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La libertà di espressione nella prospettiva statunitense

Come noto, la protezione costituzionale della libertà di espressione viene assicurata nel contesto giuridico statunitense dal Primo Emendamento, il quale afferma che «[t]he Congress shall make no law […] abridging the freedom of speech or of the press»1. Si tratta dell’unico articolo del Bill of Rights indirizzato in maniera esplicita al Congresso. L’estensione della tutela assicurata dal Primo Emendamento americano viene pacificamente considerata dalla dottrina come non avente eguali nel panorama internazionale2.

Il fondamento teorico di tale forte protezione è ricondotto, nello specifico, a diversi argomenti via via elaborati dalla dottrina e ripresi dalla giurisprudenza, più o meno esplicitamente, nel corso degli anni3. In primo luogo, vi è la concezione del «marketplace of ideas»4. Sulla falsariga delle teorie liberiste, che vedono nel libero

1 Peraltro, mentre una qualche forma di protezione della libertà di stampa è presente anche nelle costituzioni dei singoli Stati – in particolare, nove di essi su tredici – nel periodo precedente alla formazione della federazione, solo la costituzione della Pennsylvania e quella del Vermont garantivano la libertà di espressione. V.amplius, in relazione alle costituzioni

precedente a quella federale, S.M.FELDMAN,Free speech and free press, in M.TUSHNET, M.A.GRABER,S.LEVINSON (eds.),The Oxford Handbook of the U.S. Constitution,Oxford, Oxford University Press, 2015, 350.

2 K.GELBER,Free Speech after 9/11, Oxford, Oxford University Press, 2016. Secondo J. WEINSTEIN,An Overview of American Free Speech Doctrine and its Application to Extreme Speech, in I.HARE,J.WEINSTEIN (eds.), Extreme Speech and Democacy, Oxford, Oxford University Press, 2009, 73 ss., spec. 81, il free speech americano protegge addirittura «the most noxious forms of extreme speech immaginable».

3 S.G.CALABRESI,B.G.SILVERMAN,J.BRAVER,The U.S. Constitution and Comparative

Constitutional Law, Washington, Foundation Press, 2016, 985.

4 In dottrina, la protezione pronunciata della libertà di espressione grazie al concetto di

marketplace of ideas viene sostenuta da R.J. KROTOSZYNSKI,The First Amendment in Cross. Cultural Perspective: A Comparative Legal Analysis of the Freedom of Speech, New York,

New York University Press, 2006, 13. In giurisprudenza, l’espressione viene usata per la prima volta nella sentenza Abrams vs. United States, 250 U.S. 616, 630 (1919), nell’opinione dissenziente del giudice Holmes. Questa metafora viene spesso ricondotta al pensiero filosofico-politico di Mill, e in particolare al suo saggio On Liberty, in riferimento ad una situazione in cui le persone si scambiano in maniera libera idee e opinioni. Nondimeno, si tratta di un’espressione mai utilizzata nei lavori di Mill e che parte della dottrina ritiene non rispecchiare in maniera completa né il liberismo nell’accezione milleriana, né, più in particolare, la visione di tale filosofo sul tema della libertà di espressione. In tal senso, J. GORDON,John Stuart Mill and the “Marketplace of Ideas”, in 23 Social Theory and Practice, 1997, 235 ss. Il concetto, inoltre, viene fatto risalire all’opera Aeropagitica di John Milton, nella quale vengono presentati diversi argomenti contro qualsiasi censura o autorizzazione

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scambio la possibilità di raggiungere l’efficienza del mercato, questa ricostruzione teorizza la necessaria esistenza di un “mercato delle idee”, che permetta uno scambio di opinioni tale per cui si arrivi all’emergere della verità su un dato fatto. In secondo luogo, l’esigenza di tutelare il free speech è ricondotta alla democrazia partecipativa, che non potrebbe esplicarsi adeguatamente se non fosse garantita la possibilità di esprimere le proprie idee in modo pieno5. In terzo luogo, parte della dottrina americana rapporta la libertà di espressione al principio di autodeterminazione e alla possibilità di sviluppare liberamente la propria personalità6. Da ultimo, un ulteriore argomento sostiene che, anche qualora esistano situazioni in cui sarebbe opportuno censurare talune affermazioni, non si può fare affidamento sulla capacità del Governo di discernere quali esse siano, a causa della naturale politicità e parzialità di quest’ultimo7.

Pertanto, negli Stati Uniti le limitazioni del dibattito pubblico non vengono generalmente viste in maniera favorevole. Per ricostruire l’approccio giurisprudenziale tradizionale della Corte Suprema rispetto a potenziali limiti al Primo Emendamento e offrire, al contempo, una sintetica ricognizione dei leading cases, pare utile procedere categorizzando il tipo di espressione della cui legittimità la Corte si è occupata, limitando però l’analisi alle diverse sfaccettature di quel discorso che può essere considerato, anche solo lato sensu, di carattere “politico”. Vengono lasciate fuori le posizioni della Corte Suprema che riguardano il discorso diffamatorio tra privati; le esternazioni di carattere artistico o letterario; la pornografia; la propaganda commerciale e la pubblicità. Si analizza il discorso politico in relazione alle seguenti sottocategorie: manifestazioni di sedizione; incitamento alla violenza; discorso dell’odio (o hate speech). Ciò pur nella nei confronti della stampa. V. G.ANASTAPLO,Reflections on Freedom of Speech and the First Amendment, Lexington, The University Press of Kentucky, 2007, 20 ss.

5 Sull’importanza della libertà di espressione in ambito statunitense ai fini della formazione del dibattito pubblico (c.d. public discourse), E. BARENDT,Religious Hatred Laws: Protecting Groups of Belief?, in 17 Res Publica, 2011, 41 ss., spec. 44. V. anche R.

DWORKIN,Foreword, in I.HARE,J.WEINSTEIN (eds.),op. cit., ix. All’origine di questa teoria,

A.MEIKLEJOHN,Free Speech and its Relation to Self-Government, New York, Harper &

Brothers, 1948, 26.

6 Argomento che si riscontra in T.EMERSON,Towards a General Theory of the First

Amendment, in 72 Yale Law Journal, 1963, 877 ss.

7 T.M.SCANLON,Freedom of Expression and Categories of Expression,in 40 University

of Pittsburgh Law Review 1979, 519 ss., spec. 534. Secondo questa teoria, l’azione del

Governo sarebbe viziata da parzialità e inaffidabilità, soprattutto qualora sia necessario determinare se un certo tipo di discorso di carattere politico sia da reprimere. In questo senso, v. anche F. SCHAUER, Free Speech: A Philosophical Inquiry, Cambridge, Cambridge

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consapevolezza che si tratta di una suddivisione più utile a fini espositivi che sostanziali, in quanto le diverse sottocategorie tendono fortemente a sovrapporsi.

Focalizzandosi sulle manifestazioni di sedizione, nel 1798 il Congresso approva il Sedition Act, che punisce qualsiasi affermazione contro l’operato del Governo, del Congresso stesso o del Presidente. Nonostante la sua evidente contrarietà al Primo Emendamento, non si registrano pronunce che ne dichiarino l’incostituzionalità8.

Nel 1918, viene approvata una nuova versione del Sedition Act9, che apporta modifiche alla disciplina originaria. Esso reprime qualunque affermazione idonea a interferire con le operazioni di guerra delle forze militari statunitensi, oppure ad incitare all’insubordinazione. Si tratta di una legge che si applica solamente in costanza dello stato di guerra. Rispetto al testo del 1798, il suo ambito di operatività è più ristretto, così come le fattispecie incriminate. Su di esso la Corte Suprema si pronuncia nel 1919, con la nota sentenza Schenck v. United States10. Con questa decisione si ha la prima elaborazione del “clear and present danger test”, secondo il quale la manifestazione di un qualsivoglia pensiero, pur se contrario alla politica del Governo, può essere soggetta a repressione solamente qualora ponga «a clear and present danger»11.

Questo stesso approccio si ritrova poi nella dissenting opinion del giudice Holmes in Abrams v. United States12. Il caso riguarda la distribuzione di volantini che denunciano l’invio da parte degli Stati Uniti, nell’ambito della Prima guerra mondiale, di truppe statunitensi in Russia e la produzione di armi per fermare la rivoluzione bolscevica. La maggioranza dei giudici ritiene tale comportamento punibile ai sensi dell’Espionage Act 1917 e del Sedition Act 1918, in quanto contrario alla politica del Governo e potenzialmente incitante all’inibizione della produzione di materiali di guerra essenziali. Nella propria opinione separata dissenziente, il giudice Holmes sottolinea come non vi sia un reale intento di interferire con le operazioni belliche del Governo: il ricorrente sta semplicemente esprimendo la propria visione politica.

In un altro caso relativo a manifestazioni del pensiero offensive nei confronti del Governo – si tratta, in particolare, della dissacrazione della bandiera statunitense –

8 Per l’applicazione di questa legge, v. United States v. Lyon, 15 F. Cas. 1183 (D. Vt. 1798) e United States v. Callender, 25 Fed. Cas. 239 (1800).

9 Pub. L. 65-150, 40 Stat. 553. 10 249 U.S. 47 (1919).

11 Negli stessi termini, Debs v. United States, 249 U.S. 47 (1919). 12 250 U.S. 616 (1919).

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la Corte Suprema specifica che «the government may not prohibit the expression of an idea simply because society finds the idea itself offensive or disagreeable»13.

Quanto all’incitamento alla violenza, lo standard di giudizio della Corte Suprema – largamente applicato ancora al giorno d’oggi – è enucleato nel caso Brandenburg v. Ohio del 191914, riguardante la condanna di un leader del Ku Klux Klan per aver incitato all’utilizzo di metodi violenti al fine di ottenere riforme politiche. In tale sentenza, si ritiene che l’incitamento alla violenza possa essere punito solo qualora esso sia idoneo a causare «an imminent lawless action».

Molto vicino, da un punto di vista concettuale, al discorso incitante la violenza è il c.d. discorso dell’odio, o hate speech, che può essere inteso come una serie di manifestazioni che invitino all’odio nei confronti di un particolare gruppo, sia esso etnico, religioso, razziale, linguistico, ecc. Lo standard adottato dalla Corte Suprema in materia di discorso dell’odio è quello del “true threat”, ossia sono punibili «those statements where the speaker means to communicate a serious expression of an intent to commit an act of unlawful violence to a particular individual or group of individuals»15.

Stante il quadro, sinteticamente ricostruito, della giurisprudenza tradizionale statunitense sulla manifestazione del pensiero, con l’avvento delle nuove tecnologie, la Corte Suprema tende, perlomeno in linea generale, a ritenere Internet uno spazio quasi “incensurato”16. Tale approccio non viene scalfito neanche quando venga in

13 Texas v. Johnson, 491 U.S. 397 (1989). V. anche West Virginia Board of Education v.

Barnette, 319 U.S. 624 (1943), cui la Corte Suprema fa spesso riferimento nel caso Johnson.

Il caso Barnette riguarda l’obbligo, per gli studenti americani delle scuole pubbliche, di porre in essere il saluto alla bandiera. La Corte Suprema determina che tale imperativo non è conforme al Primo Emendamento.

14 395 U.S. 444 (1919).

15 Virginia v. Black, 538 U.S. 343 (2003). Secondo questa sentenza, pur configurandosi il Primo Emendamento come una protezione essenziale e in quasi nessun caso comprimibile, una limitazione può essere attuata nel caso in cui vi sia un interesse pubblico di ordine e moralità. V. in senso contrario R.A.V. v. City of St. Paul, 505 U.S. 377 (1992), in cui la Corte Suprema afferma che anche il discorso dell’odio possa rappresentare una visione personale, che rientra, come tale, nell’ambito di tutela del Primo Emendamento. Le linee per lo sviluppo della dottrina del “true threat” sono abbozzate anche nella decisione precedente Watts v.

United States, 394 U.S. 705 (1969), seppure non in tema di hate speech. Sulla linea di Virginia v. Black, si veda anche Elonis v. United States, 575 U.S. ___ (2015), in tema di

minacce personali, in cui il significato di “true threats” viene ripreso e specificato, rilevando che non sono protette dal Primo Emendamento quelle manifestazioni di pensiero che «inflict great harm and have little if any social value».

16 V. in particolare il caso Reno v. ACLU, 521 U.S. 844 (1997), in cui dichiara incostituzionale una legge federale che proibiva le c.d. «indecent communications» nello spazio cibernetico.

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rilievo la necessità di bilanciare il free speech con la privacy17, coerentemente con quanto detto sulla protezione recessiva, in ambito statunitense, nei confronti di quest’ultimo diritto.

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