PARTE III: IL CONTENUTO OGGETTIVO DELLA
CAPITOLO 3. LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA NEL
2. Le forme di protezione complementare non ancora
Già prima dell'entrata in vigore della Direttiva Qualifiche, forme di protezione erano concesse dagli Stati UE in presenza di rischi quali l'esecuzione della pena di morte, la tortura o altri trattamenti inumani o degradanti, ma anche in presenza di gravi malattie o disabilità che non sarebbero potute essere adeguatamente curate all'interno del Paese di origine del richiedente asilo. Qualora le suddette situazioni non fossero state idonee – ad esempio per la mancanza del nesso di causalità con una delle motivazioni previste dalla Convenzione di Ginevra – ad integrare la definizione di rifugiato, gli individui che ne avessero fatto richiesta avrebbero potuto pertanto essere ammessi a godere di permessi di soggiorno per motivi in senso lato definibili “umanitari”. La concessione di tali forme di protezione complementare era principalmente riconducibile alla necessità degli Stati di rispettare quelle obbligazioni internazionali che abbiamo visto derivare dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e dagli altri Trattati per la tutela dei diritti umani che gli Stati UE hanno nel corso del tempo ratificato (es. la Convenzione contro la Tortura) o di dar seguito a previsioni contenute nelle Costituzioni nazionali (v. Art. 10 Costituzione italiana).
Un recente Report dello European Migration Network133 afferma che
più di sessanta diverse forme di protezione complementare non armonizzate sono ancora oggi concesse nel territorio dei Paesi membri
133European Migration Network (EMN), The different national practices
concerning granting of non-EU harmonised protection statuses, Dicembre 2010,
dell'Unione Europea, nonostante l'istituzione e regolamentazione della protezione sussidiaria. Le forme di protezione complementare non armonizzate, concesse in base a normative nazionali, hanno presupposti simili a quelli previsti dalla Direttiva Qualifiche, ma non risultano sottoposte alle norme comunitarie, né per quanto concerne i diritti da esse attribuite, né per quanto riguarda le procedure con le quali sono concesse. A fini meramente classificatori, la stessa ricerca distingue tali forme di protezione complementare in tre tipologie:
1) la prima categoria comprende quelle forme di protezione “consistent with the Geneva Convention and/or EU acquis”, che garantiscono protezione sulla base di un giudizio della situazione in corso nel Paese di provenienza del richiedente asilo. Si tratta principalmente di quei permessi concessi in presenza di conflitti armati o altre situazione di grave violenza. 2) la seconda categoria riguarda, invece, “additional protection statuses”, basati per lo più sulla necessità di rispettare pienamente il principio di non refoulement, come interpretato in particolare dalla CEDU, ma anche da altri supervisory
bodies;
3) la terza e ultima categoria di permessi riguarda, infine, “other statuses or permits to stay” e copre un'ampia gamma di situazioni: in essa rientrano ad esempio quei permessi concessi da alcuni Paesi europei alle vittime di disastri ambientali, ma anche alle vittime della tratta di esseri umani o di altri particolari reati.
Per semplificare, possiamo comunque genericamente riferisci a tutte queste forme di protezione come “forme di protezione umanitaria” o “forme di protezione internazionale non armonizzate”. Non potendo analizzare singolarmente ciascuna di tali forme di protezione
complementare, ci converrà soffermarci su alcune di esse. Prendiamo, in particolare, il caso dei permessi derivanti dalla necessità per gli Stati di rispettare pienamente il principio di non refoulement. La giurisprudenza dalla CEDU in materia di protezione internazionale ha nel tempo ampliato gli obblighi degli Stati nazionali ben al di là delle ipotesi di non refoulement originariamente riconosciute. Nel caso
Pretty c. R.U., ad esempio, la Corte di Strasburgo ha affermato il
principio secondo il quale gli Stati possono essere chiamati a rispondere della violazione dell'Art. 3 CEDU, qualora sottopongano a espulsione un richiedente asilo le cui condizioni di salute – eccezionalmente gravi – sarebbero ulteriormente deteriorate in caso di rientro forzato nel Paese di origine.134 Conformemente a tale principio,
diverse legislazioni nazionali prevedono, per i cittadini di Stati terzi, la possibilità di richiedere un permesso per restare nel Paese in presenza di gravi motivi di salute.
Rispetto a tali permessi di soggiorno, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea è recentemente intervenuta (Caso M'body) affermando che essi non possono in alcun caso essere ricompresi nell'ambito della protezione sussidiaria. «The fact that a third country national suffering from a serious illness may not, under Article 3 ECHR as interpreted by the European Court of Human Rights, in highly exceptional cases, be removed to a country in which appropriate treatment is not available does not mean that that person should be granted leave to reside in a Member State by way of subsidiary protection under Directive 2004/83».135 I permessi di soggiorno come quelli rilasciati (nel caso
134CEDU, Sentenza del 29.3.2002, Caso Pretty c. R.U., p. 52: “The suffering which flows from naturally occurring illness, physical or mental, may be covered by Article 3, where it is, or risks being, exacerbated by treatment, whether flowing from conditions of detention, expulsion or other measures, for which the authorities can be held responsible”. Tale argomentazione è stata ripresa anche in CEDU, Sentenza del 27.5.2008, Caso R c. R.U., p. 29.
specifico) dalle autorità belga per gravi motivi di salute – si legge nella sentenza – non sono in grado di costituire “a subsidiary form of international protection for the purpose of Article 2(e) of Directive 2004/83”. Anzi, sempre secondo la medesima sentenza, tali forme devono essere assolutamente escluse dall'ambito di applicazione della Direttiva Qualifiche: «the granting of subsidiary protection status by a Member State to an individual in a situation such as that of Mr M’Bodj would not be compatible with the provisions or objectives of the Directive». Tale affermazione contrasta in maniera piuttosto stridente con lo scopo di incrementare gli standard riguardanti “both the grounds and the content of the protection in line with international standards”, affermato nel Memorandum annesso alla proposta di Direttiva formulata dalla Commissione nel 2001. La Sentenza M'body, inoltre, appare difficilmente compatibile col dettato dell'Art. 3 DQ, il quale afferma espressamente la facoltà degli Stati di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli “in ordine alla determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati o persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria” a patto che queste siano “compatibili con le disposizioni della presente direttiva”. Non si capisce, infatti, come disposizioni che mirano a tutelare uno dei diritti umani basilari (quale il diritto alla salute) possano essere considerate incompatibili con l'istituto europeo della protezione sussidiaria, la cui
ratio dovrebbe essere proprio quella di tutelare i cittadini di Stati terzi
e gli apolidi dal rischio di “danno grave” che possa verificarsi nel proprio Paese di provenienza.
In una prospettiva de iure condendo, la protezione sussidiaria dovrebbe essere estesa – a nostro avviso – almeno a tutti i soggetti considerati “non removable” alla luce della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo (laddove
ovviamente non vi siano i presupposti per riconoscere lo status di rifugiato). Un mezzo per ottenere tale risultato potrebbe essere quello di reintrodurre nella Direttiva Qualifiche una disposizione che la Commissione aveva originariamente proposto all'interno dell'Art. 15, ma che è stata poi cancellata dal testo definitivo approvato dal Consiglio. Ci riferiamo, cioè, alla disposizione che includeva, tra le possibili fonti di danno grave, la “violazione di uno dei diritti umani sufficientemente grave per far sorgere la responsabilità internazionale dello Stato membro”.136 Per capire cosa intendessero esattamente i
membri della Commissione con tale dicitura, possiamo leggere il
Memorandum esplicativo del 2001. «When considering granting
subsidiary protection status on the basis of this ground» – si legge nella nota all'Articolo 15 – «Member States shall have full regard to their obligations under human rights instruments, such as the ECHR, but shall limit its applicability only to cases where the need for international protection is required».137 In particolare – conclude la
stessa nota – gli Stati dovrebbero valutare se il rimpatrio di un richiedente asilo verso il suo Paese di origine o di residenza abituale possa dar luogo ad un “serious unjustified harm on the basis of a violation of a human right” e se sussista quindi una “extraterritorial obligation to protect”. Attraverso tale disposizione, la Direttiva ampliava la platea dei beneficiari di protezione sussidiaria a tutti quei soggetti che subissero violazioni di diritti umani tali da far sorgere un'obbligazione di non refoulement per lo Stato di rifugio, permettendo
136Art. 15(b), Proposta di direttiva del Consiglio recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi ed apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto dello status di protezione, COM(2001) 510 def., (Presentata dalla Commissione il 30 ottobre 2001).
137Commissione europea, Explanatory Memorandum, Proposta di direttiva del Consiglio recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi ed apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto dello status di protezione, COM(2001) 510 def., (Presentata dalla Commissione il 30 ottobre 2001).
così di aggiornare costantemente la disposizione sulla base dell'evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo (e non solo). La cancellazione di tale previsione – afferma McAdam – ha invece drammaticamente ridotto lo scopo della Direttiva. Era questa, infatti, la previsione che più di ogni altra avrebbe potuto permettere “the greatest development of the human rights-refugee law nexus”, garantendo “flexibility for addressing new situations in international law and relevant developments in the jurisprudence of the European Court of Human Rights”.138 Sembra assurdo – conclude lo stesso
McAdam – escludere “known protection categories” (quali appunto quelle previste dalla giurisprudenza della CEDU) dall'ambito della Direttiva, dal momento che “Doing so does not delete such categories, but simply recasts the class of non removables with an ill-defined legal status”. Restringere il campo di applicazione della protezione sussidiaria comporta, insomma, come logica conseguenza quella di ampliare il campo della protezione umanitaria concessa dai singoli Stati.
Uno dei problemi principali insito nella protezione umanitaria è che questa è spesso garantita sulla base di disposizioni normative assolutamente generiche, che lasciano quindi ampi margini di discrezionalità alle autorità amministrative. Una ricerca dell'ECRE del 2009 affermava, infatti, quanto segue: «All ten States, except for Switzerland, adopt general humanitarian clauses expressed in terms like “exceptional circumstances”, “humanitarian reasons”, “compassionate grounds” and “individual circumstances”. Their interpretation is ultimately decided by decision-makers, being judges, immigration officers or Ministers, with different levels of discretion and deference to previous decisions. […] Under these general clauses,
138McADAM, Complementary Protection in International Refugee Law, Oxford, 2007, pag. 83.
the decision whether to provide protection depends upon discretionary determinations of what is, for instance, “exceptional” or “compassionate”».139
In Italia, ad esempio, l'Art. 5, comma 6 del D.lgs. 286/1998 (c.d. “Testo unico in materia di immigrazione”) prevede che debba essere rilasciato un permesso di soggiorno in presenza di “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”, specificando che il permesso per motivi umanitari è rilasciato dal questore “secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione”. Né il T.U. né il successivo Regolamento attuativo (D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394), tuttavia, forniscono una definizione puntuale di cosa debba intendersi per motivi umanitari, lasciando pertanto ampi margini di discrezionalità al questore territorialmente competente. Il Decreto legislativo 25/2008 prevede, inoltre, che il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari possa essere proposto al Questore da parte delle stesse Commissioni Territoriali competenti ad esaminare le domande di riconoscimento degli status di protezione internazionale contemplati dalla disciplina europea. L'Art. 32(3) afferma, infatti: «Nei casi in cui
non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la
Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l'eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell'articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286». Anche in questo caso, nessun tipo di ragguaglio è fornito circa le motivazioni sulla base delle quali tale permesso debba essere garantito.140
139European Council on Refugees and Exiles (ECRE), Complementary Protection
in Europe, 29 July 2009, p. 9, disponibile in:
http://www.refworld.org/docid/4a72c9a72.html
140Nella prassi, tale permesso è stato concesso per motivazioni che vanno dalle gravi violazioni dei diritti umani nel Paese di provenienza del richiedente asilo ai gravi
Altro problema dell'incompleta armonizzazione è che – secondo quanto riscontrato dal medesimo studio dell'ECRE sopra menzionato – nella maggior parte degli Stati in cui la Direttiva Qualifiche è stata attuata, i beneficiari di forme di protezione umanitaria continuano a ricevere “lower Standards of social rights than beneficiaries of subsidiary protection”141. In Italia, ad esempio, a differenza di quanto
previsto dalla Direttiva Qualifiche, il permesso per motivi umanitari non dà diritto al ricongiungimento per motivi familiari e comporta una serie di limitazioni alla libertà di movimento del beneficiario. Anche in materia di assistenza sociale, inoltre, il permesso per motivi umanitari garantisce una serie più limitata di provvidenze assistenziali di quanto non facciano i permessi rilasciati in seguito al riconoscimento degli Status di protezione internazionale disciplinati dalla Direttiva Qualifiche.142 Analoga situazione è stata riscontrata in diversi altri Stati
europei. In Austria, ad esempio, mentre i beneficiari di protezione sussidiaria hanno pieno accesso al lavoro (secondo quanto previsto dalla Direttiva Qualifiche), i titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari non hanno accesso alle professioni liberali e hanno l'onere di ottenere permessi di lavoro, di difficile acquisizione, per poter stipulare contratti di lavoro subordinato.143 Inoltre, essendo tali
forme di protezione escluse dal regime previsto dalla Direttiva Qualifiche, esse hanno durata variabile da Stato a Stato. In alcuni Paesi, ad esempio, tra cui la stessa Italia, ma anche l'Irlanda, Malta e il
motivi di salute addotti dallo stesso richiedente.
141European Council on Refugees and Exiles (ECRE), Complementary Protection
in Europe, 29 July 2009, p. 9, disponibile in:
http://www.refworld.org/docid/4a72c9a72.html
142Fondo Europeo per i Rifugiati, Il Regolamento Dublino e la procedura di asilo in
Italia italiano Conosci i tuoi diritti? Guida per richiedenti asilo, disponibile al
sito:
http://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/23/9979_ italiano.pdf
Portogallo, la durata è di un anno (rinnovabile), in altri invece varia a seconda della natura delle motivazioni alla base della concessione del permesso; altri Paesi ancora, come la Svezia, garantiscono invece un permesso di soggiorno permanente che può essere revocato solo in presenza di gravi motivi di ordine pubblico.144
Ad oggi, quello della c.d. “protezione umanitaria” è un fenomeno ancora tutt'altro che marginale da un punto di vista quantitativo. Alcuni Stati europei, infatti, tendono ancora a concedere tali forme di protezione in maniera massiccia, anche a causa dell'interpretazione piuttosto restrittiva dei presupposti per accedere alla protezione sussidiaria. Nella maggior parte dei Paesi in cui sono previste forme di protezione umanitaria, infatti, la sussistenza dei presupposti per accedervi è valutata nella medesima procedura nella quale viene valutata la sussistenza dei presupposti per accedere allo status di rifugiato o a quello di beneficiario di protezione sussidiaria.145 Ciò fa sì
che la protezione umanitaria sia talvolta concessa a scapito di una delle due forme di protezione previste dalla Direttiva Qualifiche, laddove si potrebbero invece ritenere integrati i presupposti per il riconoscimento di uno dei due status “armonizzati”, alla luce di una lettura meno restrittiva dei criteri dettati dall'Art. 15 DQ.146 Un indizio di tale
atteggiamento possiamo riscontrarlo nella percentuale decisamente elevata di permessi per protezione umanitaria concessi da alcuni Stati rispetto al numero totale di richieste di protezione accolte. In Italia, ad
144European Migration Network (EMN), The different national practices
concerning granting of non-EU harmonised protection statuses, Dicembre 2010,
disponibile in: http://www.refworld.org/docid/51b05e734.html
145UNHCR, Safe at last?, ibidem, p. 86: With the exception of Belgium and France, the other four Member States have national complementary protection statuses which do not derive from the Qualification Directive, but whose applicability is examined within the asylum procedure and which may provide a form of protection to significant numbers of persons fleeing indiscriminate violence. 146Come notato anche in: FEIJEN, Filling the Gaps? Subsidiary Protection and
Non-EU Harmonized Protection Status(es) in the Nordic Countries, International
esempio, nel 2014 quasi la metà dei permessi di soggiorno per protezione internazionale sono stati concessi sulla base di motivi umanitari.147 Fenomeno analogo si riscontra in Finlandia, dove –
sempre nel 2014 – sono stati riconosciuti 300 casi di “protezione umanitaria” su un totale di 1.270 accoglimenti di richieste di protezione internazionale.148 Della tendenza a concedere status di
protezione non armonizzati e meno garantisti della protezione sussidiaria – da parte di alcuni Stati europei – dà conto anche lo stesso Report (sopra citato) dello European Migration Network,149 nel quale si
afferma: “The findings presented here indicate that, in some Member States, where national statuses compete with EU acquis, there might be a danger that protections standards are lowered”. “This” – spiega il Report – “may arise when individuals are more frequently granted the national protection status which provides for a lower form of protection in terms of grounds, procedures and rights”.
Anche ammettendo, comunque, che i presupposti per accedere alle diverse forme di protezione siano valutati in maniera corretta da parte dei competenti organi nazionali, resterebbe comunque il fatto che l'applicazione di forme di protezione complementare non armonizzate è un fenomeno ancora largamente diffuso in Europa, nonostante l'istituzione della protezione sussidiaria. Il che dovrebbe far ritenere che la protezione sussidiaria abbia svolto finora un ruolo ancora limitato nel sistema europeo di protezione internazionale. A sostegno di quanto detto, possiamo prendere ad esempio il recente caso di un
147Fonte Eurostat, disponibile in:
http://ec.europa.eu/eurostat/documents/4168041/6742650/KS-QA-15-003-EN- N.pdf/b7786ec9-1ad6-4720-8a1d-430fcfc55018, p. 12.
148Fonte Eurostat, disponibile in: http://ec.europa.eu/dgs/home-affairs/what-we- do/networks/european_migration_network/reports/docs/country-
factsheets/09.finland_emn_country_factsheet_2014.pdf, p. 5.
149European Migration Network (EMN), The different national practices
concerning granting of non-EU harmonised protection statuses, Dicembre 2010,
cittadino bengalese, residente in Italia dal 2004, che aveva fatto richiesta di riconoscimento di protezione internazionale a causa della situazione di violenza generalizzata presente nel suo paese. Essendosi visto respingere la richiesta di protezione internazionale dalla Commissione Territoriale di Caserta, il soggetto aveva fatto ricorso al Tribunale di Napoli. Quest'ultimo, dopo aver descritto l'escalation di scontri tra le forze governative ed i principali partiti di opposizione, affermava testualmente: «Ovviamente, le vere vittime della situazione sono i comuni cittadini: nessuno può uscire per andare in ufficio, ogni attività minima è ferma; i prezzi dei beni di base aumentano esponenzialmente».150 Dalle stesse parole utilizzate nell'ordinanza,
inoltre, risultava che tra le pratiche utilizzate dalla polizia bengalese per reprimere le proteste vi fosse quella di sparare sui manifestanti; questi ultimi, sempre stando alla ricostruzione del Tribunale, rispondevano lanciando bombe molotov e altri ordigni artigianali. Il giudice, quindi, aveva ben chiara la situazione di gravi violenze e diffuse violazioni dei diritti umani, così come era consapevole del fatto che tale situazione non accennasse a fermarsi, come afferma in conclusione. Ciononostante, ha escluso l'applicazione della protezione sussidiaria. Al suo posto, invece, ha riconosciuto – al soggetto in questione – il diritto di ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari, ritenendo non integrate né la fattispecie persecutoria né quella del danno grave.
L'introduzione – all'interno dell'Art. 15, Direttiva Qualifiche – di una norma “di chiusura” a tutela di chiunque rischi di subire nel proprio Paese di origine una violazione grave dei diritti umani sarebbe pertanto quanto mai opportuna: tale operazione, infatti, permetterebbe di ricondurre nell'ambito della protezione sussidiaria diverse forme di