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La paternità e la crisi dell’equilibrio di genere

Nel documento Diventare padriin Italia (pagine 149-152)

Approfondimento 2 - “Meglio tardi? Caratteristiche e fecondità

6.1 La paternità e la crisi dell’equilibrio di genere

La prevalenza in Europa delle famiglie “a doppio reddito”, che in pochi anni ha scalzato il modello tradizionale basato sull’uomo unico percettore di introiti (male breadwinner model), ha rimesso in discussione i ruoli di genere nella gestione dei compiti domestici e di cura. Seppure con velocità diversa tra paesi, è certamente in atto un processo di cambiamento che vede una maggiore partecipazione dei padri nell’allevamento dei figli. In molti casi, tale processo è stato incoraggiato anche da politiche attive, volte a favorire il coinvolgimento paterno. Emblematico in tal senso è il contenuto della Direttiva comunitaria sui congedi parentali1- recepita poi dai vari ordinamenti nazionali - che introduce il principio della sostituibilità dei genitori lavoratori nei compiti di cura,2 estendendo ai padri molti dei diritti che in passato erano riconosciuti alle sole lavoratrici madri.

Il capitolo è a cura di Maria Letizia Tanturri

Si ringrazia la dott.ssa Romina Fraboni per la predisposizione della base dati che ha permesso di sviluppare l'analisi presentata in questo capitolo.

1 Si tratta più precisamente della Direttiva n. 96/34/CE.

2 La Direttiva, prendendo spunto dalle avanzate legislazioni dei Paesi scandinavi, offre alle coppie un periodo di permesso ulteriore, se anche il padre sceglie di usufruire di parte del periodo di astensione dal lavoro per allevare il figlio. La direttiva è stata recepita dall’ordinamento italiano con la legge 8 marzo del 2000 (Gazzetta Ufficiale n. 60 del 13 Marzo 2000).

Da studi, condotti in diversi paesi, si evince che il tempo dei padri trascorso con i figli è effettivamente cresciuto in questi ultimi anni3, anche se si è ancora ben lontani dalla completa fungibilità dei ruoli materno e paterno. Nel nostro Paese, in particolare, stenta ad aver luogo una significativa ridefinizione del ruolo dei padri, che è ancora molto legato alla tradizionale e rigida specializzazione di genere. Ad esempio, una recente ricerca comparativa (Smith 2004) ha messo in luce che in Italia appena l’11% dei padri si occupa in modo “sostanziale” dei figli in età prescolare,4 contro il 57% dei danesi, il 31% dei finlandesi, il 24% dei britannici, il 20% dei tedeschi e il 16% dei francesi. La partecipazione dei padri italiani è più alta per coloro che hanno un livello di istruzione intermedio e un impiego da dipendente, nel pubblico o in una impresa di grandi dimensioni, se è maggiore il numero complessivo di figli, se anche la partner lavora (Smith 2004). Alcuni dei fattori indicati, dunque, sembrano legati alla “necessità”, quando implicano una sorta di “sostituzione” delle cure materne, indispensabile nel caso in cui la donna lavori e/o vi siano più bambini. Altri sembrano connessi maggiormente alla “possibilità” di dedicare tempo ai figli, ad esempio nel caso in cui i padri abbiano un tipo di impiego più tutelato o lavorino per meno ore.

La maggior parte della letteratura concorda nel ritenere che l’arrivo di un figlio porta ad una “cristallizzazione dei ruoli di genere” nell’ambito della coppia, con un aggravio di lavoro per la donna. Si parla, pertanto, di “doppio carico” (dual burden) per coloro che scelgono la “doppia presenza” nella famiglia e nel mercato del lavoro. La presenza di un figlio può rendere ancora più difficile la conciliazione dei ruoli dato che, di solito, porta ad un aumento del tempo dedicato alle attività domestiche e di cura e ad una conseguente compressione del tempo libero femminile. Analisi empiriche, rivelano che la nascita di un figlio aumenta la tensione e il livello di stress percepito dalle donne lavoratrici (Cromton 2004) e riduce il grado di soddisfazione nella relazione di coppia (Coltrane 1996). Spesso è proprio la “violazione delle aspettative” (Kalmuss et al. 1992, Romito e Saurel-Cubizolles 1998) da parte dei padri ad esacerbare le difficoltà delle donne che potrebbero, per questo, rinunciare ad avere altri figli. Nella letteratura americana si parlava di stalled revolution

3 Si consideri ad esempio lo studio di Fisher, McCulloch and Gershuny (1999) per il Regno Unito, Knijn e Selten (2002) per i Paesi Bassi, Halberg e Klevenmarken (2001) per la Svezia, Smith (2004) per tredici paesi dell’Unione Europea e Bianchi (2000) per gli Stati Uniti.

(Hochschild 1989), definizione che si attaglia bene anche al caso italiano attuale, dove alla crescente partecipazione lavorativa femminile, non si è accompagnata una decisa assunzione di responsabilità degli uomini nella condivisione di attività domestiche e di cura.

Solo recentemente la teoria della fecondità ha preso in considerazione in modo esplicito il ruolo dell’ineguaglianza di genere come fattore esplicativo della bassissima fecondità, osservata in molti paesi mediterranei tra cui l’Italia (Ongaro 2002). McDonald (2000), in particolare, suggerisce come possibile spiegazione la frattura che si è creata tra gli alti livelli di equità di genere nelle istituzioni che hanno a che fare con gli “individui” in quanto tali e la permanenza di bassi livelli di equità nella famiglia. Le opportunità lavorative che si presentano alle donne, oggi sempre più istruite, sono per molti versi assai simili a quelle maschili, ma possono ancora essere seriamente compromesse proprio dalla maternità, tanto che molte donne finiscono col ridurre il numero di figli o persino col rinunciare definitivamente ad averne (Scisci e Vinci 2002).

A livello macro, si nota con chiarezza che, tra i paesi sviluppati sono proprio quelli con una bassissima fecondità ad avere un sistema di genere meno equo rispetto ai paesi a fecondità relativamente più alta. Tipica, in tal senso, è la contrapposizione tra i due casi estremi: i Paesi scandinavi, da una parte, e quelli mediterranei, dall’altra. Sono poco numerosi e solo molto recenti, invece, gli studi volti a verificare empiricamente tale relazione a livello individuale (Olah 2004 riguardo alla transizione al secondo figlio in Ungheria e Svezia, Miller Torr e Short 2004 per gli Stati Uniti; Cooke, 2003 per Italia e Spagna; Mencarini e Tanturri 2004, limitatamente ai contesti urbani italiani). I risultati di questi studi, comunque, mostrano con chiarezza come per le madri lavoratrici il tempo a disposizione non sia sufficiente a coprire le necessità dei figli. In assenza di aiuti esterni, il comportamento del partner può giocare, pertanto, un ruolo fondamentale nella scelta di avere il secondo figlio e risolvere, almeno in parte, le costrizioni di tempo sperimentate dalle donne lavoratrici.

Il problema della conciliazione tra lavoro e famiglia può essere percepito in modo molto diverso dagli uomini e dalle donne, secondo “l’ipotesi dell’incompatibilità dei ruoli” (Lehrer and Nerlove 1986). Se le norme sociali prevedono che gli uomini abbiano come principale ruolo quello di provvedere alle esigenze economiche (provider) dei componenti della famiglia, l’attività lavorativa, diventa uno strumento proprio per meglio esercitare tale ruolo. Ben diverso è il caso delle donne, che

secondo le norme prevalenti hanno essenzialmente il ruolo di prendersi cura dei componenti della famiglia (carer): in tal senso il loro impegno sul mercato del lavoro viene ad essere decisamente in conflitto con il ruolo familiare. In questo lavoro analizzeremo proprio come le diverse combinazioni di condizione occupazionale e di istruzione di entrambi i partner abbiano un effetto sull’impegno dei padri nella cura dei figli piccoli.

6.2 - Coinvolgimento dei padri e caratteristiche della coppia

Nel documento Diventare padriin Italia (pagine 149-152)