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LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA QUALE FORMA COMPLEMENTARE DI TUTELA DEI RICHIEDENTI ASILO: RUOLO E LIMITI DELL'ISTITUTO

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Indice

INTRODUZIONE

...5

CAPITOLO 1. LA NOZIONE DI RIFUGIATO E IL

PRINCIPIO DI NON REFOULEMENT: LE

FONDAMENTA

DELLA

PROTEZIONE

INTERNAZIONALE

PARTE I: LA NOZIONE “CONVENZIONALE” DI RIFUGIATO 1. La paura di subire una persecuzione...9 2. I motivi della persecuzione...26 3. La nozione di rifugiato nella “Direttiva Qualifiche”...29 4. Le recenti pronunce della Corte di Giustizia sulla nozione di persecuzione. ...35

4.1 Il caso Bundesrepublik Deutschland contro Y e Z ...35 4.2. Il caso Minister voor Immigratie en Asiel contro X, Y

e Z...39

PARTE II: IL PRINCIPIO DI NON REFOULEMENT DALLA CONVENZIONE DI GINEVRA AD OGGI

1. Il principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra...44 2. L'estensione dell'ambito di applicazione del non refoulement ad opera dei successivi trattati internazionali per la tutela dei diritti umani...51 3. Il ruolo della CEDU nell'affermazione del principio di non respingimento...54

(2)

4. Il principio di non respingimento come elemento comune alle

diverse forme di protezione internazionale. ...61

CAPITOLO 2. L'ISTITUTO EUROPEO DELLA

“PROTEZIONE SUSSIDIARIA”: CARATTERI

FONDAMENTALI

PARTE I: LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA QUALE STRUMENTO EUROPEO DI PROTEZIONE COMPLEMENTARE 1. Dall'estensione del principio di non refoulement alla creazione di un apposito status...64

2. Il processo di fondazione di un sistema di asilo europeo...66

3. La “Direttiva qualifiche” quale fonte normativa europea della protezione sussidiaria...74

PARTE II: I REQUISITI PER ACCEDERE ALLA PROTEZIONE SUSSIDIARIA...75

1. La definizione di “beneficiario di protezione sussidiaria” ...75

2. La nozione di “danno grave”...79

2.1. La condanna o l'esecuzione della pena di morte...79

2.2. La tortura e gli altri trattamenti inumani o degradanti....81

2.3. La minaccia derivante da violenza indiscriminata ...81

3. Il carattere temporaneo della protezione sussidiaria...89

4. Le cause di esclusione ...90

PARTE III: IL CONTENUTO OGGETTIVO DELLA PROTEZIONE SUSSIDIARIA 1. Disposizioni generali ...94

(3)

2. La protezione dal respingimento ...95

3. Il diritto di ricevere informazioni...96

4. Il mantenimento dell'unità del nucleo familiare ...96

5. Il permesso di soggiorno...98

6. I documenti di viaggio...103

7. L'accesso all'occupazione, all'istruzione e alle procedure di riconoscimento delle qualifiche ...103

8. L'assistenza sociale...105

9. L'assistenza sanitaria ...106

10. La tutela del minore non accompagnato ...106

11. Le ulteriori garanzie per il beneficiario di protezione internazionale ...108

CAPITOLO 3. LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA NEL

SISTEMA EUROPEO DI PROTEZIONE

INTERNAZIONALE:

RUOLO E LIMITI

DELL'ISTITUTO

1. L'incompleto avvicinamento delle due forme di protezione internazionale disciplinate dalla Direttiva Qualifiche ...110

2. Le forme di protezione complementare non ancora armonizzate...113

3. La disomogenea applicazione della Direttiva Qualifiche da parte degli Stati membri dell'Unione...125

4. Il ruolo della Corte di Giustizia e dell'Ufficio Europeo di Sostegno per l'Asilo nel processo di armonizzazione...130

CONCLUSIONI

...140

(4)

DOCUMENTI E REPORT

...151

CASI GIURISPRUDENZIALI

...154

TRATTATI INTERNAZIONALI

...156

(5)

INTRODUZIONE

La redazione di questa tesi prende spunto da alcune riflessioni di carattere generale sul rapporto tra tutela dei diritti umani e diritto di asilo in Europa, e dalla volontà di approfondire la conoscenza di un ambito del diritto sempre più rilevante alla luce anche dei drammatici avvenimenti di attualità. Partendo in particolare dalla lettura di due saggi – “International Refugee Law and Socio-economic Rights” di Michelle Foster1 e “Complementary Protection in International

Refugee Law” di Jane McAdam2– ci siamo posti una serie di domande

alle quali abbiamo cercato di rispondere nel corso della nostra ricerca. La prima fondamentale domanda riguarda i soggetti ritenuti meritevoli di protezione internazionale nel quadro del c.d. “Common European Asylum system”: quali sono cioè le categorie di migranti ai quali gli ordinamenti nazionali europei garantiscono oggi una qualche forma di protezione internazionale? La seconda domanda, a nostro avviso altrettanto importante, riguarda invece il tipo di tutela a cui tali soggetti possono accedere: è possibile, cioè individuare, a livello europeo, un unico status di protezione internazionale, che garantisca cioè pari diritti e benefici, o ci troviamo piuttosto di fronte ad un sistema di norme complesso e non sempre perfettamente coerente?

Nel cercare di rispondere a queste due domande principali, e a quelle ulteriori che emergeranno nel corso della trattazione, dovremo tenere conto di alcuni elementi di complessità della materia. Uno di questi è la pluralità di livelli decisionali territoriali che la disciplinano. Dobbiamo, infatti, fin da subito inquadrare la materia dell'asilo in

1 FOSTER, International Refugee Law and Socio-economic Rights, Cambridge, 2012

2 McADAM, Complementary Protection in International Refugee Law, Oxford, 2007

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Europa all'interno di un quadro giuridico internazionale, i cui principi fondamentali – dettati innanzitutto dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e dal relativo Protocollo addizionale del 1967 – sono andati nel corso del tempo arricchendosi, al punto che possiamo oggi parlare di un vero e proprio corpus normativo internazionale (c.d. International

refugee law). La stessa legislazione europea, sia primaria che derivata,

rinvia continuamente a queste fonti, che dovremo pertanto almeno in parte richiamare.

Il primo capitolo della nostra tesi comincerà, quindi, da una ricostruzione dei principi fondanti la materia della protezione internazionale. Dovremo, in primo luogo, fornire una definizione della nozione di rifugiato quale derivante dal testo della Convenzione di Ginevra, poi ripreso e specificato dalla normativa comunitaria. Una volta fornita questa prima definizione, sposteremo la nostra attenzione sulla garanzia fondamentale a tutela di chiunque sia ritenuto meritevole di protezione internazionale: il principio di non refoulement. Affermato in origine dalla Convenzione del 1951, con riferimento ai soli rifugiati, l'ambito di applicazione di tale principio è stato successivamente esteso – dalla normativa pattizia e giurisprudenziale in materia di diritti umani internazionali – ad una platea ben più vasta di soggetti. Cercheremo quindi di mostrare, nel corso dell'esposizione, come tale normativa, stratificatasi nel corso del tempo, abbia a vario titolo influito e continui ad influire nell'evoluzione della Refugee law.

Ricostruite quelle che possiamo considerare le basi della materia, potremo concentrarci poi sul ruolo armonizzatore svolto dall'Unione europea in materia di riconoscimento degli status di protezione internazionale. A partire dai primi anni Duemila, infatti, in virtù delle disposizioni contenute nel Titolo IV (specificatamente all'Art. 63) del

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Trattato istitutivo della Comunità Europea, il Consiglio dell'Unione Europea si è fatto carico di emanare una serie di importanti fonti normative derivate in materia di asilo. Tale attività legislativa è proseguita, dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, con la finalità – espressamente dichiarata dal nuovo Art. 78 TFUE – di offrire

uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e garantire il rispetto del principio di non respingimento, in conformità con la convenzione di

Ginevra del 1951, il protocollo del 1967 e gli “altri trattati pertinenti”. Nel secondo capitolo della nostra tesi cercheremo, quindi, di analizzare dettagliatamente l'istituto della “protezione sussidiaria”, che ha trovato una sua prima puntuale regolamentazione nella Direttiva 2004/83/CE (c.d. “Direttiva Qualifiche”).3 Tale istituto rappresenta il primo

tentativo – compiuto a livello sovranazionale – di garantire uno status di tutela analogo a quello previsto dalla Convenzione di Ginevra per una serie di soggetti che, pur non possedendo tutti i requisiti per essere riconosciuti rifugiati, siano altresì ritenuti meritevoli di tutela. Stando ai considerando della stessa Direttiva Qualifiche, infatti, tale forma di protezione si dovrebbe configurare come “complementare e supplementare rispetto alla protezione dei rifugiati sancita dalla convenzione di Ginevra”. Nell'analizzare tale forma di protezione, tenteremo pertanto di capire, innanzitutto, quali siano i presupposti per il suo riconoscimento e in che modo eventualmente essa abbia contribuito ad ampliare l'area dei soggetti beneficiari di protezione internazionale in Europa. Vedremo, inoltre, quali diritti comporta lo status di beneficiario di protezione sussidiaria, ovvero quale sia oggi il contenuto di tale status, alla luce anche delle modifiche apportate alla disciplina originaria da parte della Direttiva Qualifiche Recast del

3 Direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29.3.2004, recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta

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2011.

Il terzo ed ultimo capitolo del nostro elaborato, infine, proverà a valutare la portata dell'opera riformatrice condotta dall'Unione europea. Cercheremo, in particolare, di capire che ruolo abbia svolto l'istituto della protezione sussidiaria nel processo di armonizzazione in materia di protezione internazionale. Il Considerando n° 6 della Direttiva Qualifiche, infatti, individuava come ratio della stessa normativa comunitaria quella di completare lo status di rifugiato con “misure relative a forme sussidiarie di protezione che offrano uno status adeguato a chiunque abbia bisogno di protezione internazionale”. È possibile affermare che tale obiettivo sia stato oggi completamente raggiunto da parte dell'Unione Europea? E se così non fosse, attraverso quali strumenti sarebbe possibile ottenere un simile risultato?

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CAPITOLO 1

LA NOZIONE DI RIFUGIATO E IL

PRINCIPIO DI NON REFOULEMENT:

LE

FONDAMENTA DELLA

PROTEZIONE INTERNAZIONALE

PARTE I: LA NOZIONE “CONVENZIONALE” DI

RIFUGIATO

1. La paura di subire una persecuzione

L'Articolo 1, lett A), n°1 della Convenzione si limita a confermare lo

status di rifugiato in capo a coloro che fossero stati dichiarati tali in

virtù di una serie di accordi stipulati tra il 1926 e il 1939, accordi che hanno perso ad oggi gran parte della loro importanza. Eviteremo pertanto di soffermarci ulteriormente su questa norma, che abbiamo richiamato esclusivamente per ragioni di completezza espositiva. Una fondamentale nozione di carattere generale ci viene fornita, invece, dall'articolo 1, lett. A), n° 2 che estende lo status di “rifugiato” a “chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole

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ritornarvi”.

Rispetto a quanto citato, bisogna innanzitutto precisare che il testo dell'articolo 1 deve essere letto in combinato disposto con il Protocollo addizionale firmato a New York nel 1967, il quale ha in particolare cancellato i limiti temporali e geografici previsti nel testo originale della Convenzione. Nelle intenzioni originali delle parti contraenti, infatti, la protezione garantita dalla convenzione avrebbe dovuto riguardare esclusivamente gli eventi prodotti in Europa dal secondo conflitto mondiale. Questa circostanza di carattere storiografico dovrebbe consentirci di intuire il perché di certe scelte normative operate dai negoziatori, che possono oggi apparire “retrograde”4; ma, soprattutto, dovrebbe avvalorare la tesi della

necessità di reinterpretare tali scelte alla luce dell'evoluzione nel frattempo intervenuta all'interno dell'ordinamento internazionale, con particolare riferimento alla tutela dei diritti umani. L'entrata in vigore del Protocollo del 1967, infatti, ha di fatto reso la Convenzione uno strumento di carattere generale, applicabile ben oltre i ristretti confini spazio-temporali all'interno dei quali avrebbe dovuto essere applicata. L'opzione per un'interpretazione evolutiva delle norme convenzionali, poi, oltre ad andare incontro ad esigenze politiche, a nostro avviso, particolarmente pressanti nell'ambito della tutela dei richiedenti asilo, è stata ormai sostenuta da una pluralità di organi consultivi e giurisdizionali, oltre che da diversi commentatori. Tra questi ultimi, Foster, in particolare, ricostruisce i presupposti che possono giustificare un'interpretazione evolutiva delle disposizioni convenzionali.

4 LENZERINI, Diritto d'asilo e esclusione dello status di rifugiato. Luci e ombre

nell'approccio della corte di giustizia dell'UE, in Rivista di diritto internazionale

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Secondo l'autore appena menzionato, la necessità di una lettura evolutiva del testo di un trattato internazionale è talvolta il risultato di una scelta espressamente e consapevolmente manifestata dalle parti contraenti. Come prima cosa, dunque, l'interprete dovrebbe compiere un'attenta analisi del testo della Convenzione, per cercare elementi dai quali emerga eventualmente la volontà di consentire – “from the beginning of the treaty's operation” – una lettura evolutiva degli accordi intercorsi.5 In tal senso però, la stessa Foster riconosce la

difficoltà di una simile investigazione, citando fra l'altro le parole usate dalla Commissione del diritto internazionale (ILC), la quale, in un Report del 2005, afferma la necessità di trovare “concrete evidence” della suddetta volontà delle parti “in the terms themselves”.6

Di più immediata applicabilità appare pertanto, ai nostri fini, un'altra proposta esegetica avanzata dalla dottrina, che trova, peraltro, solido fondamento giuridico nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (del 1969). Secondo quest'ultima ricostruzione, un altro metodo per stabilire se una certa nozione possa o meno essere sottoposta ad una lettura evolutiva è quello di fare riferimento all'oggetto e alle

finalità del trattato. Non è difficile immaginare, afferma sempre Foster,

“that the object and purpose of a human rights treaty could be undermined by a statistic interpretation that confined the meaning of key terms to the understanding that prevailed at the time of its formulation”. Quest'ultima argomentazione trova riscontro, peraltro, nell'elaborazione della Commissione Esecutiva dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR nell'anagramma anglofono), la quale ha di recente affermato: “Refugee

5 FOSTER, International Refugee Law and Socio-economic Rights, Cambridge, 2012, p. 61

6 ILC, Report of the International Law Commission: Fifty-Seventh Session, UN Doc. A/60/10 (2005), p. 219

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law is a dynamic body of law based on the obligations of State Parties to the 1951 Convention and its 1967 Protocol and, where applicable, on regional protection instruments, and which is informed by the object and purpose of these instruments and by developments in related areas of international law, such as human rights and international humanitarian law bearing directly on refugee protection”.7

Con riferimento a quanto detto fin qui, dobbiamo peraltro fare una precisazione, che ci servirà anche ad analizzare la nozione di “rifugiato”. Abbiamo, infatti, affermato che la necessità di un approccio evolutivo è probabilmente desumibile più dalla ricostruzione dell'oggetto e degli scopi della Convenzione, che non da un'espressa manifestazione di volontà ad opera delle parti. Tuttavia, dobbiamo puntualizzare che la mancanza di un'espressa manifestazione di volontà in tal senso (all'interno della Convenzione) non esclude comunque che la stessa volontà possa essere comunque desumibile o, quanto meno, ipotizzabile dall'assenza di elementi definitori inequivocabili nel testo della stessa Convenzione. Quest'ultimo discorso diventa facilmente comprensibile e, auspicabilmente, condivisibile se riferito agli elementi principali della nozione stessa di rifugiato e, in particolare, all'elemento della “persecuzione”, che di tale nozione costituisce senza dubbio la chiave di volta. Se è vero, infatti, che le parti non hanno esplicitamente affermato la volontà di lasciare aperta all'evoluzione giurisprudenziale successiva l'interpretazione della nozione di “persecuzione”, è altresì vero che, non avendo provveduto esse stesse a fornire una definizione legale di tale termine, esse hanno, quantomeno implicitamente, accettato l'idea che ogni

7 Executive Committe (UNHCR), Conclusion on the Provision of International

Protection Including Through Complementary forms of Protection (103/2005),

para (c) <http://www.unhcr.org/cgi-bin/texis/vtx/excom/opendoc.htm? tbl=EXCOM&id=43576e292>

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possibile forma di persecuzione (purché causata da uno dei motivi elencati all'articolo 1) sarebbe potuta essere in futuro ricondotta all'interno di tale fattispecie.8

Alla luce delle considerazioni di carattere generale svolte fin qui, possiamo adesso cercare di analizzare nel dettaglio la definizione di “rifugiato”, scomponendola nei suoi elementi principali.

Il primo elemento che emerge dal testo è quello della paura, fondata, di essere sottoposti a persecuzione: nel testo originale inglese si parla, infatti, di “well-founded fear of being persecuted”. Rispetto agli strumenti precedenti, la Convenzione di Ginevra aggiunge un elemento di carattere soggettivo tra i requisiti che gli Stati sono chiamati a valutare ai fini della determinazione dello status di rifugiato. La paura, infatti, come rilevato dall'“Handbook and guidelines on procedures and criteria for determining refugee status” dell'Alto Commissariato, è sicuramente uno “state of mind” e, conseguentemente, una condizione soggettiva che può variare notevolmente da individuo a individuo. Risulta, pertanto, evidente come fattori quali l'età, ma anche in senso lato la personalità o lo stato di salute dell'individuo possano incidere sulla sua percezione del pericolo e debbano, di conseguenza, essere presi in considerazione nella valutazione, operata dagli organi nazionali competenti, della sua richiesta di protezione.9 Il suddetto

elemento soggettivo, tuttavia, deve essere “well-founded”, ovvero supportato da una “objective situation”.10 Pertanto, la conoscenza – da

parte degli organi competenti a valutare le richieste di protezione –

8 UN High Commissioner for Refugees (UNHCR), Interpreting Article 1 of the

1951 Convention Relating to the Status of Refugees, April 2001, available at:

<http://www.refworld.org/docid/3b20a3914.html> [accessed 27 April 2015]. 9 UNHCR, Handbook and guidelines on procedures on and criteria for

determining refugee status under the 1951 Convention and the 1967 Protocol relating the status of refugees, Reissued Geneva, 2011, p. 11

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delle condizioni proprie del Paese di provenienza del richiedente asilo risulterà senz'altro un elemento importante nel valutare la credibilità del richiedente stesso. In particolare, nella valutazione della fondatezza della richiesta di protezione, notevole importanza rivestiranno non soltanto le leggi del Paese di provenienza, ma anche (rectius, soprattutto) le modalità con le quali tali leggi sono concretamente applicate dalle autorità statali.

Possiamo adesso focalizzare la nostra attenzione su quello che è l'oggetto della suddetta paura, e che abbiamo già definito come l'elemento chiave nella definizione di rifugiato, ovvero la nozione di persecuzione. Dall'interpretazione di tale termine, infatti, dipendono gran parte delle potenzialità di tutela offerte dalla Convenzione di Ginevra. Non è un caso, quindi, che proprio con riferimento a tale nozione si siano maggiormente concentrati gli sforzi interpretativi dei sostenitori di un approccio “human-rights based” della tutela dei rifugiati. La stessa nozione di persecuzione, inoltre, è stata oggetto di un tentativo definitorio da parte del Parlamento Europeo e del Consiglio dell'Unione Europea: la c.d. “Direttiva qualifiche”, infatti, all'articolo 9, elenca gli “atti di persecuzione”, specificandone poi, nel successivo articolo 10, i possibili motivi. Infine, un tentativo di delineare i confini della suddetta nozione è stato di recente effettuato anche dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con le sentenze “Germany v Y and Z” del 5 settembre 2012 e “X, Y and Z” del 7 novembre 2013.

Un ottimo resoconto dei vari approcci utilizzati fino ad oggi per definire l'essenza del fenomeno persecutorio ci è fornito da un recente articolo del Dottor Hugo Storey, dal titolo “What constitutes persecution? Towards a working definition”. Data la complessità del

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tema, riteniamo utile ai nostri fini partire proprio da una ricostruzione del lavoro sopra menzionato, che cercheremo ovviamente di integrare con l'ausilio di altre fonti. L'autore (“Senior Judge of the U.K. Upper Tribunal Immigration and Asylum Chamber”), individua una serie di tentativi di definire la nozione di “persecuzione”, che cercheremo di riassumere brevemente prima di soffermarci in maniera decisamente più esaustiva su quello che, ad avviso della dottrina prevalente, rappresenta, ad oggi, il punto di arrivo della discussione:11

1) “national law definitions”: quest'approccio è consistito storicamente nella scelta, compiuta da alcuni Stati membri della Convenzione di Ginevra, di fornire definizioni puntuali di “persecuzione” attraverso atti legislativi; esempio di quest'approccio è la definizione contenuta nel “Australia's Migration Act” del 1958. Quest'approccio, se da un lato mira a promuovere il principio di certezza del diritto, dall'altro comporta inevitabilmente il rischio di fissare su scala nazionale una definizione non necessariamente condivisa su scala internazionale.

2) “dictionary definitions”: questo secondo approccio rappresenta, invece, il primo tentativo definitorio svolto dalle corti e dai tribunali nazionali, laddove la legge non si era preoccupata di fornire definizioni particolari della nozione al centro della nostra attenzione. Tuttavia, anche questo secondo tentativo interpretativo risulta facilmente tacciabile di particolarismo, dal momento che ogni dizionario può adottare definizioni dello stesso termine anche considerevolmente diverse, specie da uno Stato all'altro. Inoltre, trapiantando pedissequamente le definizioni dai dizionari all'interno delle loro decisioni, i giudici compivano di fatto un'operazione di non-interpretazione

11 STOREY, What constitutes persecution? Towards a working definition, in

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piuttosto che di interpretazione, col risultato di farcire le sentenze stesse di un linguaggio assolutamente a-giuridico, e anzi talvolta persino moraleggiante. Tanto per dare un esempio, nel 1997, un giudice australiano, Gummon J, citando l'Oxford English Dictionary, definì la persecuzione come “the action of persecuting or pursuing with enmity and malignity […]”12.

3) “hermeneutical definitions”: questo terzo approccio tenta di risalire al significato di “persecuzione” partendo da dati letterali interni al testo della stessa Convenzione. Il risultato a cui sono giunti diversi commentatori è stato quindi di definire persecutorie le minacce alla “vita” o alla “libertà” di un individuo dovute a uno dei motivi elencati dall'articolo 33 (razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale, opinioni politiche). Lungi dal dare una definizione chiara del fenomeno analizzato, quest'ultimo tentativo da luogo a ulteriori sforzi interpretativi di non facile soluzione: cosa s'intende infatti per minaccia alla vita? Quali atti, inoltre, possono essere ricondotti nell'ancora più amorfa categoria delle minacce alla libertà?

4) “enumerative definitions”: questo quarto approccio rappresenta probabilmente un tentativo di rispondere agli interrogativi lasciati irrisolti dal precedente, attraverso l'elencazione di una serie di casi – tratti da giurisprudenza, lavori preparatori, materiali dell'Alto Commissariato per i rifugiati, etc. – in cui sicuramente si è in presenza di persecuzione. Al di là dell'ovvia constatazione che nessun elenco potrà mai essere esaustivo dal momento che nuove forme di persecuzione potranno sempre emergere, è intrinseca all'approccio analizzato un'ulteriore insormontabile criticità: “it does not tell us the criteria for

12 High Court of Australia, sentenza del 24.2.1997, Caso Applicant A v Minister for

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inclusion”.13

5) “human rights approach” e “circumstancial approach”: analizzeremo questi due approcci contemporaneamente sia perché sono, ad avviso di Storey, gli unici due approcci attualmente ancora adottati nella prassi, sia perché tra di loro esistono strette correlazioni che sarà il caso di esporre. Per quanto riguarda il primo dei due approcci appena menzionati, esso trova la sua prima fondamentale formulazione all'interno dell'opera “Law of Refugee Status” di James Hathaway. Il secondo invece, quello “circostanziale”, trova il suo fondamento nell'Handbook dell'Alto Commissariato sopra menzionato. Di quest'ultimo ci sembra utile riportare qui, almeno parzialmente, due paragrafi, il 51 e il 52:

«51. […] From Article 33 of the 1951 Convention, it may be inferred that a threat to life or freedom on account of race, religion, nationality, political opinion or membership of a particular social group is always persecution. Other serious violations of human rights – for the same reasons – would also constitute persecution.

52. Whether other prejudicial actions or threats would amount to persecution will depend on the circumstances of each case, including the subjective element to which reference has been made in the preceding paragraphs. […]»14

Stando a quanto appena riportato, dunque, costituirebbero persecuzione: a) ogni minaccia alla vita e alla libertà, determinata da uno dei cinque motivi più volte menzionati; b) altre gravi violazioni dei diritti umani, determinate sempre da

13 STOREY, Ibidem, p. 276. 14 UNHCR, ibidem, p. 13

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uno dei suddetti motivi; c) altre azioni pregiudizievoli o minacce a seconda delle circostanze di ogni caso, tenendo conto anche di elementi soggettivi. La critica portata avanti da Storey nei confronti di un simile approccio è quella di svincolare la nozione di persecuzione da dati normativi precisi, lasciando così eccessivo spazio alla discrezionalità dell'interprete e favorendo la formazione di una “divergent

national law-based jurisprudence”. Alla base dell'opzione

“circostanziale” vi sarebbe, sempre secondo Storey, un'erronea sottovalutazione del dinamismo connaturato alla “human rights law”.15

Ai nostri fini, comunque, è sufficiente notare che anche l'approccio “circostanziale” riconosce la centralità della “International Human Rights Law” (IHRL), tanto da definire come indubbiamente persecutoria ogni grave violazione dei diritti umani. Non è un caso dunque che altri autori, come la stessa Foster sopra menzionata, abbiano eluso la distinzione tra approccio “circostanziale” e “human rights-based”, affermando anzi che tra i principali promotori di quest'ultimo vi sia proprio l'Alto Commissariato delle NU.

Dato atto brevemente dei principali approcci ermeneutici storicamente manifestatisi con riferimento alla nozione di persecuzione, dobbiamo adesso soffermare la nostra attenzione su quello che, nell'opinione di gran parte della dottrina e nella prassi giurisprudenziale, costituisce, ad

15 In STOREY, ibidem, p. 277, si afferma: It is time to abandon the circumstancial

approach. Its central criticism of the human rights approach is and always has been based on a misconception - that it would be unduly restrictive. That is a misconception because human rights law by its very nature is evolutive and dynamic, as emphasised by both the European Court of Human Rights and the American Court of Human Rights, who both recognise that its key concepts, for example, torture, inhuman and degrading treatment, take their place within a living instrument and require an autonomous definition that can evolve.

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oggi, il punto di arrivo della discussione. Ci riferiamo, ovviamente, allo “human rights approach”. Quest'ultimo approccio ancora sostanzialmente la nozione di persecuzione al verificarsi, anche solo potenziale – dato che la condizione per la dichiarazione dello status di rifugiato è il “fondato timore” e non già l'effettivo avvenimento – di violazioni di diritti umani fondamentali, violazioni che devono essere ricollegabili ovviamente a uno dei motivi convenzionali più volte menzionati.

Già nel 1953 il filosofo francese Jacques Vernant aveva ricondotto l'essenza del fenomeno persecutorio al perpetrarsi di gravi sanzioni e misure di natura arbitraria, incompatibili con i principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani16. Come già anticipato,

tuttavia, la progressiva accettazione da parte di dottrina e giurisprudenza dell'approccio “human rights-based” è da attribuirsi all'analisi di James Hathaway, il quale nel sopra citato lavoro, “Law of Refugee Status”, definì persecuzione la “sustained or systemic violation of basic human rights demonstrative of a failure of state protection”17.

Per quanto anche quest'ultima definizione sia ovviamente suscettibile di critiche, essa presenta una serie di meriti difficilmente contestabili. Il più evidente è quello di fornire all'interprete una definizione di persecuzione sintetica e universalmente accettabile, che si ricollega a dati normativi puntuali, riconosciuti come vincolanti dalla grande maggioranza della comunità internazionale: ci riferiamo ovviamente alla normativa internazionale (convenzionale e, in misura decisamente inferiore, consuetudinaria) in materia di diritti umani. Così facendo, si riempiono di significato categorie concettuali di per sé piuttosto

16 FOSTER, Ibidem, p. 27.

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amorfe e facilmente assoggettabili alle più diverse interpretazioni, come quelle di “minaccia alla vita o alla libertà”. Inoltre, rinviando, per l'individuazione dei soggetti meritevoli di tutela convenzionale, alla normativa sui diritti umani, si rinvia a un corpus in continua evoluzione, in grado perciò di recepire istanze di tutela nuove e, soprattutto, si sposta opportunamente la visuale da una prospettiva per così dire “penalistica” ad una che potremmo definire invece “umanitaria”. “The refugee regime” – sottolinea giustamente Foster – “is not all concerned with adjudicating guilt or allocating blame, but rather with providing international protection for those who satisfy the definition”.18 La nozione di persecuzione rilevante ai fini

dell'individuazione dei soggetti meritevoli di protezione internazionale, infatti, non può essere la stessa che rileva, ad esempio, ai fini di un'imputazione per il reato di persecuzione, secondo le norme del diritto penale internazionale (in particolare quelle contenute nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale). Se obiettivo del diritto penale internazionale è, infatti, quello di reprimere una serie di reati particolarmente gravi e assicurare alla giustizia coloro che li hanno commessi, si capisce come, ai fini dell'integrazione di una fattispecie incriminatrice (come quella individuata dall'articolo 7 e ricondotta all'interno della categoria dei “crimini contro l'umanità), deve necessariamente essere richiesta l'“intenzionalità”, oltre che la “gravità”, dell'atto. Nel diritto dei rifugiati, invece, non si tratta di condannare qualcuno per la commissione di un reato, bensì più semplicemente di proteggere chi, sentendosi minacciato o avendo subito una grave violazione dei suoi diritti umani, abbia deciso di lasciare il proprio Paese non ritenendolo più un luogo sicuro in cui vivere. Dunque, prendendo atto del fatto che a fronte di finalità diverse corrispondono anche diverse definizioni possibili dello stesso termine

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– in specie quello di “persecuzione” – si sgombra definitivamente il campo da faticosi e il più delle volte infruttuosi tentativi di dimostrare il dolo (o peggio ancora, come sostenevano i fautori del “dictionary approach”, la malignità) dei persecutori, alleggerendo così notevolmente l'onere della prova a carico del richiedente asilo.

Giova, inoltre, sottolineare, sebbene si tratti di una conseguenza in un certo senso scontata di quanto detto finora, quanto affermato da Hathaway rispetto al ruolo dello Stato in relazione ad una eventuale persecuzione: quest'ultima, si ricava dal testo, può sussistere non soltanto laddove lo Stato sia attivamente impegnato nel condurre determinati atti, ma anche laddove esso sia semplicemente incapace di prevenirli o reprimerli. In quest'ultimo caso, più che mai, potrebbe risultare difficile o addirittura impossibile per il richiedente asilo dimostrare non solo l'intenzionalità dell'atto, ma persino la riconducibilità dello stesso ad un attore specifico.

Infine, lo stesso Hathaway, non si limita a fornire una definizione generale di persecuzione, ma – ed è questa forse l'eredità al tempo stesso più cospicua e controversa della sua opera – si fa promotore di una classificazione dei diritti umani internazionali destinata a lasciare una traccia indelebile nella successiva elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Egli, infatti, distribuisce i diritti e le libertà affermati dalla “Dichiarazione Universale dei diritti umani” del 1948 – e (parzialmente) codificati nei due cosiddetti “Patti internazionali” del 1966 (quello sui diritti civili e politici e quello sui diritti economici, culturali e sociali) – in quattro grandi categorie, che cercheremo di analizzare sinteticamente.

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sui diritti civili e politici, tra cui il diritto alla vita e il divieto di tortura, insieme ad una serie di importanti garanzie, quali l'irretroattività dell'azione penale, il diritto alla libertà di coscienza, etc. Nel modello di Hathaway, un fallimento da parte dello Stato di assicurare, ai propri cittadini o alle persone comunque sottoposte alla propria sovranità, uno dei suddetti diritti costituirebbe in ogni circostanza un atto di persecuzione: tali diritti risultano pertanto, secondo Hathaway, assolutamente inderogabili.

Il secondo gruppo comprende un'altra serie di diritti sanciti dal Patto sui diritti civili e politici, tra cui il diritto alla libertà e alla sicurezza personale, la presunzione di innocenza, e ancora i diritti a un equo processo, alla privacy, alla libertà di espressione, di voto, di movimento, etc. Deroghe a tali diritti sarebbero eccezionalmente ammesse soltanto in circostanze emergenziali di breve periodo: in assenza di quest'ultimo presupposto, anche la violazione di uno di tali diritti integrerebbe senz'altro gli estremi di una persecuzione.

Il terzo gruppo consta poi di quei diritti che, dopo essere stati solennemente affermati dalla Dichiarazione Universale, sono stati resi legalmente vincolanti dal Patto sui diritti economici, sociali e culturali. All'interno di questa categoria rientrano diritti umani fondamentali quali il diritto all'educazione, alla salute, al lavoro, e non solo. Come vedremo soprattutto nell'ultimo capitolo della nostra tesi, è proprio rispetto a tale insieme di diritti che sono sorte le maggiori controversie interpretative. Come spiegato dallo stesso autore della classificazione, infatti, il Patto sui diritti sociali, economici e culturali (l'ICESCR nell'acronimo inglese: ovvero International Covenant on Socio-Cultural Rights) non impone – a differenza del Patto sui diritti civili – “absolute and immediately binding standards of attainment”, ma

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piuttosto richiede agli Stati “to take steps to the maximum of their available resources to progressively realize rights in a non-discriminatory way”19. Da qui l'equivoco, per lungo tempo assecondato

dagli organi nazionali preposti a valutare le richieste dei richiedenti asilo, che si trattasse di diritti gerarchicamente inferiori rispetto ai diritti civili e politici. Conseguenza immediata di una simile distorsione interpretativa – fondata peraltro su una concezione fortemente ideologizzata – è stata quella di applicare ai richiedenti asilo per violazioni di diritti socio-economici criteri di valutazione decisamente più restrittivi rispetto a quelli utilizzati nell'esame delle richieste di asilo fondate invece su violazioni di diritti civili e politici. Negli ultimi anni, tuttavia, si è iniziata a stratificare una giurisprudenza decisamente più sensibile. A titolo puramente esemplificativo, possiamo citare la sentenza della Corte Federale Canadese in Ali v.

Canada (Minister of Citizenship and Immigration): in questo caso, la

suddetta corte ha ritenuto scorretta la decisione del giudice di grado inferiore che aveva negato lo status di rifugiato all'istante, sul presupposto che lo stesso avrebbe potuto evitare la persecuzione evitando di frequentare la scuola. La Corte Federale, infatti, ha affermato che l'educazione costituisce un “basic human right” e che pertanto il richiedente “should be found to be Convention refugee”20.

La quarta e ultima categoria comprende due diritti contenuti nella Dichiarazione Universale sui Diritti Umani, ma non codificati in alcun trattato internazionale: si tratta del diritto a possedere senza subire limitazioni arbitrarie della proprietà e del diritto ad essere protetti contro la disoccupazione. Trattandosi, come detto, di diritti non sanciti da alcuna norma giuridicamente vincolante, la loro violazione di per sé

19 HATHAWAY, Ibidem, p. 110.

20 Federal Court of Canada, sentenza del 30.10.1996, Caso Ali v. Canada

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non sarà generalmente invocabile ai fini della dichiarazione dello

status di rifugiato.

Abbiamo fin qui sostenuto l'opportunità di un approccio “human rights-based” nell'interpretazione della Convenzione di Ginevra, con particolare riferimento alla nozione di “persecuzione”, che, abbiamo detto, deve essere riempita di contenuto attraverso un sistematico rinvio alle convenzioni internazionali in materia di diritti umani. Dobbiamo adesso, però, cercare di verificare anche la legittimità di un simile approccio alla luce del diritto internazionale vigente. La critica che è stata più spesso sollevata rispetto alla legittimità giuridica di un simile approccio è che non tutti gli Stati membri della Convenzione di Ginevra sono necessariamente membri anche dei trattati sui diritti umani a cui abbiamo sostenuto dover far riferimento i giudici nazionali nell'applicazione della Convenzione. Così facendo, allora, secondo i critici dell'approccio in questione, si violerebbe il principio per cui un trattato internazionale può legittimamente creare obbligazioni solo tra gli Stati che lo ratificano, e non certo in capo a Stati terzi (principio codificato peraltro nell'art. 34 della Convenzione di Vienna). Tale preoccupazione, tuttavia, risulta, ad una più attenta analisi, priva di fondamento. Come spiegato da Foster, infatti, “The issue is not whether a party will be bound by this secondary treaty, but merely whether the standards set out therein provide appropriate guidance for the interpretation of the first treaty”. Rispetto al caso concreto, ovvero all'interpretazione e applicazione della Convenzione di Ginevra, dobbiamo tener presente che è il preambolo della stessa a richiamare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e in particolare il principio, da questa affermato, per cui “gli esseri umani senza distinzione debbono usufruire dei diritti dell'Uomo e delle libertà

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fondamentali”.21 La domanda che dovrebbe sorgere spontanea a questo

punto è la seguente: quali fonti, a livello di diritto internazionale, possiamo ritenere maggiormente idonee a fornire criteri di valutazione universalmente accettabili per decretare la presenza di violazioni dei diritti umani gravi a tal punto da fondare con successo una richiesta di protezione? La risposta a questa domanda dovrebbe togliere ogni dubbio rispetto alla legittimità dell'approccio interpretativo che stiamo sostenendo. Come noto, infatti, il Patto sui diritti civili e politici e quello sui diritti sociali, culturali ed economici rappresentano un tentativo – ad oggi il più riuscito – di rendere giuridicamente vincolanti a livello internazionale proprio quei diritti e quelle libertà fondamentali che l'Assemblea Generale delle NU aveva proclamato appunto nella Dichiarazione Universale. Il fatto che non tutti gli Stati della comunità internazionale facciano parte di tali accordi, allora, non toglie nulla alla validità della nostra tesi, dal momento che “reference to other international convention is not made in order to hold states accountable to those standards, but to provide an objective barometer of unacceptable treatment”22.

Inoltre, al di là delle argomentazioni astratte con le quali è possibile sostenere in via teorica la legittimità dell'approccio “human rights-based”, quest'ultimo si pone nella prassi giurisprudenziale come un dato di fatto difficilmente controvertibile. Già nel 1997, infatti, da uno studio condotto su un campione di 5.000 casi giurisprudenziali verificatisi in tredici paesi europei, in Canada e negli Stati Uniti, risultava evidente che, in relazione al significato di “persecuzione”, «the only essential criterion applied, either expressly or implicitly, by the courts appears to be the disproportional o discriminatory violation of basic human rights for one of the reasons mentioned in the Geneva

21 Convenzione relativa allo status dei rifugiati, Preambolo, Ginevra, 1951. 22 FOSTER, ibidem, p. 76.

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Convention».23

2. I motivi della persecuzione

Abbiamo più volte accennato al fatto che, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, è necessario che la presenza di una minaccia alla vita o alla libertà o le altre forme in cui può manifestarsi la persecuzione sia causata da (o comunque riconducibile a) uno dei motivi previsti dall'articolo 1 della Convenzione. L'importanza vitale di questa precisazione è riassunta in maniera impeccabile da Wouters, il quale scrive:

«[...] a person who is at risk of being sentenced to death and being executed may face inhuman treatment amounting to persecution but will not be a refugee. He may be a refugee only if he is discriminated against and at risk of being sentenced to death for one or more reasons listed in the Convention. Furthermore, a person who is at risk of losing his life because of indiscriminate or random violence will not be a refugee. Only when the violence is directed at a particular group can a member of that group be a refugee, because the violence is discriminatory»24.

Il secondo dei due esempi, in particolare, verrà ripreso nel secondo capitolo di questa tesi, dal momento che, tra le finalità specifiche della protezione sussidiaria, vi è proprio quella di fornire tutela a quei soggetti che, pur rischiando la vita a causa di situazioni di conflitto

23 VANHEULE, A comparison of the judicial Interpretations of the Notion of

Refugee, in CARLIER-VANHEULE, Europe and Refugees: a challenge?, L'Aja,

1997, p. 99.

24 WOUTERS, International Legal Standards for the Protection from Refoulement, Mortsel, 2009, p.71.

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generalizzato, non rientrano nella nozione di rifugiato.

Dobbiamo, adesso, cercare di capire come vengono comunemente interpretati i cinque termini che, ex art. 1 della Convenzione, costituiscono possibili motivi di persecuzione, ovvero:

1) “razza”: secondo lo Handbook dell'UNHCR, il termine deve essere inteso nella sua accezione più ampia, in modo da comprendervi ogni gruppo etnico che nel linguaggio comune è appunto associato alla nozione di razza.25 Come rivela più o

meno esplicitamente la spiegazione appena riportata, la stessa nozione di razza è stata nel tempo sottoposta a profonde critiche, ed è attualmente ricondotta al “linguaggio comune”. Senza addentrarsi in considerazioni antropologiche che esulerebbero sicuramente dall'oggetto del nostro lavoro, possiamo quindi limitarci, con un certo margine di approssimazione, a intendere il concetto di “razza” nel senso di “gruppo etnico”;

2) “religione”: rispetto a questo termine non dovrebbero esserci troppe specificazioni da fare, se non che anche in questo caso risulta opportuno adottare una nozione il più possibile ampia, in grado di tutelare l'appartenenza (così come la non appartenenza) non soltanto alle grandi religioni tradizionali, ma altresì ad ogni sorta di comunità, credo, identità o modo di vita in senso lato religiosi;

3) “nazionalità”: la nozione di nazionalità a cui si fa qui riferimento non coincide con la nozione strettamente legale, ma si riferisce altresì – secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti – all'appartenenza a un particolare gruppo etnico, religioso, culturale o linguistico26;

25 UNHCR, ibidem, p. 16. 26 WOUTERS, ibidem, p. 72.

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4) “appartenenza a un particolare gruppo sociale”: delle cinque possibili cause di persecuzione, questa rappresenta probabilmente quella di più difficile interpretazione, e al tempo stessa quella con riferimento alla quale si è maggiormente estesa la categoria dei “rifugiati” negli ultimi anni. Ad esempio, partendo dal presupposto che un gruppo sociale è un insieme di persone accomunate da “similar background, habits or social status”,27 la giurisprudenza si è dimostrata sempre più propensa

ad accogliere istanze di riconoscimento dello status di rifugiato in presenza di conclamate violazioni dei diritti umani a danno del genere femminile o di gravi forme di discriminazione e repressione degli omosessuali28. Un esempio in tal senso lo

possiamo trovare anche in una recente sentenza del Tribunale Civile di Cagliari, che ha accolto il ricorso presentato da una donna nigeriana contro il respingimento della sua domanda di riconoscimento dello status di rifugiata. Alla base della propria richiesta, la donna aveva allegato di essere stata costretta a fuggire dal suo paese per evitare di essere sottoposta ad un intervento di mutilazione genitale.29

5) “opinioni politiche”: rispetto a quest'ultimo motivo, possiamo limitarci a precisare che il richiedente protezione deve dimostrare non soltanto di avere opinioni politiche in contrasto con quelle del Governo del suo paese, ma anche e soprattutto il nesso di causalità tra l'espressione di tali opinioni e l'attuazione (in atto o in potenza) di atti oggettivamente persecutori contro di lui.

27 UNHCR, Handbook and guidelines on procedures on and criteria for

determining refugee status under the 1951 Convention and the 1967 Protocol relating the status of refugees, Reissued Geneva, 2011, p. 11.

28 BENEDETTI, Il diritto di asilo e la protezione dei rifugiati nell'ordinamento

comunitario dopo l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, Milano, 2010, p. 89

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3. La nozione di rifugiato nella “Direttiva Qualifiche”.

Abbiamo finora cercato di scomporre la nozione di rifugiato nei suoi elementi fondamentali, cercando contemporaneamente di argomentare l'opportunità, oltre che la legittimità, di un approccio ispirato da finalità di tutela dei diritti umani internazionali.

Passando dal piano delle teorie interpretative al piano della prassi applicativa, dobbiamo però fare alcune precisazioni, che ci saranno utili anche a capire la ratio dell'intervento dell'Unione Europea in materia.

Una prima precisazione da fare consiste nel fatto che – a dispetto delle semplificazioni classificatorie che la dottrina è chiamata a compiere per esigenze esplicative – nelle decisioni degli organi giudicanti nazionali (a seconda dei casi: corti, commissioni territoriali, tribunali, etc.) non sempre, rectius quasi mai, troveremo riferimenti espliciti a uno specifico approccio interpretativo piuttosto che un altro, dato che compito del giudice (o dell'autorità amministrativa) nell'emanazione dell'atto finale del procedimento non è quello di manifestare la sua adesione ad un orientamento piuttosto che a un altro, bensì quello di adottare, tenendo certamente conto dell'evoluzione dottrinale oltre che giurisprudenziale, una decisione che risponda alle esigenze di giustizia del caso concreto.

La seconda precisazione è che, dal momento che la competenza ad applicare la Convenzione di Ginevra spetta ai singoli Stati e non esiste alcun organo internazionale investito di funzioni nomofilattiche cui possano ricorrere gli stessi richiedenti asilo, gli esiti interpretativi saranno talvolta anche notevolmente diversi tra loro. La Convenzione,

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infatti, prevede sì la possibilità di sottoporre alla Corte internazionale di Giustizia le contestazioni attinenti l'interpretazione e l'applicazione del trattato: si tratta, tuttavia, di un diritto di istanza riconosciuto per contestazioni che sorgano eventualmente tra gli Stati e, soprattutto, di un diritto riservato agli Stati stessi, e non certo ai richiedenti asilo (Articolo 38).

Alla luce di queste premesse, non dovrebbe suscitare meraviglia il fatto che, accanto a un approccio esegetico ormai nettamente prevalente (quello “human rights based”), ne continuino a sopravvivere altri, magari in forma meno evidente, ma pur sempre in grado di ostacolare un'applicazione uniforme, o quantomeno coerente, delle norme della Convenzione di Ginevra. Non è un caso, allora, che l'Unione Europea abbia sentito il bisogno di armonizzare l'interpretazione di termini fondamentali della stessa Convenzione, attraverso l'emanazione della cosiddetta “Direttiva Qualifiche”.

All'intervento europeo in materia di protezione internazionale dedicheremo interamente il prossimo capitolo della nostra tesi. Intanto, però, per completare la riflessione intrapresa sul concetto di rifugiato, non possiamo esimerci dall'analizzare fin da subito il testo degli articoli 9 e 10 sopra menzionati della “Direttiva qualifiche”. Tali articoli, infatti, dettano una sorta di interpretazione autentica – giuridicamente vincolante all'interno dei confini territoriali dell'Unione Europea – dell'articolo 1 della Convenzione di Ginevra.

L'articolo 9 (rubricato “atti di persecuzione”), al comma 1, afferma: “Sono atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1 A della convenzione di Ginevra gli atti che: a) sono, per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti

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umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è

esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; oppure b) costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente

grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla

lettera a)”.30

Fin da una prima lettura dell'articolo, emerge in maniera piuttosto evidente come la definizione fornitaci dalla direttiva riprenda la definizione di Hathaway, salvo poi ampliarla in maniera sostanziale. Un primo fondamentale ampliamento deriva dal fatto che nella definizione dell'Unione Europea viene opportunamente abbandonato l'elemento della “sustained or systemic violation”. Per poter parlarsi di persecuzione, gli atti che violino i diritti umani non devono necessariamente assumere un carattere continuativo, prolungato o sistematico, ma essere di per sé “sufficientemente gravi”. Cosa s'intenda poi per “atti sufficientemente gravi” è specificato all'interno dello stesso periodo: un atto, si afferma, è sufficientemente grave quando è idoneo a rappresentare una “violazione grave dei diritti umani fondamentali”. Se si fosse conclusa così la definizione in questione probabilmente non avrebbe apportato grandi novità rispetto alla lettura che dottrina e giurisprudenza davano già dell'articolo 1 della Convenzione di Ginevra. L'articolo 9, comma 1, invece, prosegue, fornendoci altri due fondamentali dati normativi, di cui tener conto.

30 Direttiva 2011/95/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13.12.2011 recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (rifusione), in GUUE L 337/9, 20.12.2011, available at <http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/? uri=uriserv:OJ.L_.2011.337.01.0009.01.ITA>.

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Il primo è che non tutte le violazioni di diritti umani rivestono uguale importanza ai fini della valutazione di una richiesta di asilo: la direttiva, infatti, richiama l'articolo 15, paragrafo 2, della CEDU, il quale afferma l'inderogabilità di una serie di diritti e libertà sanciti all'interno della stessa Convezione Europea. Si tratta in particolare dei diritti e delle libertà affermati agli articoli 2 [diritto alla vita], 3 [proibizione della tortura], 4 paragrafo 1 [divieto di schiavitù e servitù] e 7 [nulla poena sine lege]. La temuta violazione di una di queste disposizioni (sempre che fondata e riconducibile ai motivi analizzati nel paragrafo precedente), sarà sicuramente sufficiente a integrare gli estremi della violazione “sufficientemente grave” e, conseguentemente, persecutoria. Per quanto riguarda, invece, l'eventuale asserita violazione di uno dei diritti non citati dall'articolo 15(2) della CEDU, il giudice disporrà certamente di maggiori margini di discrezionalità nel valutare la gravità della situazione portata alla sua attenzione.

Nel valutare la gravità della situazione, tuttavia, e questo è il secondo dato normativo sancito dall'art 9, comma 1, alla lett. b), le autorità competenti dovranno tener conto del fatto che la persecuzione può risultare anche dalla somma di misure che, sebbene singolarmente considerate non raggiungerebbero la soglia di gravità a cui fa riferimento la lett. a), complessivamente considerate producono invece effetti analoghi a quelli sopra analizzati.

A completamento poi dei criteri generali ricavabili dal primo comma, il comma secondo interviene dettando una serie di casi in presenza dei quali si ha senza dubbio persecuzione. Si tratta, in particolare di: “a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; b)

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provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; d) rifiuto di accesso ai mezzi di ricorso giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nell’ambito dei motivi di esclusione di cui all’articolo 12, paragrafo 2; f) atti specificamente diretti contro un sesso o contro l’infanzia”.

Il comma terzo, infine, ribadisce un importante principio – già formulato dalla dottrina e applicato dalla giurisprudenza – ovvero quello secondo il quale la persecuzione può scaturire non solo da un comportamento attivo dell'autorità statuale, ma anche da un suo comportamento meramente omissivo, consistente nel non fornire la tutela richiesta a fronte di atti oggettivamente persecutori condotti da soggetti terzi.

L'Articolo 10 della Direttiva ha invece la funzione di chiarire il significato dei cinque motivi che la Convenzione di Ginevra detta come possibili cause di persecuzione. Anche in questo caso, ovviamente, l'opera compiuta dalle istituzioni europee è principalmente ricognitiva rispetto a quanto già affermato da dottrina e giurisprudenza (da noi riassunto brevemente nel capitolo precedente). Tuttavia, per i motivi già considerati, si tratta sicuramente di una importante codificazione, atta senz'altro a garantire certezza e uniformità applicativa all'interno dei confini dell'Unione. Senza bisogno di considerare nuovamente ciascuna causa di persecuzione, possiamo in questa sede limitarci a prendere atto del fatto che anche la

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Direttiva (al pari della dottrina e della giurisprudenza prevalenti) fornisce definizioni decisamente estensive dei cinque motivi ex Art. 1 della Convenzione. Peraltro, anche a causa dell'ampiezza con cui vengono interpretati, tali elementi tendono in alcuni casi a sovrapporsi l'un l'altro. Un esempio è dato dal termine “razza”: quest'ultimo, infatti, è espressamente riferito, oltre che al colore della pelle, anche all'appartenenza a un certo gruppo etnico; l'appartenenza ad un gruppo etnico a sua volta integra altresì la fattispecie di appartenenza ad un “gruppo sociale”. Per gruppo sociale, infatti, la Direttiva, intende un gruppo che abbia “una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata […]” e “possiede un'identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante.”. Dunque ricapitolando la persecuzione di uno o più individui appartenenti ad un certo gruppo etnico può essere considerata come motivata dall'appartenenza dei soggetti in questione ad una “razza” o ad un “gruppo sociale” e, a dirla tutta, anche dall'appartenenza degli stessi ad una certa “nazionalità”, dal momento che quest'ultimo termine, secondo il testo della Direttiva, “non si riferisce esclusivamente alla cittadinanza, o all’assenza di cittadinanza, ma designa, in particolare, l’appartenenza a un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica”.

Una precisazione importante poi, che prende atto anche in questo caso della più recente evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, riguarda le persecuzioni fondate sull'orientamento sessuale. Si afferma, infatti: “In funzione delle circostanze nel paese d'origine, un particolare gruppo sociale può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell'orientamento sessuale” (Art. 10, comma 1, lett. d).

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nella valutazione delle richieste di protezione, quello dell'irrilevanza dell'effettivo possesso delle “caratteristiche razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche che provocano gli atti di persecuzione”: ciò che conta, infatti, è che tali caratteristiche vengano attribuite al richiedente dagli autori delle persecuzioni e che, per l'appunto, tale attribuzione sia la causa scatenante le persecuzioni stesse.

4. Le recenti pronunce della Corte di Giustizia sulla nozione di persecuzione.

Come anticipato, sull'interpretazione della nozione di rifugiato risultante dal combinato disposto dell'articolo 1 della Convenzione e degli articoli 9 e 10 della Direttiva si è di recente espressa proprio la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con due importanti sentenze: la prima del 5 settembre 2012 sul caso “Bundesrepublik Deutschland contro Y and Z”31, la seconda del 7 novembre 2013 sul caso “Minister

voor Immigratie en Asiel contro X, Y and Z”32. In entrambi i casi si

tratta di sentenze emanate a seguito di una serie di istanze interpretative presentate nell'ambito di controversie che la Repubblica federale di Germania ed il Ministero dei Paesi Bassi per l'immigrazione e l'asilo.

4.1 Il caso Bundesrepublik Deutschland contro Y e Z

Seguendo l'ordine cronologico delle rispettive sentenze, analizziamo prima il caso “Y e Z”. A tal proposito, la Corte di Giustizia si è

31 Corte di Giustizia dell'Unione Europea, sentenza del 5.9.2012, Caso

Bundesrepublik Deutschland c. Y (C-71/11) e Z (C-99/11).

32 Corte di Giustizia dell'Unione Europea, sentenza del 7.11.2013, Caso Minister

voor Immigratie en Asiel contro X (C-199/12) e Y (C-200/12) e Z contro Minister voor Immigratie en Asiel (C-201/12).

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pronunciata in seguito a due domande di pronuncia pregiudiziale, presentate dalla Corte amministrativa federale tedesca in seguito al rigetto di due domande di riconoscimento del diritto di asilo e dello status di rifugiato presentate da due cittadini pachistani. Questi ultimi (per mantenerne l'anonimato individuati come X e Y), dopo aver fatto ingresso in Germania, avevano dichiarato alle autorità competenti di aver subito persecuzioni in patria a causa della loro appartenenza alla comunità religiosa Ahmadiyya. Y aveva affermato fra l'altro di essere stato ripetutamente picchiato, oltre che minacciato di morte e denunciato presso gli organi di polizia “per aver insultato il nome del profeta Maometto”. Z, dal canto suo, aveva allegato di essere stato oggetto di maltrattamenti e detenzione sempre a causa del suo credo religioso. Come risulta dalle decisioni di rinvio, l'articolo 298 C del codice penale pakistano dispone che i membri della comunità Ahmadiyya sono passibili di pena fino a tre anni di reclusione o di una pena pecuniaria se affermano di essere musulmani, qualificano come Islam la loro fede, pregano o propagano la loro religione o cercano proseliti. Peraltro, a norma dell'articolo 295 C dello stesso codice, chiunque oltraggia il nome di Maometto può essere punito con la pena della morte o l'ergastolo.

Tuttavia, nonostante le allegazioni, il Bundesamt (organo competente in prima istanza sulle richieste di asilo e protezione internazionale) respinge le domande di asilo di Y e Z ritenendole non fondate e dichiara non integrati i requisiti per ottenere lo status di rifugiato. Lo stesso organo, inoltre, dichiara i due istanti passibili di espulsione verso lo Stato di provenienza, adducendo a motivazione delle suddette decisioni l'insussistenza di elementi sufficienti per affermare che i richiedenti avessero lasciato il loro paese per il fondato motivo di essere ivi perseguitati.

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In seguito al ricorso esperito da entrambi, si pronunciano allora i due tribunali amministrativi territorialmente competenti: quello di Lipsia nel caso di Y e quello di Dresda nel caso di Z. Con riferimento a Y, il tribunale amministrativo di Lipsia annulla la decisione resa dal Bundesamt e ingiunge a quest'ultimo organo di dichiarare che Y, in quanto rifugiato, non possa essere espulso verso il Pakistan. Con riferimento a Z, invece, il Tribunale amministrativo di Dresda respinge il ricorso, ritenendo infondato l'allegato timore di persecuzioni.

A questo punto, entrambi i soccombenti – ovvero il Bundesamt, nel caso Y, e il cittadino “Z”, nel caso che lo vede protagonista – decidono di ricorrere di fronte alla Corte d'appello amministrativa del Land Sassonia. Quest'ultima, in due distinte sentenze pronunciate entrambe il 13 novembre 2008, conferma la sentenza emanata dalla Corte di Lipsia e ribalta invece la decisione della Corte di Dresda, dando in questo modo ragione in entrambi i casi ai richiedenti asilo. Le argomentazioni della Corte d'appello, in particolare, si concentrano non tanto sulle minacce e i maltrattamenti allegati dai due cittadini pakistani, quanto sulle gravi violazioni alla libertà di religione che sono costretti a subire quotidianamente gli Ahmadi. Questi ultimi, infatti, sono costretti a subire sia le ripetute aggressioni perpetrate da gruppi estremisti senza alcun contrasto da parte dello Stato pakistano, sia le pene molto severe comminate e irrogate dallo stesso Stato a coloro che professano pubblicamente il loro credo. Tale situazione rende di fatto impossibile manifestare pubblicamente la propria fede senza mettere a rischio la propria libertà e incolumità personale. La diatriba però non finisce qui perché il Bundesamt impugna per cassazione – di fronte alla Corte amministrativa federale – anche le

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sentenze appena menzionate, asserendo che il giudice d’appello ha interpretato la sfera d’applicazione degli Articoli 9 e 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche in maniera eccessivamente estensiva. La Corte amministrativa federale, allora, in quanto giudice di ultima istanza nell'ordinamento tedesco, decide di esercitare la facoltà di rinviare alla Corte di Giustizia l'interpretazione di questioni controverse attinenti l'applicazione di norme comunitarie (prevista ex Art. 267 TFUE).

La Corte federale chiede innanzitutto se rientri nella nozione di persecuzione qualunque lesione della libertà di religione che costituisca una violazione dell’Articolo 9 della CEDU o se invece una violazione grave della libertà di religione quale diritto umano fondamentale non sussista solo quando ne sia colpito un non ben identificato “nucleo essenziale”. Qualora poi si possa effettivamente (e legittimamente) estrapolare dal diritto alla libertà religiosa questo presunto “nucleo essenziale”, e configurare come persecutorie solo le violazioni del suddetto, la stessa Corte federale chiede in cosa dovrebbe consistere esattamente tale nucleo. Più specificamente, la Corte chiede se rientrino o no all'interno di tale nucleo le manifestazioni pubbliche di appartenenza a un certo credo religioso. La risposta della Corte di Giustizia interviene alla radice del problema, affermando di fatto la mancanza di fondamento giuridico della suddetta nozione di “nucleo essenziale”, almeno con riferimento al diritto alla libertà religiosa. Infatti, premesso che la libertà di religione rappresenta “uno dei cardini di una società democratica e costituisce un diritto umano fondamentale”, non si tratta di “distinguere tra gli atti che ledono un «nucleo essenziale» («forum internum») del diritto fondamentale alla libertà di religione, che non comprenderebbe le

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