III. Il superpartito di Salvo Lima, 1963-1968
5. Lo scandalo al Banco di Sicilia
Lo scandalo che, secondo Rumor, la DC avrebbe dovuto soffocare a tutti costi, riguardava il Banco di Sicilia. Era stato fatto tanto per chiudere le falle di Palermo e 521 AILS, FDC, Segreteria Rumor, sc. 166, f. 18, Discorso di Rumor a Palermo, 9 aprile 1967. 522 O. Barrese, Una girandola di miliardi per la caccia all’elettore; Marcello Cimino, Palermo, la
preferiscono malata per continuare a comandare, in «L’Ora», 30 maggio-8 giugno 1967.
523 Piero Fagone, Le regionali confermano la formula del centrosinistra; Un più vivo senso morale
139 Agrigento, per mettere d’accordo fanfaniani e dorotei, che a tre mesi dalle regionali era esploso infatti un affare ancora più grave.524 L’arresto dell’ex presidente Bazan, il 15 marzo 1967, aveva suscitato enorme impressione negli ambienti politico- economici. L’imputazione a suo carico era molto pesante: falso in bilancio e peculato continuato e aggravato per 1 miliardo e 600 milioni, sottratti, secondo l’accusa, a favore di terzi e a danno dell’istituto. Di proporzioni incalcolabili, l’affare minacciava di rivelare i retroscena e le ingerenze politiche nelle attività creditizie dell’isola, rischiando di trascinare con sé i nomi della politica nazionale. Era certo che Roma e Palermo fossero politicamente legate da «vincoli del tutto particolari», perché i gruppi di potere palermitani avevano giocato spesso un ruolo decisivo nelle grandi operazioni romane. Solamente così, d’altra parte, poteva spiegarsi la sollecitudine sempre mostrata dalle alte sfere della capitale verso i ras palermitani e la tolleranza per le loro frequenti «scappatelle».525
I travagli cui era stato sottoposto l’istituto, negli ultimi anni, costituivano tuttavia un autentico capitolo della storia del malgoverno democristiano in Sicilia, che, prima o poi, qualcuno avrebbe dovuto scrivere. Tre quarti di secolo dopo il caso Notarbartolo, infatti, un nuovo scandalo investiva l’istituto di credito siciliano, per di più in uno dei momenti più delicati per i vertici del potere democristiano. Per chi era a conoscenza della rete di collusioni, interessi e connivenze con i vari settori politici, come la Regione, non era affatto una sorpresa. Da anni non era stata effettuata una riforma, né si erano create le infrastrutture e le opere pubbliche necessarie alla Sicilia per risolvere i suoi problemi. Pur di non prelevare i 650 miliardi provenienti dai fondi dell’articolo 38 dello Statuto e dai residui passivi, tutto era stato congelato per non creare situazioni insostenibili: se la Regione avesse prelevato le somme depositate e le avesse spese per migliorare le condizioni economico-sociali dell’isola, il Banco si sarebbe praticamente venuto a trovare in gravi difficoltà e non avrebbe potuto far fronte neppure ai pagamenti. Questo perché buona parte delle somme venivano utilizzate in finanziamenti e partecipazioni al di fuori dall’isola per operazioni estranee alle finalità istitutive e, a volte, senza neppure la preventiva autorizzazione da parte degli organi amministrativi. Il processo relativo, anni dopo, avrebbe dimostrato come la fragilità del regolamento dello statuto del Banco di Sicilia favorisse tutta una serie di comportamenti illeciti e rendesse praticamente impossibile il controllo gestionale. Il falso in bilancio dei quattro esercizi antecedenti alle dimissioni di Bazan – chiusi con
524 Giuseppe Loteta, Chi presta e chi comanda, in «L’Astrolabio», 26 marzo 1967.Negli oltre
vent’anni della sua esistenzala rivista fondata da Ernesto Rossi e diretta da Ferruccio Parriha rappresentato un punto di riferimento per l’area riformista dell’opinione pubblica, testimonianza dell’impegno civile e politico erede della cultura azionista. Cfr. Alfredo Casiglia, Pagine scomode.la rivista Astrolabio (1963-1984), Ediesse, Roma 2014.
525 Claudio Giardinetto, A cavallo della tigre ci sono un po' tutti, in «Mezzogiorno», 15-31 marzo
140 utili netti fra i 700 e gli 800 milioni – sarebbe stato ricostruito dai giudici molto dettagliatamente: i conti venivano alterati attraverso una elevata sequenza di «aggiustamenti», in assenza dei quali la banca avrebbe chiuso gli esercizi in perdita.526 In una regione dove il clientelismo era alla base della politica, non occorreva tuttavia molta fantasia per immaginare come si formassero le maggioranze nel consiglio di amministrazione e come si procedesse annualmente alle nomine di amministratori e revisori dei conti.527 Mentre il governo ignorava il problema, la Regione copriva e giustificava invece «silenzi, compiacenze, errori, arbitri, abusi, speculazioni, interessi privati»: i suoi rapporti con Il gigante dal braccio d’oro dell’economia siciliana, sottolineava Pantaleone, costituivano perciò «una delle tante pagine sbagliate» della storia dell’autonomia regionale.528
L’azione giudiziaria nei confronti di Bazan era stata avviata nel maggio 1964, quando a Pietro Scaglione erano giunti alcuni esposti anonimi contenenti accuse a carico del presidente e degli amministratori. Il procuratore generale di Palermo non agiva subito, ma sollecitava il governatore della Banca d’Italia perché disponesse un’inchiesta. Acquisita la relazione, il 5 maggio 1965, trasmetteva quindi gli atti alla Procura affinché promovesse l’azione penale contro Bazan e il direttore generale Giuseppe La Barbera. Il procedimento veniva instaurato nell’ottobre 1966, quando il giudice istruttore Giuseppe Mazzeo ravvisava degli arbitri a discapito dei piccoli risparmiatori e il reato di peculato per aver concesso, nel 1952, un prestito di mezzo miliardo, rimasto insoluto, al barone Francesco Beneventano Della Corte (un deputato regionale eletto nel 1947 nella lista del PNM).529 Alcune informazioni contenute negli esposti erano state copiate, senza mutare una virgola, dalle denunce presentate all’ARS dal PCI (poi reiterate alla Camera).530 Dove non giungeva l’azione parlamentare, riusciva pertanto una lettera senza data e senza firma. Lo strumento della lettera anonima, d’altra parte, era parte integrante della lotta politica, tanto che negli archivi dell’Antimafia ne erano catalogate 40mila, due terzi delle quali contenenti rivelazioni politiche.531 Nell’interpellanza presentata a Sala d’Ercole, il 30 gennaio 1963, Nino Varvaro aveva già chiesto alla giunta regionale quali iniziative intendesse adottare in merito alla preoccupante situazione al Banco di Sicilia, caratterizzata da frequenti
526 Gli atti giudiziari e la sentenza sono conservati in ASBdS, Presidenza, D, IV, 14-15. 527 Stenio Di Termini, Le mani sul Banco. Il Banco di Sicilia cent’anni dopo, Edizioni del
Borghese, Milano 1971, pp. 7-10.
528 M. Pantaleone, Il gigante dal braccio d’oro, in L’industria del potere. Nel regno della mafia,
Cappelli, Bologna 1972, pp. 57-91.
529 ACS, MI Gab. 1967-1970, Banche e Istituti finanziari, b. 540, f. Palermo e provincia, Nota del
viceprefetto vicario G. Berretta, 13 ottobre 1966.
530 AP, CD, Leg. IV, Discussioni, Interrogazione a risposta orale n. 2694 di Macaluso,
Speciale, De Pasquale, Failla, Pellegrino, Di Mauro, 6 luglio 1965, p. 16873.
531 M. Pantaleone, L’industria del potere, cit., pp. 83-84. Alcuni scrivevano lettere anonime
anche contro sé stessi, così da formulare in sede di interrogatorio dichiarazioni a propria difesa e documentare fatti da utilizzare contro gli avversari.
141 interferenze politiche e clientelari che riguardavano le assunzioni, le promozioni e, in genere, tutta la materia del personale. Centinaia di persone venivano regolarmente assunte in concomitanza delle elezioni e nei periodi di rinnovo degli organi dirigenti. Già di solito irregolari, in tali momenti le assunzioni assumevano «proporzioni scandalose». Nel 1956, ad esempio, erano stati assunti 1200 avventizi, tutti, Lima compreso, tramite il sistema delle lettere di raccomandazione. Contro la situazione erano insorti i sindacati e la commissione interna, per chiedere di dare uno stato giuridico agli avventizi e di farla finita con le assunzioni di favore. Malgrado l’impegno, la Direzione aveva però continuato ad assumere «allegramente», fino a raggiungere la cifra di 2268 avventizi nel 1961. Senza alcuna giustificazione, tutto ciò costituiva «un puro atto d’arbitrio» da parte del BdS, colpevole di persistere in una prassi che serviva unicamente a consolidare la posizione dei vertici dell’istituto. Altre «due piaghe purulente» riguardavano le promozioni e i premi di rendimento. Per permettere a coloro che non avevano raggiunto i titoli di anzianità di giungere allo scatto, infatti, venivano spesso ritardati i provvedimenti, così, mentre gli aventi diritto restavano in attesa di una promozione che non sarebbe mai arrivata, i candidati designati in partenza acquisivano nel frattempo i titoli necessari. Solo allora venivano presi quei provvedimenti che permettevano ai «novellini» di scavalcare coloro che avevano raggiunto da anni i titoli. Tramite questo «sistema dei ritardi» avevano raggiunto le rispettive promozioni sia Lima sia Reina. Se bisognava credere alla volontà di moralizzazione enunciata da Moro, concludeva Varvaro, la DC avrebbe dunque dovuto ringraziare il PCI perché portava in aula questi esempi, così da mettere una buona volta il «bisturi» su certe piaghe della vita amministrativa e politica siciliana.532
I problemi del Banco erano stati oggetto di considerazione da parte dei responsabili della politica economico-monetaria già dal 1962, quando La Malfa aveva sottoposto a Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, l’ipotesi del commissariamento e dello scioglimento degli organi amministrativi. Secondo via Nazionale, tuttavia, l’istituto avrebbe dovuto trovare al proprio interno le capacità per un cambio di rotta, così da impostare nuove strategie e riportare i conti in ordine. Carli, in sostanza, optava per una soluzione blanda che prevedeva solamente la sostituzione del direttore generale.533 Forte del suo potere di veto, nel gennaio 1963 la Regione si opponeva alla rimozione di La Barbera, provocando un’aspra reazione da parte della Banca d’Italia. Carli si rivolgeva così direttamente a Fanfani, sottolineando come la sua «influenza nefasta» 532 ARS, Leg. IV, Resoconti parlamentari, interpellanza n. 379 presentata da Varvaro, 30
gennaio 1963, pp. 123-134.
533 Per una riflessione sul pensiero economico del governatore cfr. Guido Carli (in
collaborazione con Paolo Peluffo), Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari 1993; un’antologia dei suoi scritti e discorsi è in Pierluigi Ciocca (a cura di), Guido Carli governatore della Banca d’Italia. 1960-1975, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
142 impedisse al BdS di diventare una banca normale, capace di muoversi all’interno della cornice normativa della legge bancaria e operare «in armonia con gli indirizzi generali» degli organi ai quali competeva formulare la politica monetaria, seguitando a essere organismo di propulsione dell’economia siciliana.534 Il governatore informava il presidente del Consiglio che «non pochi rilievi» potevano essere mossi all’istituto: tuttavia, poiché l’azzeramento dei vertici avrebbe scatenato il panico fra i risparmiatori, per evitare conseguenze sul fronte dell’immagine e della stabilità del sistema accantonava l’onta del commissariamento. Molte operazioni rimanevano comunque «incomprensibili e ingiustificate», visto che 200 miliardi all’anno venivano indirizzati al pagamento degli stipendi di province e comuni – come il caso di Palermo – che erano male amministrati.535 Sotto alcuni aspetti, la propensione dell’organo di vigilanza all’adeguamento ai cambiamenti piuttosto che a una loro sollecitazione poteva risultare anche comprensibile. L’adesione a un approccio che privilegiasse i metodi della moral suasion, attribuendo un’importanza maggiore allo stabilirsi di contatti frequenti e diretti fra la banca centrale e gli istituti di credito, oltre alla necessità del dialogo testimoniava un atteggiamento ispirato alla prudenza e alla cautela. Nei fatti, però, la prudential regulation di Carli faceva assumere alla Banca d’Italia una posizione di immobilismo.536 L’apice della tensione, non a caso, veniva raggiunto in un altro scambio con Bazan, nel settembre 1965, quando le indagini erano già in corso perché il Banco aveva approvato un ulteriore prestito di 650 milioni alla Segreteria amministrativa nazionale della DC. Era la mossa disperata di un presidente in difficoltà, che sapeva di giocarsi il tutto per tutto pur di ottenere la riconferma. La pazienza della Banca d’Italia, però, aveva ormai raggiunto il limite. Dopo quasi 15 anni, nell’ottobre 1965, Bazan lasciava infatti il Banco di Sicilia.537
Quando L’Espresso pubblicava la notizia dell’avvio dell’inchiesta giudiziaria, lo scandalo esplodeva dunque definitivamente.538 All’ARS Corallo attaccava duramente, perché, mentre erano coinvolti i massimi responsabili della vita economica del Paese, la DC già stava tentando di presentarlo more solito come «uno scandalo siciliano». Il settimanale, tuttavia, aveva scoperto fatti che a Palermo erano noti da anni, mentre Carli, sapendo che il bilancio dell’istituto di credito siciliano non rispecchiava la realtà, aveva tenuto le relazioni nel cassetto. Il governatore della Banca d’Italia non solo avrebbe dovuto spiegare perché aveva taciuto sull’argomento, ma, oltre che siciliano,
534 P. F. Asso, Storia del Banco di Sicilia, cit., pp. 256-267. 535 ASBdS, Presidenza, B, II, 6, Carli a Bazan, 2 dicembre 1963.
536 Pierangelo Dacrema, L’evoluzione della banca in Italia. profili storici e tecnici, EGEA, Milano
1997, p. 164. Sul tema cfr. anche Francesco Balletta, Il fallimento della vigilanza bancaria in Italia, Arte tipografica, Napoli 2002.
537 ASBdS, Presidenza, D, II, 6, Carli a Bazan, 15 settembre 1965.
143 lo scandalo era quindi anche romano perché frutto delle complicità e delle omertà di tanti anni.539
Nell’interesse dei risparmiatori, peraltro, sarebbe stato più giusto favorire una maggiore trasparenza nel sistema delle decisioni e dei comportamenti di coloro che venivano chiamati a compiere le scelte. Per quanto vantaggioso, sotto il profilo dell’opportunità che offriva alle autorità competenti di controllare tutta una serie di importanti scelte di gestione degli istituti di credito, un sistema di vigilanza come quello esistente in Italia rendeva infatti «opaco» il meccanismo dei controlli.540 I periti della Banca d’Italia, per esempio, si erano soffermati più volte sui casi Lima e Reina. Nonostante il Banco gli avesse concesso il distacco, a patto di rientrare in possesso degli emolumenti versati per la sua durata, la clausola non era mai stata osservata. Lima si era assentato dal servizio il 2 gennaio 1956, prima come distaccato presso la Regione, poi, dall’8 giugno 1958, perché eletto sindaco. Il 21 gennaio 1963 era stato nominato all’ERAS, e a quell’epoca, senza avere mai prestato servizio, figurava già come capo ufficio. Il 27 settembre 1963 il CdA del Banco lo aveva quindi autorizzato a mantenere la carica, collocandolo fuori ruolo (ai sensi dell’art. 89 del regolamento del personale). Dimessosi dall’ERAS, aveva ripreso servizio il 22 giugno 1964, per allontanarsi nuovamente perché rieletto nel gennaio 1965. In questi sei mesi faceva in tempo a essere promosso vicedirettore. La carriera di Lima, entrato al BdS nel 1956 e nel 1963 già vicedirettore, era una delle più straordinarie che si conoscevano in tutta la storia bancaria, visto che, generalmente, per arrivare a ricoprire quell’incarico occorrevano 15-18 anni. Il suo exploit era ancor più eccezionale considerato che negli uffici del Banco si era fermato pochissimo, tutto sommato non più di un anno: «Non si capisce in che modo, facendo quali lavori», ironizzava Sandro Viola, abbia potuto meritare tanti avanzamenti in così poco tempo.541
La macchina giudiziaria, il 20 giugno 1967, si rimetteva perciò in movimento. Il PM Giuseppe La Barbera ne chiedeva l’incriminazione per concorso in peculato. Accompagnato dall’avvocato Diego Gullo, Lima veniva ricevuto e interrogato dal giudice istruttore Mazzeo. La notizia scatenava una vera e propria tempesta a Piazza del Gesù, dove si era ritenuto scongiurato il pericolo. Si diffondeva perfino la voce che la Direzione volesse chiedergli le dimissioni dalle cariche di partito, anche se la notizia rientrava immediatamente per il timore di un marasma nella DC siciliana. Depositando la requisitoria, il 16 agosto, il PM ridimensionava comunque l’affare: chiedeva il rinvio a giudizio solamente per 20 imputati su 72, mentre proscioglieva tutti gli altri con motivazioni varie; tra questi Lima, che secondo il magistrato non
539 ARS, Leg. V, Resoconti parlamentari, 7 ottobre 1965, pp. 2201-2215.
540 Marco Onado, L’attacco alla Banca d’Italia e la politica di vigilanza, in «Politica ed
Economia», n. 3, 1979, p. 20.
144 aveva responsabilità nell’aver percepito gli emolumenti in quanto era stato il CdA del Banco a stabilirne il pagamento. Sul banco degli imputati rimanevano solamente Bazan e i funzionari dell’istituto, di cui nessuno aveva a che fare con la politica. Quello che avrebbe dovuto profilarsi come un grosso processo al malcostume politico dell’isola, in sostanza, veniva già in partenza ridotto ad un affare di modeste proporzioni. «La grande paura» era passata, sottolineava Egidio Sterpa sul Corriere, che evidenziava comunque come certi interessi e costumi avessero fatto dell’ambiente siciliano «un vero mondo a sé». Alcuni personaggi, infatti, erano paradossali: «Tra la commedia e la farsa con sprazzi di dramma», si stentava a credere che queste vicende avvenissero negli anni Sessanta, a due ore di aereo da Milano. A Palermo, invece, sembrava ancora di trovare I Viceré di De Roberto, dove Lima poteva essere temuto e invidiato anche se, fuori dall’isola, non sarebbe stato più che «un travet».542
Quando anche il giudice istruttore depositava la sentenza, il 13 settembre, pur raccontando gli stessi fatti e richiamandosi alla stessa legge bancaria rinviava però a giudizio buona parte dei politici assolti dal PM. Diversi ex consiglieri e praticamente tutto il CdA, alcuni dei quali esponenti DC come Salvatore La Gumina, erano imputati di peculato aggravato per l’ingente danno patrimoniale apportato al Banco di Sicilia. Lima veniva nuovamente prosciolto dall’accusa di concorso in peculato, ma stavolta non perché il fatto non sussisteva, ma per insufficienza di prove. Non mancavano «ragionevoli motivi» per ritenere che tale concorso vi fosse stato, tuttavia le risultanze acquisite non erano sufficientemente probanti per rinviarlo a giudizio. L’elemento principale a suo carico era costituito dalle dichiarazioni di Bazan, che, nel corso dell’istruttoria, più volte aveva affermato che fin dal suo rientro al BdS il segretario della DC palermitana non aveva smesso di pressarlo, servendosi anche di personalità altamente qualificate, perché gli venissero accordati gli arretrati. Pur ammettendo di considerare «illecito e illegittimo» il pagamento degli stipendi a Lima, alla fine l’ex presidente aveva ceduto per stanchezza. Se ciò fosse stato vero, si leggeva nella sentenza, non sarebbe occorso altro per avere la prova del concorso, perché la situazione era «ai limiti del ricatto». Dal canto suo, tuttavia, Lima aveva affermato di ritenere legittimi gli emolumenti, ritenendoli «un atto di libertà dell’istituto»: ai sensi dell’art. 99 del regolamento per il personale, infatti, era prevista «una gratificazione speciale» a quegli impiegati che con la loro opera avessero arrecato un notevole giovamento all’istituto o che avessero disimpegnato «importanti incarichi di carattere speciale». Malgrado non fossero chiari i motivi per una tale gratificazione, dato che Lima non prestava servizio presso il Banco da nove anni, il giudice riteneva di non poter dare affidamento alle parole di Bazan. In egual misura sussistevano elementi che
542 Egidio Sterpa, Lima, ex-sindaco di Palermo interrogato per l’affare Bazan; Gli uomini politici del
145 ne conclamavano sia la colpevolezza che l’innocenza, perciò proscioglieva Lima con formula dubitativa.543 Leggi e regolamenti alla mano, il pagamento degli stipendi al sindaco rappresentavano però «un abuso, un illecito amministrativo e un delitto penale», anche perché per lo stesso motivo erano stati rinviati a giudizio Bazan e i componenti del CdA. Giunto dinanzi a Lima, il giudice si fermava, giustificandosi che per rinviare a giudizio il beneficiario di un peculato bisognava provare che il soggetto fosse consapevole di averlo sollecitato. La logica processuale che funzionava nei confronti dei quadri del Banco di Sicilia, commentava dunque Lino Jannuzzi su L’Espresso, improvvisamente era stata sospesa per Lima.544
Ritenendo di dover essere assolto per non aver commesso il fatto, il segretario della DC palermitana preannunciava peraltro ricorso in appello contro il proscioglimento in formula dubitativa. Ponendo la sua candidatura sia alla Camera che al Senato, si impegnava quindi a portare 200mila voti. Anche se la sentenza d’appello, l’8 marzo 1968, avrebbe confermato la formula dubitativa («emergono a carico del Lima elementi di accusa seri ma incompleti»), una volta tolto di mezzo il segretario della DC palermitana i vertici del partito potevano ritenersi soddisfatti. Quello che doveva essere il processo al malcostume del Banco, assolti in istruttoria gli elementi politici, si sarebbe perciò svolto senza sorprese. Fra i numerosi teste convocati, in qualità di persone informate sui fatti, particolare risonanza avrebbe avuto l’audizione di Carli, ascoltato il 20 maggio 1969 insieme ad alcuni funzionari della sede di Palermo e ai periti nominati dal Tribunale. Dai tutti questi interrogatori emergevano valutazioni che ridimensionavano le accuse.545 La sentenza della I sezione del Tribunale di Palermo, l’11 luglio 1969, avrebbe così condannato Bazan a sei anni di reclusione e