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La legittimazione di interventi nazionali ostativi delle libertà di circolazione fondati su esigenze

I limiti all’operatività della lex contractus come correttivo all’apparente attenuazione

4.1. Il rapporto delle NAN ex art 3.1 con le libertà comunitarie nel ‘primo ciclo’ della giurisprudenza della

4.1.1. La legittimazione di interventi nazionali ostativi delle libertà di circolazione fondati su esigenze

imperative ulteriori rispetto a quelle ammesse dal Trattato

Nel corso degli ultimi quindici anni, l’operatività delle norme di natura imperativa poste a tutela del lavoro nell’ambito dell’ordinamento comunitario

è stata oggetto di un’attenzione crescente da parte della Corte di giustizia. In particolare, di fronte all’accusa, più volte sollevata dagli operatori economici degli Stati membri, secondo la quale le normative nazionali di tutela del lavoro – pur se applicate indistintamente a tutti i soggetti economici operanti sul territorio di questi ultimi (e, dunque, prive di finalità direttamente discriminatorie) – costituirebbero ostacoli (indiretti) frapposti alle libertà economiche sancite dal Trattato, la Corte ha finito per riconoscere esplicitamente che quelle normative di tutela sono espressione di fondamentali interessi sociali degli Stati membri, con cui tali libertà devono fare i conti.

Tuttavia, la Corte è giunta a questa conclusione non subito, ma a seguito di un lungo, seppur lineare, processo evolutivo iniziato negli anni Settanta con una serie di sentenze riguardanti la legittimità e la compatibilità con il Trattato delle limitazioni che i vari Stati membri, con le loro discipline interne poste a tutela di vari interessi, apponevano alla libertà di circolazione dei beni.

Fino all’inizio degli anni Novanta, nella valutazione delle misure adottate dagli Stati nei confronti delle imprese erogatrici di servizi, la Corte di giustizia ha mostrato una tendenza ad applicare il criterio antidiscriminatorio, assicurando a tali imprese ampi margini di esercizio delle proprie prerogative; tale circostanza testimonia come il processo di integrazione del mercato interno dei servizi si sia sviluppato più lentamente rispetto a quello delle merci.

La lettera dell’art. 59 del Trattato non sembra limitare in modo alcuno la possibilità per gli Stati di estendere la normativa lavoristica interna ai lavoratori stranieri distaccati sul proprio territorio, venendo con ciò a qualificarsi come mera fonte di garanzia di parità di trattamento136 tra imprese

straniere ed imprese nazionali.

Per questa ragione, finché la Corte ha applicato il suddetto criterio, sviluppato nella sentenza van Binsbergen137, il mercato interno dei servizi non

è stato percepito come un pericolo per i mercati del lavoro nazionali: una

136 S. GIUBBONI – G. ORLANDINI, La libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea,

Bologna, 2007, p. 87.

lettura ‘assoluta’ del principio di parità di trattamento di cui all’art. 59, allontana la possibilità che si producano fenomeni di dumping sociale e protegge le imprese nazionali dalla concorrenza giocata sul più basso costo del lavoro delle imprese straniere erogatrici del servizio.

Tuttavia, già nella sentenza van Binsbergen la Corte voluto precisare che nel novero delle discriminazioni vietate ai sensi dell’art. 59 dovessero comprendersi non solo quelle basate sulla nazionalità dell’impresa di servizi, ma anche quelle dovute al luogo di residenza.

Se, da un lato, tale affermazione appare “tautologica”138 (distinguendosi

la prestazione di un servizio transnazionale proprio per l’assenza di una stabile presenza dell’impresa che lo eroga nel territorio di uno Stato membro diverso da quello di origine), dall’altro lato, essa si rivela significativa poiché identifica la più grave forma di violazione della libertà in parola, tale da negarne la stessa essenza, e permette di identificare un primo, embrionale, “nucleo” di norme lavoristiche che si pongono inevitabilmente in contrasto con l’art. 59 TCe.

Già il semplice ricorso al criterio non discriminatorio è, dunque, in grado di attrarre nell’orbita del mercato dei servizi alcuni aspetti delle normative lavoristiche interne: si pensi a quelle norme che impongono alle Agenzie di lavoro temporaneo di avere una sede nel territorio dello Stato dove è prestato il servizio, o a quelle che prescrivono indirettamente l’obbligo di stabilimento come condizione per accedere a determinati vantaggi o benefici.

Pur toccando aspetti relativamente marginali, lontani dal produrre effetti significativi in termini di dumping sociale, le prescrizioni di queste norme realizzano una violazione diretta del divieto di non discriminazione e le uniche ragioni che ne possono giustificare l’applicazione sono quelle tassativamente indicate dagli artt. 30, 39.3, 46.1 e 58.1, lett. b) del Trattato e soggette ad un’interpretazione restrittiva – ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica –, con la conseguenza che non possono sfuggire al sindacato della Corte di giustizia.

Nel tempo, la Corte ha progressivamente accantonato il criterio antidiscriminatorio, per elaborare principi i cui effetti hanno avuto una portata più incisiva e penetrante sul mercato dei servizi.

Partendo dalle storiche sentenze Dassonville e Cassis de Dijon139, e

passando per molte altre pronunce, fra le quali quelle sui casi Torfaen140, Stoke-on-Trend141, Keck e Mithouard142 e Semeraro Casa Uno143 – la Corte ha

esteso il suo sindacato alle “misure indistintamente applicabili” potenzialmente costitutive di ostacoli al il libero scambio delle merci, ed ha riconosciuto che, al di là delle cause giustificative esplicitamente riconosciute dal Trattato, vi sono ragioni imperative ulteriori che possono legittimare la frapposizione di ostacoli alla libera circolazione delle merci, a condizione che tali interventi rispettino un criterio di ragionevolezza (che nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte è andato poi configurandosi come un vero e proprio

test di proporzionalità).

La Corte, dopo aver fatto originariamente riferimento, fra le altre, ad esigenze di carattere fiscale, o riguardanti la protezione della salute pubblica, la lealtà dei negozi commerciali e la difesa dei consumatori, e poi ancora varie altre, pur senza arrivare all’enunciazione di un elenco tassativo di tali esigenze imperative, è giunta alla fine ad includere, in particolare, le “scelte politico- economiche [rispondenti] a peculiarità socio-culturali nazionali o regionali, la cui valutazione spetta, nella fase attuale del diritto comunitario, agli Stati membri”144. Questa formula è stata poi ripresa letteralmente per giustificare la

compatibilità con il Trattato (sempre a condizione del superamento del test di proporzionalità) di alcune normative nazionali di tutela del lavoro, in due note sentenze emesse nei casi Conforama e Marchandise145, relativi al divieto di

lavoro domenicale in alcune attività fissato dalle normative nazionali.

139 Rispettivamente, 11 luglio 1974, C-8/74 e 20 febbraio 1979, C-120/78. 140 23 novembre 1989, C-145/88.

141 16 dicembre 1992, C-169/91.

142 24 novembre 1993, cause riunite C-267/91 e 268/91. 143 20 giugno 1996, cause riunite C-418/93 e varie altre. 144 Sentenza relativa al caso Torfaen, punto 14.

4.1.2. Il test di proporzionalità come versione