Pianificazione e riforma (1959-1969)
2.1 Pianificare e investire nell’istruzione: i piani di sviluppo della scuola
Per analizzare le politiche scolastiche, e quelle riguardanti l’istruzione superiore, dei primi anni ‘60, è necessario allargare brevemente l’orizzonte dell’analisi e descrivere il quadro politico in cui si sono sviluppate. La complessità dello scenario politico e sociale è dovuta alla nascita dei governi di centrosinistra e dall’avvicendarsi di numerosi governi in uno dei decenni più turbolenti e densi di cambiamenti sociali dell’intera storia dell’Italia repubblicana. Per orientarci, seguiamo i passaggi più significativi dei principali protagonisti politici, la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista.
Dopo le manifeste debolezze dei governi centristi (DC, PRI e PSDI con il sostegno esterno a fasi alterne delle destra formata da monarchici, liberali e missini) durante la seconda metà degli anni cinquanta, e dopo lo stallo elettorale testimoniato dalle elezioni del 1958, i presupposti per nuovi scenari politici erano tutti in campo.
Da parte democristiana, proprio le elezioni di quell’anno avevano rappresentato il tentativo di “sfondare a sinistra” proponendo un programma elettorale di stampo decisamente interventista dal punto di vista economico in cui, fra gli altri temi, tutto il II capo era dedicato all’istruzione con riferimenti, ancora vaghi ma significativi, alla necessità di “riordinare con messi sufficienti l’università per adempiere pienamente alle sue funzioni”175.
Ne seguì un accordo di governo con i social-‐democratici in cui il settimo punto esponeva il progetto di “piano pluriennale per lo sviluppo della scuola statale e la generalizzazione dell’istruzione superiore”, mentre il punto seguente riguardava i progetti di incremento dei fondi alle università per la ricerca scientifica176.
Con Moro eletto segretario della DC al settimo congresso del partito (ottobre ’59) in realtà lo stallo politico continuò e vide nella tragica esperienza del governo Tambroni la sua
175 Damilano, op. cit., p. 931. 176 Ivi, pp. 946-‐947.
conclusione. Il governo ad interim che seguì (Fanfani) inaugurò il biennio di preparazione ufficiale del centrosinistra, sperimentato in quel periodo nelle amministrazioni locali in una fase globale in cui anche i referenti della Democrazia Cristiana, gli Stati Uniti di Kennedy da un lato e la Chiesa di Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II (principali sostenitori della strategia dei governi monocolore democristiani fino a quel momento) stavano avviando riflessioni profonde sul modo di rispondere alle sfide della modernità e del confronto con il comunismo reale177.
La Democrazia Cristiana optò ufficialmente per la costruzione di un governo con l’appoggio dei socialisti dal congresso di Napoli del gennaio 1962, dove con una celebre lunghissima relazione Moro riuscì a tranquillizzare i più preoccupati e incoraggiare i più entusiasti dell’incontro con il Psi.
Da parte socialista, che l’orizzonte fosse quello dell’incontro con i cattolici era un elemento dichiarato da Nenni almeno dal 1954178, rafforzato enormemente dagli effetti in Italia del
1956 sovietico (il XX congresso con la pubblicazione da parte di Chruschev dei crimini di Stalin e l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Armata Rossa) che di fatto segnarono la fine dell’alleanza fra comunisti e socialisti. Il XXXI congresso del partito nel 1955 sancì ufficialmente i primi segnali di apertura in tal senso, rafforzati dalla “svolta autonomistica” (dal PCI) definita dal congresso di Venezia del 1957, rafforzata da quello di Napoli del ’59 e ufficializzata al 34° congresso di Milano nel 1961 in cui la corrente autonomista “prevalse con una mozione a favore dell’incontro con i lavoratori cattolici, garantendo l’appoggio esterno ad una maggioranza impegnata su un programma di svolta a sinistra”179.
Il 10 marzo 1962, con l’astensione dei parlamentari socialisti, nasceva il primo governo di centro-‐sinistra guidato da Amintore Fanfani; il vero e proprio ingresso dei socialisti nel governo si verificò solo con l’inizio della quarta legislatura e del primo governo Moro nel dicembre ‘63 e per i socialisti significò la seconda scissione in vent’anni, con la nascita del PSIUP e l’uscita di 38 fra deputati e senatori oltre che del 20% degli iscritti.
177 Nel giugno 1961 Fanfani andò negli USA per incontrare in proposito con il presidente Kennedy, mentre l’enciclica “Mater et Magistra” di Giovanni XXIII fu letta come un avallo ad una nuova politica di redistribuzione dei redditi e di intervento pubblico nell’economia, impostazione poi confermata dai lavori del Concilio Vaticano II.
178 “Nenni trovava nell’interventismo statale di Ezio Vanoni, nel concretismo ora riconosciuto a Fanfani, nelle aperture sociali di Colombo e di Gui, e infine nel proporzionalismo di Gronchi e dei suoi amici i segni di un’evoluzione al termine della quale ci sarebbe stato l’incontro con i socialisti: L’incontro con noi è scritto nelle cose, affermò in maniera risoluta in un articolo sull’Avanti! del 4 luglio 1954”. Ciufoletti, Degl’Innocenti, Sabbatucci, Storia del Psi. 3 Dal Dopoguerra ad oggi, Laterza, Bari 1993, p. 193.
Nel corso delle lunghe trattative che precedettero e seguirono la primavera ’62, tre riforme erano emerse come quelle determinanti per le sorti dell’alleanza fra socialisti e democristiani: la nazionalizzazione dell’ENEL, la scuola media unica e l’istituzione delle regioni. Se per quest’ultima si sarebbe dovuto aspettare per altri otto anni, le prime due furono da subito al centro dell’attenzione politica e dell’opinione pubblica, inserite a pieno titolo nella globale strategia di interventismo statale e pianificazione centrale di cui entrambi i partiti avevano discusso in quegli anni e che faceva da sfondo alle discussioni su ogni singolo intervento legislativo.
La politica di piano, specie nell’accezione che il gruppo dirigente democristiano le attribuiva, era parte integrante di una strategia di gestione del potere politico che aveva il suo centro nell’interventismo e nel controllo degli enti pubblici, connesso a un’espansione stessa del settore pubblico in ogni ramo dell’economia. La politica dei finanziamenti a pioggia rappresentata dalla Cassa per il Mezzogiorno, il rafforzamento dell’Iri dal ’57 in poi, la nascita dell’Eni nel ’53, la nascita del ministero delle Partecipazioni statali nel ’56, la successiva nazionalizzazione dell’Enel nel 1962 e in generale il consolidamento dei legami tra la burocrazia di questo “parastato” e il potere democristiano sono alcuni dei passaggi e degli elementi che contraddistinsero l’evoluzione dello Stato italiano nei primi anni di boom economico180.
Ma questo quadro non va letto esclusivamente in un’ottica che guardi solo al consolidamento del potere democristiano nella società e nell’economia. Gli stimoli e le teorizzazioni verso forme di pianificazione statale dell’economia e del più generale sviluppo del paese erano oggettivamente presenti nelle forze politiche, e nella Democrazia Cristiana, non soltanto per utilitarismo politico. Su questo il giudizio della storiografia è abbastanza concorde: il confronto con il modello comunista di società, che aveva nel paese del più grande Partito Comunista d’occidente uno dei suoi teatri principali181, imponeva una competizione sullo
stesso terreno, quello cioè di una lotta attiva alla disoccupazione, di un accrescimento del livello culturale delle masse e di un intervento statale che puntasse a tutelare le condizioni di
180 Cfr. Manin Carabba, Un ventennio di programmazione, 1954-‐74, Bari 1977; Franco Ferraresi, Burocrazia e
politica in Italia, il Mulino, Bologna 1980.
181 A cavallo dei due decenni, nonostante la crisi del 1956, il Partito Comunista non mancava di usare i risultati sovietici nella corsa allo sviluppo tecnologico per rafforzare un profilo sulle tematiche culturali e scientifiche che fino a quel momento era mancato nell’orizzonte comunista italiano: “le prodigiose conquiste scientifiche dell’Unione Sovietica hanno sollecitato un più serio esame della funzione della scuola per lo sviluppo di una società moderna, e la riflessione critica si è soffermata non solo sui mezzi inauditi che ad essa occorre destinare nella inevitabile competizione tra nazioni e sistemi sociali diversi, ma più a fondo ha investito gli ideali e i programmi educativi, gli ordinamenti e i metodi pedagogici.” Alessandro Natta, Attualità e urgenza delle riforma
vita generali e alla crescita del reddito nazionale e pro capite, obbiettivo dichiarato dello Schema decennale di sviluppo del reddito e dell’occupazione dal 1955 al 1964 redatto dal ministro democristiano Ezio Vanoni, approvato dal Consiglio dei Ministri nel 1954 ma mai applicato. Al centro dello “Schema” (una parte del quale era dedicata all’espansione dell’istruzione e alla formazione professionale partendo dalla constatazione che “il processo di sviluppo nel prossimo decennio muterà molte delle attività attuali e creerà una domanda di nuovi tipi di lavoro”) stava la convinzione che la creazione stabile di nuovi posti di lavoro era compito dell’iniziativa privata, messa in moto dalle convenienze ad investire determinate dall’azione pubblica182.
Ancor più del tentativo fatto con lo Schema Vanoni, fu il convegno nazionale di studio della Democrazia Cristiana del settembre ’61 a San Pellegrino, a rappresentare la tappa più significativa, per quanto riguarda la DC, del suo percorso di avvicinamento ai socialisti, ma soprattutto di elaborazione della politica di piano.
Dalle relazioni di Achille Ardigò e Pasquale Saraceno provenivano stimoli molto radicali che avrebbero trovato altrettanto forti resistenze dentro la DC (su tutte quelle di Gonella e Bettiol). A San Pellegrino si parlò esplicitamente di “Stato artefice di uno sviluppo armonico pianificato”, della necessità di accantonare annualmente quote del reddito nazionale per investimenti tesi a orientare centralmente lo sviluppo, di socializzazione, fino alla definizione di pianificazione che, come si vedrà, avrebbe contraddetto la natura dei piani di sviluppo in materia scolastica: “il piano di sviluppo non è quindi né un coacervo di progetti di investimenti, né un elenco di disegni di legge e di ordinanze da emettere: esso consiste nella indicazione di un complesso organico di azioni da svolgere e nella dimostrazione della loro conformità al fine voluto”183.
Anche la Confindustria dimostrava di aver recepito il messaggio per il quale una quota sostanziosa di investimenti sociali avrebbe giovato all’espansione economica complessiva, o almeno questo era quello che il suo presidente, Cicogna, dichiarava alla stampa internazionale nel 1962184.
182 In merito allo “Schema Vanoni” cfr. Piero Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno. La politica
economica in Italia dal 1943 al 1955, Il Mulino, Bologna 1978; Michele Salvati, Economia e politica in Italia dal dopoguerra a oggi, Garzanti, Milano 1984; Fabrizio Barca: “Lo schema, anche per la morte di Vanoni, non esercitò
influenza diretta sulla politica di governo, restò solo come sintomo della necessità di una nuova politica economica, per quanto suscitasse interesse anche tra le forze sindacali e politiche d’opposizione.” Ganapini, De Bernardi, op.cit, p. 331.
183 Relazione di Pasquale Saraceno in Il Convegno di San Pellegrino. Atti del I convegno nazionale di studio della
Democrazia cristiana, San Pellegrino Terme 13/16 settembre 1961, Edizioni Cinque Lune, Roma, 1962, p.184.
184 “Oggi siamo tutti d’accordo che circa il 18-‐20% del reddito nazionale è usato per fini sociali, non contro prestazioni di produzione di lavoro, ma semplicemente per svolgere forme di assistenza […]. Noi pensiamo, per
Questo era il quadro in cui la Democrazia Cristiana decise di concretizzare la sua attività di governo in materia scolastica sul progetto di piano decennale della scuola.
La differenza rispetto ai precedenti interventi tentati o approvati era enorme: non si trattava più di progetti di riforma (come il n. 2.100 di Gonella) o d’interventi settoriali, ma di finanziamenti, rispondendo a una precisa strategia che vedeva nell’elemento quantitativo dell’apparato formativo italiano il primo terreno su cui intervenire, rimandando a un indefinito secondo momento la fase riformista.
I piani discussi furono molteplici e a misure variabili (decennale, triennale, quinquennale, trentennale, ecc.), ma quelli approvati ben pochi: la lunga discussione sul piano decennale portò all’approvazione di alcuni stralci, (provvedimenti ponte dalla validità temporale non superiore a un anno e limitati al finanziamento di specifiche voci), resi necessari dal congelamento del provvedimento complessivo, di cui il principale fu il piano triennale, approvato con un’enfasi politica del tutto ridimensionata rispetto ai proclami che accompagnarono la presentazione della prima versione decennale. A chiudere questa fase della pianificazione scolastica fu il piano quinquennale 1966-‐1970 da leggere, a mio avviso, come un adeguamento necessario di mezzi e risorse all’esplodere dell’utenza scolastica e universitaria della seconda metà degli anni ’60: il varo di questo provvedimento non fu accompagnato dalle discussioni di cinque anni prima visto che ben altri temi erano diventati protagonisti del dibattito, specialmente per quanto riguardava l’università (i tentativi di riforma e l’apertura degli accessi).
Va detto che piani di sviluppo della scuola furono discussi e approvati anche in seguito ma, dagli anni ’70 in poi, con la definizione di piano di sviluppo della scuola s’intesero generici progetti d’investimenti e sviluppo quantitativo delle strutture scolastiche e non si ripropose mai più il significato politico e ideologico che contraddistinse le discussioni sulle prime pianificazioni.
Rispetto al tema di questo lavoro, va fatta un’altra specifica: la politica di piano interessò maggiormente l’università esclusivamente nella sua seconda fase, quella della prima metà degli anni ’60, legandosi a doppio filo con le proposte di riforma dell’istruzione superiore. Dalla presentazione della prima versione di piano decennale, nel settembre 1958, al varo del primo stralcio triennale (legge n. 1.073 del 1962) al centro del dibattito politico e pubblico
esempio, che la spesa per l’istruzione, che abbiamo sempre messo al primissimo posto, proprio come elemento di modifica della struttura sociale italiana, dovrà salire inevitabilmente al 5-‐6% del reddito totale, così com’è nei Paesi più evoluti”, dichiarazione del Presidente Confindustriale Cicogna del 27 aprile 1962, riportata in “Sole” del 28 aprile 1962, p. 3.
sulla pianificazione scolastica vi fu lo scontro d’idee fra laici e cattolici in merito al finanziamento delle scuole private. Lo schieramento laico (socialisti e comunisti, associazioni di categoria come l’Adesspi e riviste come “Il Mondo”185, per citarne solo alcuni) condusse
un’aspra battaglia in Parlamento e sugli organi di stampa contro la strategia democristiana di inserire a pieno titolo gli istituti privati (specie confessionali) fra i beneficiari dei massicci investimenti in discussione. Nello specifico questo dibattito riguardò i primi livelli del sistema formativo, in particolar modo scuole materne ed elementari, ma dato il carattere complessivo dei progetti in discussione, che avrebbero dovuto far fare un balzo in avanti a tutta l’istruzione italiana, lo scontro d’idee incluse la tematica universitaria, con i finanziamenti agli illustri atenei non statali (quelli milanesi su tutti) al centro delle polemiche.
Un’ultima premessa da fare riguardo alla travagliata storia del piano decennale e dei suoi derivati, riguarda proprio il cambiamento di scenario politico, la nascita del centro-‐sinistra, brevemente descritto in precedenza.
Con il varo di un unico piano decennale della scuola sempre più in bilico, a mano a mano che erano approvati singoli stralci annuali, il Partito Socialista, fino a quel momento principale oppositore delle politiche democristiane in campo formativo specie per quanto riguardava il terreno infuocato della laicità dell’istruzione, si ritrovava in quel momento dall’altra parte della barricata al termine di una trattativa con la DC per il nuovo governo che aveva avuto sulle tematiche scolastiche uno dei punti cardine.
Colui che nel maggio ‘61 aveva scritto la relazione di minoranza alla versione del piano licenziata dalla commissione istruzione della Camera, relazione che divenne il manifesto politico d’opposizione al piano ufficiale e condiviso di tutte le sinistre e del fronte laico italiano, Tristano Codignola, si ritrovò nella contraddittoria posizione di difendere (o evitare di opporsi) la politica di finanziamento dell’istruzione successiva al tentativo di piano decennale, politica che continuava a conservare gli elementi di criticità che proprio Codignola aveva combattuto in prima linea a partire dal 1958186.
185 Settimanale espressione di intellettuali di provenienza azionista e liberale, fondato nel febbraio 1949, cfr, Barca, op. cit., pp. 73-‐74.
186 Non a caso proprio Codignola, dalle pagine di una delle principali riviste dell’area socialista, così si esprimeva contro la “manovra involutiva messa in atto da Moro durate la campagna elettorale” di quell’anno, “con la formale rinuncia ad ogni altra nazionalizzazione, con la repulsa della legge urbanistica Sullo, con la ripresa del tema del finanziamento alla scuola privata, colla reiterata connessione fra istituzione delle regioni ed impegno anticomunista del psi.”. Quasi a preparare l’opinione pubblica di fronte alle timidezze riformiste che il centrosinistra avrebbe dimostrato, secondo Codignola “Moro intendeva presentarsi alla trattativa con il PSI sostenuto dalla piena fiducia della sua destra, per poter varare un centro-‐sinistra di lentissima lievitazione, capaci di bloccare l’intera legislatura”. Tristano Codignola, La trappola dorotea non funziona, in “Il Ponte”, n. 6 1963.
La figura di Codignola incarna quindi la complessità dello scenario politico determinatosi nella primavera-‐estate del ’62, periodo in cui per l’esponente socialista, alle accuse di ipocrisia da parte delle opposizioni si sommavano le insofferenze dei democristiani nell’essere ora costretti a trattare molto più di prima con il principale esponente del fronte laico e progressista in materia scolastica, come dimostra il carteggio rinvenuto fra le carte dell’Archivio Sturzo fra Gui e Moro187.
Fatte salve queste premesse, è necessario completare il quadro analizzando i vari passaggi che portarono dalla presentazione di un piano che avrebbe dovuto valere per tutti gli anni ’60, al varo di provvedimenti finanziari la cui validità non superò il 1964.
Nel capitolo precedente sono state analizzate le discussioni parlamentari sul bilancio della Pubblica Istruzione, diventate, almeno dal 1957, l’appuntamento di discussione parlamentare annuale sui temi dell’istruzione e delle riforme necessarie. Si è già visto come proprio la discussione del 1959, con il piano all’esame della commissione istruzione del Senato da quasi un anno, fosse stata uno dei primi momenti di confronto serrato sulle riforme da attuare per l’università italiana.
La relazione governativa, più dettagliatamente di quanto fatto da Moro due anni prima, fu l’occasione per la Democrazia Cristiana di presentare il piano (per quanto riguardava l’università, anche se gli stessi toni erano usati per tutti i livelli dell’istruzione pubblica) come lo “sforzo risolutivo e senza precedenti nella storia” dopo un decennio d’investimenti statali di cui ritengo utile fare una breve sintesi188.
Con la legge n. 1.551 del 1951 il finanziamento statale ordinario annuo alle università (escluse le spese già a carico dello stato e quelle degli enti locali) passò da 258 milioni a 1.200 milioni. Prima ancora, con il regio decreto legislativo n. 535 del 1946 allo Stato competeva la retribuzione diretta dei docenti incaricati, e quella dell’intero personale non docente stimata dalla relazione Badaloni in una spesa di un miliardo e 80 milioni annui.
A più riprese poi lo Stato era intervenuto per ricostruire gli atenei distrutti e ampliare per quanto possibile il patrimonio edilizio universitario: dal piano E.R.P. per la ricostruzione dei danni di guerra erano stati stanziati 2.700 milioni per il riacquisto e la riparazione di attrezzature universitarie; con altre due leggi, la n. 203 del 1953 e la n. 622 del 1959 furono
187 In una lettera del 18 luglio 1962 il neo ministro dell’istruzione Gui si lamentava con il segretario DC Moro in merito all’atteggiamento di Codignola nel consiglio dei Ministri che discuteva del progetto di legge sulla scuola media unica: “Non credo che debba esistere anche un ministro-‐ombra della Pubblica Istruzione”. Archivio Sturzo,
stanziati 4 e 12 miliardi per l’acquisto di attrezzature e materiali didattici prodotti all’estero. Sempre per quanto riguarda l’edilizia, con la legge n. 645 del 1954, oltre all’aumento di alcune voci di spesa, furono programmate forme di erogazione di finanziamenti e mutui agevolati agli enti locali per l’edilizia scolastica e universitaria189.
Nel complesso si è visto nel capitolo precedente come gli anni ’50 rappresentino un periodo d’incubazione di alcune tematiche, divenute centrali nel decennio successivo, fra cui una redistribuzione quantitativa all’interno dei bilanci statali a favore dell’istruzione di ogni ordine e grado190.
Per lo studio dei piani, da quello decennale ai suoi stralci passando per le versioni che di questo furono elaborate, i documenti ufficiali di riferimento sono, oltre ai testi legislativi, le relazioni parlamentari che segnano i punti di svolta della travagliata storia del piano della scuola.
Considerando che il grosso del dibattito parlamentare avvenne nelle commissioni istruzione di Camera e Senato, e vista l’assoluta centralità dei temi della scuola inferiore e media superiore nei dibattiti in aula, lo studio che segue, sul piano decennale e sui suoi stralci, è