III. Il superpartito di Salvo Lima, 1963-1968
4. La metafora agrigentina e la guerra delle poltrone
insanabile quando il primo minacciava di «tirarsi dietro mezzo partito» se la propria candidatura non fosse stata accettata. Il problema era che il PSI aveva posto il veto alla sua nomina, mentre Lima non voleva mettere in discussione il centrosinistra per una questione personale. Le centrali politiche erano così concentrate a ricreare «nuovi equilibri di poltrone» che, più chiaramente di così, scriveva Fidora, non si poteva vedere quanto poco il centrosinistra palermitano fosse basato su una comune volontà programmatica e quanto poggiasse invece su «una precaria torre di sedie messe una sull’altra con l’abilità che mostrano nei circhi i giocolieri cinesi». Spostandone una, infatti, stava crollando tutto il sistema.491
Il solito compromesso portava alla nuova designazione. Ciancimino bloccava la nomina di Matta, assessore ai LL.PP. e sostenuto da Lima, facendo designare se stesso per poi imporre Bevilacqua in cambio del proprio ritiro. Era per lui meno umiliante lasciare il posto ad uno che già aveva ricoperto l’incarico piuttosto che affidarlo ad uno nuovo. Malgrado fosse un fedelissimo di Lima, il candidato era inoltre considerato privo di grinta. Pur essendo presente alla votazione, Lima entrava in aula solamente quando le dimissioni venivano accettate, spiegando che lasciava per motivi personali.492 Dieci anni dopo essere entrato per la prima volta a Palazzo delle Aquile, se ne andava lasciando “molte cicatrici” nella storia della sfortunata Palermo.
4. La metafora agrigentina e la guerra delle poltrone
Una frana improvvisa e miracolosamente incruenta, il 19 luglio 1966, sgretolava ad Agrigento alcuni palazzi costruiti su dei terreni instabili. Avvertito il lento movimento dei muri che si stavano lesionando, un netturbino faceva in tempo ad avvisare il quartiere, evitando una strage dove sarebbero morte migliaia di persone. Due ore dopo crollavano centinaia di «gabbie di cemento armato», mezza città veniva evacuata e 10mila persone costrette ad abbandonare le proprie case. Conseguenza di una speculazione portata all’estremo, la frana poneva fine al boom edilizio, in nome del quale erano stati commessi arbitri e illegalità facendo scempio del panorama archeologico della città dei templi. Negli abusi rimanevano coinvolti i principali nomi della DC locale, parte dei quali dominavano ancora la vita della Regione.493 Si parlava in questo caso del “sacco di Agrigento”, un «terremoto a tavolino» perché le aree fabbricabili erano state create «dal nulla o sul nulla» e sfruttate fino all’osso davanti alla compiacenza di tutti i poteri locali, tecnici e politici. Nemmeno i greci erano mai
491 E. Fidora, La farsa delle dimissioni, in «L’Ora», 21 giugno 1966. 492 ASMPa, DCC, Dimissioni del sindaco, 1° luglio 1966.
493 Cfr. Calogero Miccichè, 19 luglio 1966: Agrigento frana. Storia di lotte sociali, di dissesti
urbanistici e di leggi disattese, Sarcuto, Agrigento-Palermo 2003; Bruno Bonomo, Sviluppo urbano, pianificazione e governo del territorio negli anni della grande trasformazione: la frana di Agrigento, in «Storia e futuro», n. 43, febbraio 2017, pp. 1-24.
131 andati a vivere nel territorio sconquassato dalla frana, tanto che lì vi avevano dirottato gli spurghi, gli enormi serbatoi per raccogliere le acque e le necropoli. Giorgio Frasca Polara parlava così di Una necropoli di cemento armato.494
Costata alla collettività 20 miliardi, in nessun’altra parte del mondo la speculazione edilizia era avvenuta come in Italia: il governo, la Regione, la magistratura, tutti – accusava L’Espresso – erano a conoscenza del legame tra mafia e politica, ma nessuno era mai intervenuto veramente.495 Di fronte ai fatti custoditi dall’archivio dell’Antimafia, paragonabile a una «polveriera» pronta a esplodere, Pafundi diceva tra l’altro che lo scandalo di Agrigento impallidiva.496 La DC siciliana si mobilitava ciononostante a respingere ogni inchiesta, permettendo che tutto finisse in un compromesso perché nessuno era senza peccato e non conveniva tirare la corda. A Palermo, per esempio, Lima e Ciancimino si combattevano e si riappacificavano in un crescendo o decrescendo cronologico che si rifletteva, «con una impressionante coincidenza», sulla chiusura e sulla riapertura di un’inchiesta o di un’istruttoria a carico dell’uno o dell’altro. «Questa catena di Sant’Antonio» teneva legati l’uno all’altro gli uomini di tutta la DC siciliana, trascinandoli sempre verso il giudizio dei dirigenti nazionali. Fanfani, Rumor e Moro, scriveva Sandro Viola, erano quindi «i veri autori del canovaccio» che Le termiti siciliane recitavano a turno. Personalmente al di sopra di ogni sospetto, non potevano però sottrarre le proprie responsabilità di capicorrente, capipartito o capi di governo per i misfatti e gli abusi continuamente perpetrati nell’isola. Il problema era che in Sicilia la DC tesserava il 25% dei propri seguaci, un quarto della sua forza totale: qualunque fosse stato il «prezzo da pagare», nessun segretario avrebbe mai rischiato di perdere un tale «patrimonio».497
Palermo continuava frattanto ad annegare nell’immondizia, mentre i sindacati chiedevano di togliere l’appalto alla Vaselli e la commissione Igiene e Sanità si dimetteva in blocco per protestare contro il mancato intervento.498 Violentissime accuse cominciavano così a venire anche dall’interno della DC. Vito Scalia, deputato catanese e leader della Base, la corrente dei sindacalisti, rivolgendosi a Verzotto e agli altri dirigenti regionali lamentava che non si poteva più tollerare che uomini politici di provata fede democratica tacessero «al cospetto di tanto scempio di dignità e del costume».499 Un altro clamoroso attacco veniva portato da Alberto Alessi: «Da dieci lunghi anni», attaccava il ventottenne consigliere comunale, figlio dell’ex presidente della Regione, si assisteva «ad un gioco infantile, il gioco di vivere ai margini del
494 G. Frasca Polara, Una necropoli di cemento armato, in «Rinascita», 30 luglio 1966. 495 Lino Jannuzzi, Un furto pubblico di venti miliardi, in «L’Espresso», 7 agosto 1966.
496 Lo scandalo di Agrigento impallidisce di fronte ai fatti che abbiamo in archivio, in «Giornale di
Sicilia», 6 agosto 1966.
497 Sandro Viola, Le termiti siciliane, in «L’Espresso», 21 agosto 1966.
498 Antonio Ravidà, Si dimette al gran completo la commissione per l’Igiene e Sanità, in «Giornale
di Sicilia», 24 settembre 1966.
132 lecito». Malgrado la concessione delle Imposte alla Trezza rappresentasse «uno scandalo permanente», gli amministratori palermitani continuavano a ritenere l’obbedienza della legge del tutto priva di fascino. In aula, mentre parlava, i colleghi lo ascoltavano visibilmente imbarazzati: era la prima volta che un democristiano trovava il coraggio di esprimere apertamente il proprio dissenso al gruppo di Lima.500 La commissione parlamentare d’inchiesta sulla frana di Agrigento poco dopo rendeva pubblica la prima parte della relazione sul caos edilizio. Renato Martuscelli ricostruiva come era stato compiuto «un vero, indiscriminato massacro urbanistico» sotto lo sguardo del Comune che aveva tollerato la violazione continua della legge.501 L’atmosfera era così pesante che, in pratica, a Palermo si respirava aria di crisi contemporaneamente alla Regione, al Comune e alla Provincia. Ancora una volta i fanfaniani collegavano agli sviluppi della situazione una forte pressione intimidatrice sui socialisti. Nemmeno a dieci giorni dall’approvazione del programma di Bevilacqua, dove era stata confermata la validità del centrosinistra, la giunta si trovava infatti sull’orlo della crisi. L’iniziativa era da correlare alla distribuzione dei posti di sottogoverno, perché la DC sosteneva che i socialisti avevano messo le mani su troppe leve di potere. L’episodio addebitato a torto riguardava la sostituzione di Luigi Gioia, gemello dell’onorevole, alla presidenza della Croce Rossa. Era iniziato tutto un mese prima, quando la nomina di Vittorio Lo Bianco da parte del ministro della Sanità Luigi Mariotti (PSI) cadeva sulla DC palermitana come un fulmine a ciel sereno. Non solo veniva intaccato il prestigio di Gioia, che riteneva impossibile che si sostituisse il fratello, ma soprattutto veniva sottratto ai fanfaniani un posto di potere cui tenevano moltissimo, specie a sei mesi dalle elezioni regionali. Era in ballo, tra l’altro, uno stanziamento di 1 miliardo e 900 milioni per ampliamenti, ammodernamenti e attrezzature che significava la possibilità di manovrare un’ingente massa di appalti. Sostenuto dall’appoggio del segretario Francesco De Martino, Mariotti aveva nominato Lo Bianco in applicazione di un accordo con i dorotei, senza averne fatto cenno ai fanfaniani. Lo stesso prefetto Ravalli aveva dato la sua valutazione favorevole, esprimendo una riserva solo per il fatto che il candidato era redattore de L’Ora. Colto di sorpresa, Gioia chiedeva qualche giorno per il passaggio di consegne, per rinviarlo ogni volta con pretesti all’apparenza gentili. In realtà prendeva tempo per terrorizzare il personale, facendo intendere che non se ne sarebbe mai andato e che la DC nazionale si stava muovendo per revocare la nomina. Faceva chiamare i dipendenti uno ad uno, pretendendo la firma di un appello perché restasse il fratello.
500 ASMPa, DCC, Dichiarazioni programmatiche del sindaco dr. Paolo Bevilacqua, 5-6 ottobre
1966.
501 L. Jannuzzi, Ecco l’atto di accusa che fa tremare la DC, in «L’Espresso», 16 ottobre 1966. Cfr.
Antimafia, Documentazione allegata alla Relazione conclusiva, Leg. VIII, Doc. XXIII n.1/V, IV, t. 11, 1981, pp. 609 sgg.
133 Solo quando il giornale comunista ne svelava l’ostruzionismo, Gioia dichiarava che non ne era una questione personale, ma era la DC a ritenere di dover difendere il controllo della Croce Rossa. Malgrado lo stesso Saladino intimasse a Lo Bianco di insediarsi, se necessario accompagnato dai carabinieri, il candidato insisteva perché il PSI pretendesse da Lima, in sede di quadripartito, la fine dell’ostruzionismo. Mariotti convocava a Roma i contendenti. Davanti al ministro, l’11 ottobre 1966, Lima sosteneva che l’improvvisa sostituzione di Luigi Gioia, alla vigilia delle regionali, avrebbe causato uno choc per l’elettorato democristiano. Non si trattava di una persona qualunque, ma del fratello del sottosegretario alle Finanze in carica. Insisteva così con Lo Bianco, ricordandogli che alla CRI non c’erano emolumenti mentre avrebbe potuto averne andando a presiedere l’Ospedale psichiatrico. La questione non era però economica, rispondeva il socialista, bensì che era stato nominato personalmente dal ministro. Essendo la sua nomina regolare, dunque, non avrebbe dovuto far altro che insediarsi. Gioia e Lima prendevano a questo punto a «bombardare» di telegrammi Moro e Rumor, minacciando la crisi al Comune, alla Provincia e se occorresse anche alla Regione. Di contro, Saladino avvisava De Martino che se Lo Bianco non si fosse insediato non solo si sarebbe dimesso da segretario del PSI palermitano, ma avrebbe restituito anche la tessera del partito. «Livido e poco sportivo nei modi», alla fine Gioia era costretto a cedere.502
Ingoiato «il rospo», dava subito seguito alle proprie minacce imponendo le dimissioni agli assessori comunali e provinciali. La spartizione del sottogoverno, in genere, era sempre nascosta sotto una vernice politico-ideologica, ma stavolta la DC denunciava la situazione senza alcuna ipocrisia. Specificando di non mettere in discussione la formula politica, accusava il PSI palermitano di esercitare un «metodo di potere divenuto elemento frenante della capacità realizzatrice del centrosinistra».503 Eppure, attaccava Nisticò, non c’era un angolo della pubblica amministrazione dove imperavano i democristiani che, per un illecito o per un altro, non veniva interessata la macchina della giustizia. Il caso di Agrigento era l’esempio «più allucinante, macroscopico di un dilagante fenomeno di arbitri, di prepotenze, di sfacciata corruzione», ma dovunque si guardava era facile rendersi conto che la frana non riguardava solo la città dei templi ma si estendeva più o meno in tutte le zone del malgoverno siciliano. Davanti agli «avvilenti e sconcertanti retroscena» di una lotta fatta non sulle scelte politiche ma sull’acquisizione dei posti di sottogoverno e caratterizzata da accuse e colpi bassi, aggiungeva Orazio Barrese, il comunicato della DC e il suo linguaggio infuocato e violento, tanto più significativo in quanto rivolto
502 AIGS, FET, Materiali su Lima, appunti promemoria, “La crisi da Gioia a Lo Bianco”, 16
ottobre 1966.
134 verso un partito alleato, altro non era che l’ultimo episodio de La guerra delle poltrone.504 Anche a livello nazionale il PSI si era ormai trasformato in un partito di governo. Senza sorprese, dopo quasi vent’anni di separazione, il 30 ottobre 1966 socialisti e socialdemocratici celebravano l’atto di nascita del Partito socialista unificato.505
I tentativi per un accordo al Comune tra la DC e il nuovo PSU si arenavano subito, tanto che, il 21 novembre, Bevilacqua veniva rieletto con i voti di un bicolore DC-PRI. Dopo Lima il «duro», era il turno del sindaco che abbracciava, prometteva e offriva anche a chi non gli chiedeva nulla. La sua caratteristica predominante era quella di dire sempre di sì al capo, mostrando un’obbedienza cieca e totale. La sua frase più famosa, d’altra parte, recitava: «Va bene, ne parlo a Salvo…». Quello stesso Lima che Sandro Viola, su L’Espresso, definiva Il padrone di Palermo.506
Negli stessi giorni era in corso alla Camera il dibattito su Agrigento. Mario Alicata, direttore de l’Unità e personalità di spicco del mondo culturale italiano, appena prima di morire, stroncato da un infarto, esortava i democristiani ad allontanare i corrotti dalla vita pubblica. Non si poteva ignorare che dal rapporto Martuscelli erano venute fuori la responsabilità di tutte le amministrazioni comunali e del governo regionale, perciò il comunista invitava la DC a trarre una volta e per tutte le dovute conseguenze. Il governo sembrava tuttavia voler eludere la questione, perciò Alicata addebitava alla maggioranza la mancanza di volontà politica nel colpire il malgoverno.507 Come rilevava il prefetto di Palermo, in quel frangente i comunisti contestavano duramente la DC, mobilitando l’opinione pubblica «con azione quotidiana e martellante, svolta con tutti i mezzi» (stampa, manifesti, comizi) e concentrando la loro attenzione principalmente sulla sua «scorrettezza amministrativa».508
Al Comune di Palermo, comunque, il partito di maggioranza relativa continuava nella sua azione anti-risanamento. Tra le mancate iniziative, la più grave era l’ostruzionismo a una legge presentata dal PCI. Erano sorti alcuni dubbi circa l’organo abilitato a emettere i decreti di approvazione e di esecuzione dei piani relativi: in base allo Statuto spettava al presidente della Regione; poiché l’art. 1 della legge Gioia definiva il risanamento di Palermo un’opera di preminente interesse nazionale, alcuni ritenevano però che i piani dovevano essere approvati dal presidente della Repubblica. Secondo i comunisti questa ipotesi avrebbe portato però all’assurdo che il PRG era
504 V. Nisticò, Metafora agrigentina; O. Barrese, La guerra delle poltrone, in «L’Ora», 19 ottobre
1966.
505 Sull’unificazione socialista cfr. M. Degl’Innocenti, Storia del PSI, cit., pp. 374-397. 506 S. Viola, Il padrone di Palermo, in «L’Espresso»; E. Fidora, Bevilacqua, ovvero il sindaco
abbraccia tutti, in «L’Ora», 27-30 novembre 1966.
507 Per la raccolta dei suoi scritti nel corso di questa battaglia cfr. Mario Alicata, La lezione di
Agrigento, Editori riuniti, Roma 1966, pp. 57-90. Cfr. anche Carlo Salinari - Alfredo Reichlin - Aldo Tortorella - Giorgio Amendola, Mario Alicata. Intellettuale e dirigente politico, Editori riuniti, Roma 1978.
508 ACS, MI Gab. 1964-1966, Relazioni trimestrali, b. 375, f. Palermo, Nota prefettizia, 7
135 stato approvato dal presidente della Regione mentre i piani particolareggiati avrebbero dovuto essere presentati al capo dello Stato. La verità era che la dichiarazione di preminente interesse nazionale voleva significare soltanto la solidarietà verso una città duramente colpita dalla guerra e afflitta dalle conseguenze di una ventennale politica di abbandono. Per sbloccare i 37 miliardi inutilizzati e consentire l’inizio dei lavori, gli onorevoli Speciale e Corrao avevano perciò presentato, il 23 gennaio 1965, una proposta di legge che ratificava che i piani dovevano essere resi esecutivi dal presidente della Regione. Ancora due anni dopo la DC proseguiva però nel suo boicottaggio, tanto che l’onorevole Barbaccia, al momento di illustrarla in commissione LL.PP., il 23 novembre 1966, disertava la seduta.509 L’azione anti-risanamento, favorevole agli interessi dei proprietari delle aree edificabili del centro storico, veniva fuori in modo scoperto nella seduta consiliare del 21 dicembre 1966: nonostante la commissione Affari costituzionali avesse già dato il suo benestare, Ciancimino esprimeva dubbi sulla costituzionalità della legge sostenendo la necessità di vararne due nuove (una nazionale e una regionale) e impostare ex novo il problema. Era chiaro che la sua proposta era uno stratagemma per complicare ulteriormente le cose e allontanare il più possibile l’inizio dei lavori.510 Di fatto, il Consiglio comunale non riusciva a sottrarsi allo «sconcertante andazzo» con cui il clan di Lima ne regolava i lavori, poiché un’ormai collaudata tecnica prevedeva che si stipassero «come aringhe» valanghe di argomenti in un’unica seduta, così da impedire una trattazione esauriente e stancare i consiglieri fino a notte fonda. Anche stavolta si favoriva così il colpo di mano della DC: non era stata ancora completata la discussione, infatti, che nonostante avesse dichiarato di esser disposto a proseguire fino all’alba pur di portarla a termine, appena il comunista Ferretti chiedeva alcune controdeduzioni sul risanamento del rione San Pietro-Castellammare improvvisamente Bevilacqua toglieva la seduta. Poiché le opposizioni protestavano chiedendo di mettere ai voti, in suo soccorso sbucava da dietro un tendaggio Lima, che, preso il sindaco per la giacca, lo trascinava via dicendo che la seduta era ormai stata tolta: Una gran confusione, commentava Fidora, che rendeva evidente il modus operandi della DC palermitana.511
Dopo l’attacco di Scalia ai dirigenti regionali del partito, il 28 dicembre 1966 la giunta veniva battuta. Per ricucire la crisi il comitato regionale DC provvedeva a sostituire Verzotto con Nino Drago, sindaco di Catania, affiancandogli nel ruolo di vicesegretario Lima.512 La scelta dell’uomo politico catanese era il frutto di un 509 AP, CD, Leg. IV, Documenti, Proposta di legge n. 1995, presentata da Speciale e Corrao,
23 gennaio 1965; Ivi, CD, Leg. IV, Commissioni in sede legislativa, commissione LL.PP., 23 novembre 1966, pp. 652-654.
510 ASMPa, DCC, Iniziative per accelerare l’attuazione del piano San Pietro e le integrazioni legislative
della Legge n. 18-28, 21 dicembre 1966.
511 E. Fidora, Una gran confusione, in «L’Ora», 22 dicembre 1966.
512 ACS, MI Gab. 1967-1970, Partiti politici, b. 7, DC, f. Palermo, Telegramma del prefetto, 30
136 compromesso avviato a Palermo dai fanfaniani, i quali, dopo l’indagine avviata dall’Antimafia e lo scandalo di Agrigento, si vedevano costretti a muovere alleanze per superare lo scoglio delle elezioni regionali del 1967.513 Coniglio veniva così rieletto per la terza volta: il gruppo democristiano riusciva a «congelare» il governo battuto imponendo l’assegnazione a ciascun deputato di un preciso ordine in cui avrebbe dovuto scrivere nome, cognome e attributi professionali del candidato, adottando una differenziazione del colore dell’inchiostro: i socialisti erano identificabili perché avrebbero votato con la penna rossa. Minacciati di essere scoperti, gli oppositori del governo votavano perciò con disciplina. La Torre parlava di «ignobile farsa»: battuta per il suo rifiuto di procedere contro i responsabili di Agrigento, infatti, la DC scaricava ancora una volta sugli alleati le proprie difficoltà.514 Mentre il palermitano Ugo La Malfa, segretario del PRI, dichiarava a chiare lettere che la politica nazionale si sarebbe dovuta persuadere che i problemi della Sicilia non potevano essere risolti in loco, data la sua incapacità di produrre una classe dirigente efficiente, il deputato DC Giuseppe Sinesio accusava senza mezzi termini la classe dirigente agrigentina: «la vera mafia è fatta da politici, da persone in doppio petto, con nodo scappino e colletto inamidato, da coloro che detengono leve di potere».515
Risolto il problema alla Regione, Lima si adoperava a riparare la situazione al Comune e alla Provincia. Prima di convocare i rispettivi consigli, per catturare il consenso del PSU si guadagnava il soccorso di Pasquale Macaluso, già segretario socialdemocratico e ora co-segretario dei socialisti unificati.516 La corrente ex socialdemocratica veniva incaricata di vendicare Gioia e rimettere in discussione la nomina di Lo Bianco alla Croce Rossa. Il patto veniva stretto con la collaborazione di Rocco Gullo, che a malincuore aveva seguito i socialisti tra i banchi dell’opposizione. Sostenendo la necessità di restituire alla DC la CRI, Macaluso faceva tuttavia «una similitudine sconcertante»: sosteneva che nei lager della Seconda guerra mondiale «si beveva anche il fango» pur di sopravvivere. Era uno scivolone gravissimo, perché in pratica ammetteva che la situazione politica palermitana non era dissimile da quella