi comitati consultivi paralleli con facoltà di esprimere pareri sull’organizzazione didattica e i piani di studio.
Il capitolo riguardante lo status giuridico del personale insegnante ha un’oggettiva rilevanza visto il fuoco incrociato cui sarebbe stato sottoposto: già dalla Relazione si percepisce un misto di cautela e scarse speranze di trovare consensi intorno al tema del rispetto dei doveri accademici e della definizione del rapporto fra attività professionali esterne e interne agli atenei, con Gui a dichiarare che “più che adottare misure che per la loro rigidità sarebbero probabilmente riuscite dannose all’insegnamento e al progresso scientifico, quale ad esempio il divieto assoluto di esercitare una libera professione, si propongono norme che mirano a scoraggiare le attività non strettamente universitarie e a riaffermare la disciplina, nella convinzione che, una volta raggiuntosi questo risultato, verrà a mancare il principale fondamento del problema”327. L’incoraggiamento era costituito dal premio d’operosità per i
docenti non iscritti agli albi professionali che dedicassero con buoni risultati tutto il loro tempo al lavoro accademico ma il resto delle prescrizioni, contenute nei famigerati artt. 21 e 23, finirono ben presto nell’occhio del ciclone: non solo le proposte del diario delle lezioni, del monte ore da dedicare a didattica, seminari o ricerca, ma soprattutto i poteri di vigilanza conferiti (e questo fu davvero inspiegabile) al c.d.a., furono oggetto di aspre critiche che però non risolsero la questione, visto che il successivo testo approvato dalla VIII Commissione della Camera rafforzò questi elementi.
La definizione degli ordinamenti di lauree e diplomi era demandata agli statuti degli atenei e si ribadiva la principale preoccupazione dei propugnatori dei corsi di diploma, cioè che essi fossero la valvola di sfogo delle eccedenze dei corsi di laurea: “queste due indicazioni [le modalità con cui si può passare da un livello all’altro] rispondono, l’una, a giusti criteri di liberalizzazione degli accessi ai corsi di laurea; l’altra, ad esigenze di orientamento dei giovani che desiderino intraprendere studi più consoni alle loro attitudini, in relazione anche agli sbarramenti previsti dopo il primo biennio”328.
Altro elemento oggetto di future polemiche (da parte liberale) era in realtà un intervento di buon senso, e cioè il rendere alcune lauree (lingue straniere, matematica e scienze, italiano latino, storia, geografia) direttamente abilitanti alla professione d’insegnante con insegnamenti specifici e tirocini negli ultimi anni di studi.
Un ultimo provvedimento importante era quello relativo all’istituzione del Consiglio Nazionale Universitario, che avrebbe sostituito la prima sezione del Consiglio Superiore della
Pubblica Istruzione in quanto organo di rappresentanza e coordinamento nazionale dei vari atenei nel loro rapporto con il potere esecutivo; la critica delle opposizioni si sarebbe concentrata sul fatto che il testo iniziale demandava la definizione della composizione e delle funzioni, nonché la sua stessa istituzione, all’ennesimo provvedimento delegato del governo. Per comprendere fino in fondo lo stato d’animo e la strategia di Gui in questa fase è bene volgere lo sguardo ad un suo intervento, non a caso intitolato “le ragioni di un progetto di legge”, nel corso di un convegno fondamentale per la costruzione del consenso intorno al progetto, quello del Comitato cattolico docenti universitari, “L’università oggi”, del maggio ’65 a poche settimane dalla presentazione del d.l.
Davanti a una platea che il ministro sperava amica, si scagliò con durezza contro sciopero e mobilitazioni, arrivando a sostenere l’antidemocraticità di proteste durante i lavori del Parlamento (viene da chiedersi se il ministro ritenesse legittime le proteste solo a leggi approvate)329.
Per rispondere alle critiche circa gli scarsi passi avanti compiuti in direzione di una maggiore autonomia dei singoli atenei e del sistema universitario in generale, Gui alludeva a quello che sarebbe stato un elemento ricorrente del suo pensiero e cioè l’impossibilità di immettere elementi autonomistici ispirati al modello anglosassone in un sistema universitario di natura napoleonica e quindi centralistica, in cui lo Stato oltre a finanziare quasi interamente, garantisce giuridicamente per il valore dei titoli che le università rilasciano su tutto il territorio nazionale, avendo così l’obbligo di mantenere una rigida omogeneità fra contenuti degli insegnamenti e natura dei corsi di ciascun ateneo330.
328 Ivi, p. 147.
329 “Non mi trovo consenziente con manifestazioni di sciopero. Si invoca tanto la democrazia, ma canone fondamentale della democrazia è il rispetto del Parlamento. Uno sciopero indetto quando un disegno di legge è presentato in Parlamento è un atto antidemocratico: è una pressione nei confronti del Parlamento di natura antidemocratica”. Luigi Gui, Le ragioni di un disegno di legge, in Comitato di studio dei problemi dell’università italiana, L’università Oggi, atti del convegno di studi sui problemi dell’università italiana, 22-23 maggio 1965, Il Mulino, Bologna 1965, p. 216.
330 “Voglio dire in concreto che le Università italiane sono dello Stato e promosse dallo Stato. Voglio alludere al fatto che lo Stato garantisce i titoli delle Università italiane al fine dell’esercizio di determinate professioni. L’ordinamento statalistico di derivazione napoleonica della società italiana è un quadro dentro il quale l’Università, anche in quello che si vuol cambiare, non può non inserirsi. […] Vera autonomia comporta vera responsabilità. In ordinamenti anglosassoni c’è un’autonomia larghissima perché chi la esercita sconta direttamente in solido le conseguenze dei propri atti: il valore del titolo, poniamo, non è garantito dallo Stato, è soltanto valutato dalla società […] Nel nostro ordinamento, così fatto –in cui lo stato non solo finanzia l’Università, che sarebbe forse l’aspetto meno rilevante, ma in cui automaticamente garantisce il titolo-‐ come si può pensare ad un’autonomia assoluta, ad un distacco assoluto dall’organismo universitario dalla società nazionale?”, ivi, pp. 219 e 223.
Anche il ridimensionamento delle funzioni del dipartimento era difeso dal ministro, che in fin dei conti faceva capire come non fosse all’ordine del giorno un ribaltamento dei rapporti che avevano dominato da sempre l’accademia, a cominciare dalla primazia della cattedra331.
Per una volta, Gui trovò in quell’occasione una platea amica che sui temi del necessario equilibrio fra potere centrale e potere locale in favore del primo, della limitazione della rappresentanza dei non docenti di ruolo e dei rapporti da rafforzare fra università e mondo economico, riprendeva e scavalcava in determinazione le posizioni del ministro.
Il relatore al convegno sul tema dell’autonomia, Luigi Amirante, ribadiva il principio che ai finanziamenti statali crescenti e inediti degli ultimi anni era logico fa corrispondere un’ampia competenza del potere centrale sulla definizione degli ordinamenti didattici, affermando che “in un’università in fase di sviluppo come quella italiana, che ha più che mai bisogno di una programmazione organica, alcune decisioni devono necessariamente essere prese ad un livello che non è più quello della singola sede universitaria o della singola Facoltà, ma è il livello nazionale. Importa perciò assicurare a quel livello la presenza o almeno la voce delle singole sedi universitarie”332.
Sia Luigi Amirante che Giulio Guderzo si scagliarono poi contro l’idea di un allargamento delle responsabilità decisionali dentro atenei e facoltà, manifestando una resistenza conservativa superiore a quella della stessa ANPUR. Se per il primo infatti non sembrava che si potesse neanche discutere il principio per cui “il governo delle università debba essere sostanzialmente affidato ai professori di ruolo”, il secondo attaccava la logica stessa delle istanze portate avanti dagli studenti e dall’opposizione comunista in merito: “E’ senz’altro errata, e va confutata, l’opinione di chi applica all’istituzione di cui ci occupiamo, l’Università, criteri di rappresentatività politica che le sono naturalmente estranei. Chi dice che l’Università è istituzione fondamentalmente aristocratica non sbaglia. Qui chi più sa più ha diritto di comandare. E’ stupida, non che eversiva, l’impresa di chi vuole imporvisi sulla pura base del numero”333.
L’ampio spazio dato a questo convegno è dovuto alla sua peculiarità: non sarebbe capitato tante altre volte un momento pubblico “consensuale” al piano Gui e non è un caso che si sia verificato a brevissima distanza dalla presentazione del d.l. n. 2.314. Di lì a poco la polemica si
331 “Non ritengo che si possa pervenire a farne [il dipartimento] l’elemento fondamentale della vita dell’Università, perché, pur con tutta la lotta all’individualismo, credo che non si possa trasferire la responsabilità personale del professore nella scelta del suo insegnamento, nella condotta dell’insegnamento, alla volontà di una maggioranza che si verifichi nel dipartimento. […] La responsabilità nell’insegnamento, in via fondamentale, deve pur sempre rimanere al professore, cioè alla cattedra”, ivi, p. 226.
sarebbe accesa e la discussione pubblica su queste tematiche si sarebbe enormemente politicizzata, anche grazie al ruolo nuovo, molto più attivo e propositivo del passato, dimostrato dai comunisti, che si andava a sostituire a quello rivestito dai socialisti negli anni delle battaglie sulla laicità dell’istruzione.
Proprio sul ruolo del PCI è adesso necessario soffermarsi. Il disegno di legge n. 2.650 e la annessa relazione introduttiva se da un lato offrono un contributo intelligente e ragionato su alcuni punti oggettivamente contraddittori del dibattito del momento (su tutti quello sul personale docente) dall’altro presentano anch’esse alcune contraddizioni e limiti oggettivi, fra cui quello di ispirarsi al modello anglosassone mischiandolo con elementi d’analisi e proposte d’intervento che rispondevano alle istanze sociali più radicali, e di per sé quindi difficilmente compatibili con il quadro tradizionale dell’università italiana ma anche con una stessa parte del modello cui si ispira la proposta.
Nell’analisi del problema dello status e dell’atteggiamento della classe docente, la relazione coglie a mio avviso subito il punto individuando nella natura storica dell’università italiana una matrice individualistica e oligarchica, naturalmente portata a resistere alle influenze della classe dirigente, qualsiasi essa sia: la logica conseguenza è che questa resistenza non può che assumere “forme aristocratiche e corporative” cui la proposta Gui intendeva rispondere con uno sbagliato spirito punitivo “atteggiandosi nei confronti dei professori di ruolo a censore, con piglio severamente punitivo, per concludere che l’autonomia accademica ha avuto conseguenze negative, e deve essere corretta e limitata”334.
Il giudizio complessivo sul progetto “2314”, approfondito poi dalla relazione di minoranza di Rossana Rossanda, era netto: si trattava dell’adeguamento delle strutture universitarie alle esigenze del capitalismo italiano industriale, i cui dirigenti conducevano da anni un’opera di pressione e influenza su governo e opinione pubblica per affermare la necessità di un certo tipo di riforma. Da ciò derivava, a parere del PCI, una precisa idea di formazione professionale (il cui strumento erano diplomi e istituti) scissa dalla necessaria base scientifica e culturale e di per sé dispregiativa come immaginario cui rimandava e qualità formativa effettivamente dispiegata: verso questa formazione così concepita si voleva far convergere la massa di studenti restituendo così agli atenei il loro naturale profilo oligarchico.
Un punto debole della critica comunista si sarebbe rivelato la costante critica alla scarsezza di finanziamenti che, come si vedrà più avanti, non avrebbe retto alla prova dei fatti visto che
333 Giulio Guderzo, Prospettive di democrazia nel mondo universitario italiano, ivi, p. 175.
334 AP, IV Legislatura, Camera dei Deputati, proposta di legge n. 2.650 d’iniziativa dei deputati Berlinguer, Rossanda, Ingrao, Natta, Seroni e altri, Riforma dell’ordinamento universitario, p. 2 e 5.
con il piano quinquennale approvato nel ’66 e la legge sull’edilizia universitaria questi furono gli ultimi anni di incrementi massicci dei finanziamenti e gli ultimi grandi investimenti statali, se si escludono le spese per le immissioni di personale del decennio seguente.
Anche la sbandierata concretezza e realismo della proposta comunista si sarebbe rivelato un facile argomento retorico per i loro avversari visto che di applicabile nell’immediato il progetto aveva bene poco, come effettivamente in alcuni passaggi arrivarono pure ad ammettere gli stessi esponenti comunisti.
Uno dei principi fondanti del d.l. n. 2.650 era il rafforzamento del concetto di valore sociale degli studi compiuti, portato all’idea che lo studio universitario era da assimilare in tutto e per tutto a un lavoro di cui beneficia l’intera comunità, con le relative “conseguenze salariali” per una generazione di studenti-‐lavoratori, che dovevano potere studiare a spese della collettività. Da questo ne derivavano una serie di proposte sul diritto allo studio (il Capo II) di potenziamento dell’assistenza indiretta (con i molteplici riferimenti al modello dei college anglosassoni funzionali a costruire quella comunità totalizzante di docenti e discenti che i comunisti propugnavano), di estensione completa dell’assegno di studio e di esenzione totale di tutti gli studenti dal pagamento delle tasse, il tutto in un contesto di atenei completamente liberalizzati negli accessi, senza distinzioni per scuole di provenienza ma soprattutto aperti anche a chiunque anche senza un titolo di studio medio superiore ma che avesse compiuto 21 anni e superato una prova. Lo iato fra l’idealità di queste proposte e il loro essere inserite in un concreto progetto di legge è la principale contraddizione della proposta comunista, che rimandava per l’attuazione di una simile politica di diritto allo studio a una legge apposita sulla base di queste “indicazioni generali”335.
Per quanto riguardava i temi prettamente didattici il principio ispiratore era quello di “consolidare l’unità fra cultura e professione, tenendo vivo il rapporto fra umanesimo scientifico e tecnicismo pratico, e ponendo alla base della preparazione professionale la metodologia propria della scienza nella sua più corretta applicazione”336.
Ne conseguiva una diversa e maggiore dignità da conferire ai corsi di diploma contemplati come ipotesi necessaria a causa dello sviluppo delle forze produttive: dovevano unire metodi
335 L’articolo 79 rimandava a migliore definizione, tramite l’elaborazione di un piano di sviluppo per l’istruzione e università, una serie di articoli che rappresentavano però le proposte più innovative della legge, svuotandola così di tanta concretezza: l’art. 6 sulla completa gratuità degli studi universitari , l’art. 8 sull’assegno di studio universitario che sembra essere destinato a tutti gli studenti, l’art. 15 sui finanziamenti diretti ai dipartimenti, l’art. 23 sul numero minimo di corsi (due) per ogni facoltà, il secondo comma dell’art. 32 relativo alla distribuzione degli atenei e alle norme e criteri per istituirne di nuovi, l’art. 63 sui numeri del corpo docente (non più di venti alunni a professore), l’ultimo comma dell’art. 66 sui passaggi agli anni successivi e le barriere interne ai corsi, l’art. 77 sul finanziamento ordinario. Ivi.
pratici applicativi con quelli scientifici e, ovviamente, dovevano essere ampiamente comunicanti con i corsi di laurea.
Per quanto riguardava il capitolo dell’autonomia, il disegno comunista la prefigurava molto ampia, con una cornice comune minima di fondamenti della preparazione professionale e scientifica che demandava alle facoltà il compito di articolare piani di studio e ordinamenti che avrebbero comunque dovuto lasciare pure ai singoli studenti i loro ampi margini di decisione da realizzarsi di concerto con il corpo docente, all’interno di un sistema didattico di stampo comunitario che tenesse docenti e alunni a stretto contatto per tutta la settimana tramite attività seminariali e di gruppo che superassero la rigidità della lezione cattedratica. Ovviamente un simile progetto implicava il pieno impiego per docenti nell’idea stessa di un full time che riguardasse tutti, dai professori agli studenti.
Il centro di questa attività didattica era, anche per i comunisti, il dipartimento, organismo obbligatorio cui i docenti dovevano aggregarsi e in cui erano suddivise le facoltà, che a loro volta avrebbero dovuto definire e coordinare i piani di studio e gli insegnamenti dei dipartimenti. Ovviamente si prevedeva che essi fossero autonomi nel gestire i fondi erogati direttamente dal ministero.
Sul reclutamento dei docenti la proposta comunista era di certo unica ma realizzabile e offriva