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Alcuni dei componimenti ascritti a Leonzio in Pl, databili con sicurezza (APl 32, APl 33, APl 37, APl 357, vd. infra nel commento ai singoli testi) ci permettono di stabilire la cronologia di questo σχολαστικός: grazie ai dati ricavabili dai suoi epigrammi672 il floruit della sua attività di epigrammista si può porre nella seconda metà del VI secolo d.C.673. Dall’analisi contenutistica dei singoli testi poi emerge la figura di un personaggio certamente vicino agli ambienti di corte che, grazie alle sue doti poetiche, celebra, o riceve l’incarico di celebrare, figure di spicco della sua epoca; tramite la lettura dei testi leonziani veniamo condotti in un vero e proprio viaggio alla scoperta della Costantinopoli giustinianea, coi suoi luoghi e le sue figure più rappresentative: dall’Ippodromo, al palazzo reale, allo Zeuxippo, tra alti dignitari, filosofi, retori e ballerine. La produzione poetica di Leonzio σχολαστικός si configura dunque come una delle più rappresentative di ogni aspetto della sua epoca.

Per quanto riguarda l’appellativo Μινώταυρος riportato dai lemmi di AP 9.614, 9.681 e APl 37 le ipotesi oscillano tra il semplice patronimico674 o ― più probabilmente ― un soprannome di oscura origine675.

AP 5.295

Apostrofe del poeta alla fortunata coppa che può sfiorare le labbra dell’amata, ricevendo così un bacio che il poeta può solo invidiare.

Come l’equivalenza tra il bere ed il baciare676, anche il tema del “bacio indiretto” tramite la coppa è molto sviluppato nella letteratura erotica. Quest’ultimo si trova svolto in poesia epigrammatica da Mel. AP 5.171= HE 4182-4185, modello “diretto” del nostro e fonte di ispirazione anche per Agath. AP 5.261 = 79 Vians. e Paul. Sil. AP 5.281 = 16 Vians. È inoltre molto sfruttato dall’elegia ovidiana, si veda A.A. 1.575-576, Heroid. 17.79-80, Am. 1.4.31-32677. L’apostrofe diretta agli oggetti che in qualche modo hanno parte nel rapporto erotico, come ad esempio la lucerna, è consueta nell’epigramma di tutte le epoche, assieme al desiderio di mutarsi in essi678: Leonzio, sulla scia di Meleagro, innesta su questi spunti anche l’altrettanto topico motivo dell’invidia di cui, nel nostro caso, si nega ogni ragion d’essere per la funzione che

672 Per cui si veda l’introduzione ai singoli testi.

673 Cfr. Galli Calderini 1987c, 255-260, PLRE IIIb s.v. Leontius 6, 775-776 e, da ultimo,

Schulte 2005, 10-11.

674 Cfr. Cameron-Cameron 1966a, 14. 675 Cfr. Galli Calderini 1987c, 254. 676 Si veda Gow 19522 a Theocr. 7.70.

677 Cfr. Aristaenet. 1.25.18-19 con Drago 2007 ad l. 678 Cfr. Floridi 2007, 212.

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l’oggetto assume all’interno del rapporto amoroso, come avviene in alcuni carmi pederotici della AP (vd. infra nel commento). È bene segnalare che il tema della “coppa d’amore” compare di frequente anche in carmi epigrafici latini tardoantichi679.

Ψαῦε µελισταγέων στοµάτων, δέπας· εὗρες, ἄµελγε· οὐ φθονέω, τὴν σὴν δ’ ἤθελον αἶσαν ἔχειν.

versus 2 habet Suda s.v. αἶσα

Tocca le bocche soavi, coppa: le hai trovate, suggi! Non provo invidia, ma vorrei avere il tuo stesso destino.

v.1 Ψαῦε µελισταγέων στοµάτων: cfr. Mel. AP 5.171.2 = HE 4183 Ζηνοφίλας ψαύει τοῦ λαλιοῦ στόµατος. L’aggettivo µελισταγής, in A.R. riferito alle libagioni (cfr. 2.1272 µελισταγέας χέε λοιβάς), è frequente in epoca tarda sempre con valore eulogistico: 11x in tutto nelle opere nonniane, viene impiegato da Cristodoro in riferimento all’eccellenza poetica di Omero ed è utilizzato dagli autori cristiani per designare sia l’eloquenza umana che la parola divina680 (diversamente dal nostro testo ove, come si vede, non riguarda la facondia); sempre in epoca tarda compare poi in Diosc. carm. 5.1, 1.1, 36.5 Fournet. L’immagine del parlare mellifluo verrà ripresa, in contesto erotico, da Nic. Eug. Dros. Char. 4.373.

ἄµελγε: per il verbo nel senso di “succhiare” cfr. [Theocr.] 23.25 (in contesto erotico riferito al rimedio per placare l’amore), derivato da Bion Ad. 48 τὸ δέ σευ γλυκὺ φίλτρον ἀµέλξω681; viene detto del vino in Ion. eleg. fr. 26.9 IEG = 89.9 Leurini = 1.9 PEG = 1.9 Valerio; Nonn. D. 12.320-321; Maced. AP 9.645.8 = 26.8 Madden. La coppa compie gli stessi gesti delle labbra che le si accostano: è questo il bacio che coppa e amata si scambiano suscitando l’invidia del poeta amante.

v.2: cfr. Mel. AP 5.171.3-4 = HE 4184-4185.

οὐ φθονέω: per lo stilema del rifiuto dell’invidia cfr. anon. AP 12.69.2; Strat. AP 12.208.1 = 49.1 Floridi: l’idea dello φθόνος, l’invidia ostile qui “negata” si spiega col fatto che l’oggetto si fa veicolo d’amore ed anticipazione dell’amante, che si augura di condividerne presto il destino682.

679 Vd. su questo Cugusi 2004: lo studioso passa in rassegna anche i carmi epigrafici che

sviluppano il motivo dell’invidia ma non contestualmente a quello dei pocula amoris come nel nostro caso.

680 Cfr. Tissoni 2000, 224.

681 Cfr. Gow 19522 a [Theocr.] 23.25; Reed 1997 a Bion Ad. 48.

682 Cfr. Floridi 2007 a Strat. AP 12.208.1: «(Leonzio) potrebbe ben avere in mente Stratone:

nell’epigramma stratoniano la professione di non-invidia è motivata dal compito demandato all’oggetto parlante, non più rivale in amore, ma mediatore del poeta presso il παῖς».

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αἶσαν ἔχειν: per la clausola cfr. Emp. 62.8 D.-K.; Opp. Hal. 1.282, 1.515. Il verso è citato dalla Suda s.v. αἶσα (Suda α 315 Adler). Per l’aspirazione ad un desiderio amoroso irrealizzabile si veda Sapph. fr. 33 Lobel-Page.

AP 7.149-150

Variazioni sul tema della sepoltura di Aiace Telamonio

Questi due epigrammi di Leonzio chiudono, nella AP, la serie di componimenti sulla tomba di Aiace Telamonio: si parte da Asclep. AP 7.145 = HE 946-949 = 29 Sens683 che, come il successivo Antip. Sid. AP 7.146 = HE 208-213, è incentrato sulla figura della Virtù che piange sulla tomba dell’eroe. Dal successivo Arch. AP 7.147 = GPh 3678-3687 invece non c’è più traccia della Virtù ed i testi si concentrano sull’immagine di Aiace, tanto che, per il componimento di Archia, si è pensato ad una descrizione di un celebre quadro di Timomaco684. La dimensione più propriamente funeraria viene recuperata dal successivo anon. AP 7.148685 che Leonzio tiene in considerazione come modello principale: sia anon. AP 7.148 che il primo dei carmi leonziani infatti sviluppano lo spunto finale dell’epigramma di Archia, AP 7.147.9-10 = GPh 3686-3687 Μοιράων βουλῇσι τάδ᾿ ἄµπλακεν, ὡς ἂν ὑπ᾿ ἐχθρῶν | µή τινος, ἀλλὰ σὺ σῇ πότµον ἕλῃς παλάµῃ. Anche nel caso di Leonzio è stata ipotizzata la natura ecfrastica dei suoi testi, ma quello che è importante mettere in evidenza, al di là dell’effettiva appartenenza degli epigrammi all’uno o all’altro genere686, è la notorietà del tema del suicidio di Aiace in epoca tardoantica; come è noto, tutto il ciclo epico diventa materia privilegiata per l’epica tarda (si veda il quinto canto del poema di Quinto Smirneo)687 ed inoltre il soggetto ben si prestava ad esercitazioni scolastiche come le etopee (cfr. Lib. Ethop. 5 Foerster)688: inevitabilmente un epigramma dedicato a questo soggetto sarà stato trattato dal poeta tardoantico con la libertà che la commistione dei generi letterari e il duttile utilizzo dei soggetti mitologici permetteva. Per quanto concerne poi reali rappresentazioni cui Leonzio potrebbe essersi ispirato, non fa difficoltà pensare a contemporanee opere d’arte riguardanti Aiace visto il

683 Imitato da Mnasalc. apud Ath. 4.163a = HE 2667-2670; Auson. ep. 3 Green.

684 Cfr. Reinach 1889, 62. Timomaco era un contemporaneo di Cesare: il suo famoso dipinto

però, secondo Filostrat. (vit. Apoll. Tyan. 2.22), avrebbe rappresentato la follia di Aiace dopo la strage degli armenti e non il suicidio, per questo Gow e Page 1968, 442 non si dicono d’accordo con l’idea di Reinach; cfr. anche Waltz et al. 1938, 117 n. 1. Per testimonianze sul quadro si veda Cic. Verr. 4.60.135; Ovid. Trist. 2.525; Plin. Hist.Nat. 8.39, 35.40.

685 Non una reale iscrizione però secondo Waltz et al. 1938, 117 n.2.

686 E abbiamo già avuto modo di notare come spesso i confini tra le diverse tipologie di carmi

sia labile.

687 Ricordiamo inoltre, un secolo più tardi, il “riassunto” dell’Iliade proposto da Malalas (al

libro quinto; in particolare 5.15, p. 84-85 Thurn per la morte di Aiace) il quale riporta la vicenda come avvenuta “ai tempi del re Davide”.

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successo iconografico relativo al soggetto689: una statua di Aiace ornava lo Zeuxippo secondo Christod. AP 2.271-276. Nella AP del resto troviamo anche altri epigrammi incentrati su episodi legati al personaggio del Telamonio, come ad esempio Agath. AP 9.204 = 33 Vians. sulla pietra che l’eroe avrebbe lanciato contro Ettore.

Κεῖται ἐνὶ Τροίῃ Τελαµώνιος, οὔ τινι δ’ ἔµπης ἀντιβίων ὀπάσας εὖχος ἑοῦ θανάτου·

τόσσης γὰρ Χρόνος ἄλλον ἐπάξιον ἀνέρα τόλµης οὐχ εὑρὼν παλάµῃ θῆκεν ὑπ’ αὐτοφόνῳ.

Giace nella Troade il Telamonio, ma non tuttavia

avendo concesso a qualcuno dei nemici la gloria della sua morte: infatti non trovando un altro uomo degno di tale coraggio

il Tempo lo ha posto in balia della mano suicida.

v.1 Κεῖται ἐνὶ Τροίη: il componimento inizia in stile epigrafico, cfr., e.g., SGO 01/01/11 = GVI 716.1; SGO 16/08/04; ala2004 147.1, 152.1, 163.b.1, 173.1690. La tomba di Aiace si trovava presso il promontorio Reteo, nella Troade, cfr. Antip. Sid. AP 7.146.1 = HE 208 Σῆµα παρ’ Αἰάντειον ἐπὶ Ῥοιτηίσιν ἀκταῖς; Euph. fr. 40.2 Powell = 44.2 Lightfoot Ῥοιτείῃς ἀµάθοισι δεδουπότος Αἰακίδαο; Q.S. 5.655-656 περὶ δέ σφισι γαῖαν | χεῦαν ἀπειρεσίην Ῥοιτηίδος οὐχ ἑκὰς ἀκτῆς.

Τελαµώνιος: in questa stessa sede metrica nel verso di “presentazione” dell’Iliade, ossia 6.5 Αἴας δὲ πρῶτος Τελαµώνιος ἕρκος Ἀχαιῶν (e altre 6x in Il.); la medesima posizione rilevante nel verso è ripresa anche da Q.S. 4.186; Christod. AP 2.271; Diosc. carm. 5.12 Fournet.

οὔ τινι δ᾿ ἔµπης: l’avverbio in clausola è frequente in Hom. e A.R., mai in Nonno.

v.2 ἀντιβίων ὀπάσας εὖχος ἑοῦ θανάτου: per il concetto si veda Arch. AP 7.147.5-6 = GPh 3682-3683 ἀλλ᾿ αὔτως προβλής τε καὶ ἔµπεδος ὥς τις ἐρίπνα | ἱδρυθεὶς ἔτλης λαίλαπα δυσµενέων. e ancora AP 7.147.9-10 = GPh 3686-3687 Μοιράων βουλῇσι τάδ᾿ ἄµπλακεν, ὡς ἂν ὑπ᾿ ἐχθρῶν | µή τινος κτλ. ἀντίβιος sostantivato nel significato di “nemico”, come sovente in Nonno691, in Christod. AP 2.93; Paul. Sil. Soph. 943.

vv.3-4 τόσσης γὰρ Χρόνος ἄλλον ἐπάξιον ἀνέρα τόλµης | οὐχ εὑρὼν: cfr. anon. AP 7.148.3-4 οὐδὲ γὰρ ἐν θνητοῖσι δυνήσατο καὶ µεµαυῖα | εὑρέµεναι

689 La scena del suicidio era da sempre stata istoriata sui vasi a figure rosse e nere; non

dimentichiamo inoltre la scena inclusa nella Tabula Iliaca capitolina, tratta dall’Etiopide. Cfr.

LIMC s.v. Aias I, 328-332; Squire 2011, 32 ss.

690 Per altri esempi cfr. Schulte 2005, 20. 691 Cfr. Peek s.v.

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Κλωθὼ τῷδ᾿ ἕτερον φονέα. Anche nel “modello” Archia sono genericamente le Moire a decretare la morte dell’eroe, qui invece vengono sostituite dal tempo personificato. Da notare gli estremi del verso, concordanti e allitteranti; l’audacia e il coraggio sono prerogative di Aiace, cfr. Christod. AP 2.271 Aiace ὀβριµόθυµος che θαρσαλέην ἀνέφαινεν ἀγηνορίην Τελαµῶνος (v.276).

v.4 παλάµῃ θῆκεν ὑπ᾿ αὐτοφόνῳ: cfr. Arch. AP 7.147.10 = GPh 3687 ἀλλὰ σὺ σῇ πότµον ἕλῃς παλάµῃ692; anon. AP 7.148.1-2 ὃν κτάνε Μοῖρα | αὐτοῦ χρησαµένα καὶ χερὶ καὶ ξίφει. Leonzio mescola sapientemente nel secondo distico le immagini dei componimenti precedenti. Per la iunctura παλάµη… αὐτοφόνῳ si veda [Opp.] Cyn. 4.290 αὐτοφόνοισιν… χερσί; [Orph.] Arg. 875 αὐτοφόνῳ παλάµῃ (Medea, in riferimento all’uccisione del fratello, quindi in questo caso l’aggettivo ha il significato di “che uccide i propri consanguinei”); Nonn. D. 17.314 (Oronte suicida); ma qui Leonzio ha sicuramente presente Triph. 19 Αἴας δ᾿ αὐτοφόνῳ βριαρὸν δέµας ἕλκεϊ λύσας693. L’aggettivo con lo stesso significato anche in Antiphil. AP 9.86.6 = GPh 996.

Αἴας ἐν Τροίῃ µετὰ µυρίον εὖχος ἀέθλων µέµφεται οὐκ ἐχθροῖς κείµενος, ἀλλὰ φίλοις.

Aiace nella Troade dopo la gloria di innumerevoli vittorie giacendo non biasima i nemici, ma gli amici.

v.1 Αἴας ἐν Τροίη: cfr. AP 7.149.1 Κεῖται ἐνὶ Τροίῃ Τελαµώνιος; il nome dell’eroe normalmente in incipit nel già citato Il. 6.5 e in Triph. 19 Αἴας δ᾿ αὐτοφόνῳ κτλ.; Q.S. 651 Αἴας σὺν τεύχεσσι κτλ.

µετὰ µυρίον εὖχος ἀέθλων: per le imprese di Aiace si veda Arch. AP 7.147.1- 6 = GPh 3678-3682. Notevole l’uso del sostantivo ἀέθλον, che può rimandare alla contesa per le armi contro Odisseo: causa del suicidio, come è noto, sarà proprio questa mancata vittoria; del contrario si rammarica Odisseo nell’Ade di fronte all’anima muta del Telamonio: ὡς δὴ µὴ ὄφελον νικᾶν τοιῷδ᾿ ἐπ᾿ ἀέθλῳ.

Il verso è un’imitazione di AP 1.10.74 Τοῖον Ἰουλιανή, µετὰ µυρίον ἑσµὸν ἀέθλων, epigramma per la chiesa di S. Polieucto che ebbe ben presto una circolazione anche in forma libraria694.

v.2 µέµφεται οὐκ ἐχθροῖς κείµενος, ἀλλὰ φίλοις: il motivo dell’accusa post

mortem diretta dal defunto a chi è stato causa del suo trapasso è comune

nell’epigramma funerario, cfr, e.g., Antip.695 AP 7.666.6 = 134 GPh.

692 Discusso in Magnelli 2011-2012, 254-255 a proposito della clausola monosillabica alla fine

del primo hemiepes del pentametro.

693 Con Miguélez Cavero 2013 ad l.. Per esempi iconografici cfr. LIMC s.v. Aias I, (XXV.8:

Ajax dirige contre lui son épée et se tue de sa propre main), 331.

694 Sull’influenza del componimento sulla poesia encomiastica dei membri del Ciclo, Paolo in

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Naturalmente la tomba costituisce un segno tangibile dell’ingiustizia che gli altri condottieri greci hanno usato nei confronti di Aiace: in questo senso la compresenza e la “confusione” nel verso tra chi è ἐχθρός e chi è φίλος nei confronti del Telamonio è particolarmente significativa: un simile effetto sortisce il momento della sepoltura dell’eroe sugli Achei in Q.S. 5.651-652 (con un’analoga compresenza nel verso di quelli che nel nostro epigramma sono i nemici e i “presunti” amici) Πολὺς δ᾿ ἐστείνετο λαὸς | αἰγιαλοῖς· Τρῶες δὲ γάνυντ᾿, ἀκάχοντο δ᾿ Ἀχαιοί, anche se in Quinto, in linea con la tradizione epica, lo stato d’animo degli Argivi non è certo prostrato dal rimorso, ma dall’accresciuta paura dei Troiani, ora che il “baluardo” Aiace è venuto meno (vv.662-663)696.

Il distico leonziano è accostabile ai vv. 618-620/21 dell’Aiace sofocleo: τὰ πρὶν δ᾿ ἔργα χεροῖν µεγίστας ἀρετᾶς | ἄφιλα παρ᾿ ἀφίλοις ἔπεσ᾿ ἔπεσε µελέοις Ἀτρείδαις.

AP 7.571

Per la morte del citarista Platone: con lui scompare anche l’arte citarodica. Non abbiamo altre notizie su un citarista di nome Platone se non questo epigramma, che si segnala per una ripresa di un passaggio dell’epitafio di Bione dello ps. Mosco: Leonzio sviluppa così l’idea della “morte dell’arte”, consueta per l’epigrammatica funeraria e non solo (vd. commento). L’importanza di certe figure di intrattenitori nel mondo antico e tardoantico è ben testimoniata dalla produzione epigrammatica su questi soggetti: si veda, ad esempio Alc. Mess. AP 7.412 = HE 82-89; Hedyl. apud Ath. 4.176c = HE 1877-1886; Agath. AP 7.612 = 24 Vians.; Anth. Lat. 113 R2 = 102 Sh.-B. La figura del citarodo è utilizzata, ancora nell’epigrammistica latina, per paragoni ironici, cfr. Mart. 5.56.9, 11.75.3; Auson. ep. 44 Kay.

Ὀρφέος οἰχοµένου τάχα τις τότε λείπετο Μοῦσα· σεῦ δέ, Πλάτων, φθιµένου παύσατο καὶ κιθάρη· ἦν γὰρ ἔτι προτέρων µελέων ὀλίγη τις ἀπορρὼξ ἐν σαῖς σῳζοµένη καὶ φρεσὶ καὶ παλάµαις.

1 τις τότε P : τίς ποτε Pl

Dopo la dipartita di Orfeo una qualche Musa forse allora era rimasta; ma dacché, Platone, sei morto anche la musica è cessata:

c’era infatti ancora un piccolo residuo delle antiche melodie conservata sia nel tuo cuore che nelle tue mani.

695 Per l’incertezza tra il Sidonio e il Tessalonicese cfr. Argentieri 2003, 117.

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v.1 τάχα τις τότε λείπετο Μοῦσα: Euterpe? (ma il τις ha sapore ironico). Da notare la posizione enfatica a inizio e fine di verso dei due massimi rappresentanti dell’arte citaredica, per cui cfr. Nonn. D. 19.101 (Eagro) ὡς γενέτης Ὀρφῆος, ὁµέστιος ἠθάδι Μούση. Non mi sento di preferire la lezione planudea τίς ποτε perché essa leverebbe l’insistita allitterazione, significativa in un componimento dedicato alla musica e ai suoi esecutori.

vv.1-2 Ὀρφέος οἰχοµένου …|σεῦ… φθιµένου: per la coppia di genitivi assoluti si veda Nonn. D. 19.35 καὶ φθιµένου Σταφύλοιο καὶ οἰχοµένου ∆ιονύσου. Il paragone con Orfeo è consueto nei carmi dedicati a musicisti e ai citaristi in particolare, come ad esempio in Anth. Lat. 114.7 R2 = 103.7 Sh.-B. = 25.7 Zurli.

v.2: l’idea della “morte dell’arte” al momento della scomparsa del suo più insigne rappresentante ha la sua prima attestazione in [Mosch.] epit. Bion.11- 12 ὅττι Βίων τέθνακεν ὁ βουκόλος, ὅττι σὺν αὐτῷ | καὶ τὸ µέλος τέθνακε καὶ ὤλετο ∆ωρὶς ἀοιδά; il concetto verrà poi ampiamente sfruttato dall’epi- grammistica, soprattutto funeraria697.

v.3 προτέρων µελέων: il fulcro dell’encomio del defunto, è ciò che giustifica il paragone con gli illustri antichi rappresentanti dell’arte, è il suo essere erede dell’abilità di questi: cfr. Leont. AP 573.2 (Chiredio è inserito nel canone dei dieci oratori attici); Jul. Aegypt. AP 7.561.2 (per la morte di Cratero ἄξιον εἰς ἀρετὴν τῶν προτέρων ἐτέων).

ὀλίγη τις ἀπορρώξ: ἀπορρώξ, spesso in clausola esametrica (per τις ἀπορρώξ cfr. A.R. 4.637; Lascaris ep. 12.9 Meschini) come sostantivo indica lette- ralmente un residuo, una parte che deriva dallo stillare (cfr. Hsch. α 6606 Latte; di nettare e ambrosia in Od. 9.359), da un’emanazione (cfr. Greg. Naz. carm. 1.1.4.32 e 1.1.7.73) e appare qui particolarmente indicato in riferimento alla melodia, le cui ultime vibrazioni, prima di esaurirsi del tutto, sono state alimentate dalla maestria di Platone.

v.4 καὶ παλάµαις: consueta clausola di pentametro; l’attenzione per le mani del citarista si ritrova anche in Anth. Lat. 113.3-6 R2 = 102.3-6 Sh.-B. Stat tactu cantuque potens, cui brachia linguae | concordant sensu conciliata pari. | Namque ita tam aequali ambo moderamine librat | atque oris socias temperat

arte manus.

697 Per altri riferimenti si veda Viansino 1967 a Agath. AP 7.612.3, 67; cfr. anche Cameron

1973, 87-90 (il quale nega per Agazia, «in view of the numerous other examples», la ripresa diretta dello pseudo Mosco postulata da Mattsson); Schulte 2005, 22.

156 AP 7.573 = GVI 110

Epitafio per l’ateniese Chiredio, che fu eccellente sia come avvocato che come giudice.

Anche il personaggio di Chiredio, come già Platone, non ci è altrimenti noto: da quello che possiamo ricavare dal testo egli fu prima un avvocato, poi divenne governatore provinciale o uno dei δικασταί (iudices pedanei) creati da Giustiniano nel 539 (cfr. Nov. 82)698. Leonzio scrive l’elogio funebre di quella che probabilmente era una sua conoscenza personale, forse un collega, puntando sui luoghi comuni relativi alle figure dei retori e dei giudici: il paragone coi dieci oratori attici e la condotta giusta e imparziale dell’esecutore della legge.

Χειρεδίου τόδε σῆµα, τὸν ἔτρεφεν Ἀτθὶς ἄρουρα εἰκόνα ῥητήρων τῆς προτέρης δεκάδος,

ῥηιδίως πείθοντα δικασπόλον· ἀλλὰ δικάζων οὔποτε τῆς ὀρθῆς οὐδ’ ὅσον ἐτράπετο.

Questa è la tomba di Chiredio, che la terra d’Attica nutrì immagine degli oratori dell’antica decade,

lui che facilmente convinceva il giudice: ma trovandosi a giudicare non si allontanò mai neanche di poco dalla retta via.

v.1 Χειρεδίου τόδε σῆµα: consueto “attacco” epigrafico.

Ἀτθὶς ἄρουρα: come aggettivo Ἀτθίς, che qui punta anche sulla natura “attica” delle virtù oratorie di Chiredio, compare spesso in questa posizione nell’esametro nonniano (14x nelle D., di cui 4 nel solo canto 47), cfr. in particolare D. 47.263 Ἀτθίδι γαίη; ἄρουρα (e i suoi diversi casi) costituisce un consueto finale per l’esametro di tutte le epoche (per il nostro caso cfr. Od. 1.407 πατρὶς ἄρουρα) ma non per quello nonniano, che evita, come è noto, polisillabi proparossitoni in fine di verso.

v.2 εἰκόνα: per il valore di εἰκών cfr., e.g., Nonn. D. 28.156-157 ἔην δέ τις Ἄρεος εἰκὼν | ὀψιγόνῳ ναετῆρι φυλασσοµένη Μαραθῶνος, dove il guer- riero senza le braccia è immagine di Ares e prefigurazione del futuro concit- tadino Cinegiro, in una sequenza temporale invertita rispetto alla nostra in cui Chiredio è proiezione degli antichi oratori attici. Naturalmente qui è valido anche il significato letterale del termine εἰκών trattandosi del monu- mento funebre di Chiredio699.

698 Cfr. PLRE IIIa s.v. Cheiredius, 286. 699 Per εἰκών = statua cfr. Mango 1986a, 24.

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ῥητήρων τῆς προτέρης δεκάδος: già Jacobs segnalava il passo di Luc. Scyth. 10 per questo paragone col canone dei 10 oratori attici700; per il nostro caso un parallelo più stringente è sicuramente Puech 69.3 = Samama 334.3 ῥήτορα ἐν τοῖς δέκα Ἀθηναίων πρώτοις (Antiochia, IV d.C.) in cui «l’archiatra Calpurnio Collega, medico e filosofo platonico, è elogiato per la sua eloquenza»701. v.3 ῥηιδίως: da notare l’assonanza col nome dell’elogiato, anch’esso in posizione enfatica in incipit di esametro. Spesso nei procedimenti encomiastici degli epigrammi funerari e non solo, non ci si limita, come qui, a creare assonanze col nome del laudandus ma vere e proprie paretimologie: si veda Christod. AP 7.697.5-7 (elogio di Giovanni, λύχνος che ebbe come patria Λυχνιδόν)702; troveremo diversi esempi di paretimologia all’interno della produzione leonziana.

πείθοντα δικασπόλον: come abbiamo già accennato Chiredio fu avvocato presso una pubblica corte, verosimilmente quella di un governatore provin- ciale. Il termine δικασπόλος infatti, assai diffuso nella poesia tarda (cfr. Pamprep. fr. 4.11 Livrea; Colluth. 289703; 8x nelle D., 3x nella P. nella nostra stessa sede metrica), viene riferito da Agath. AP 11.376.11 = 13.11 Vians. ad un giudice, da Gregorio di Nazianzo a Massimiano (che fu PPA, vic.VR, e PPO

Italiae) in AP 8.108.1, da Diosc. in carm. 14.21 Fournet a Marco fratello del

laudandus Costantino, da anon. APl 43.1 = SGO 05/01/10 a Damocaride,

governatore a Smirna.

ἀλλὰ δικάζων: clausola nonniana, cfr. D. 23.94; δικάζων in fine di verso anche in P. 19.20 ma il parallelo più importante per il nostro testo è Christod. AP 7.697.9 καὶ Ἰλλυριοῖσι δικάζων facente allusione alla carica di PPI di Giovanni704. Per l’uso del verbo si veda anche Jo. Geom. carm. 96.5 van Opstall, versi eroici per Teodoro Decapolite τῷ δὲ παρεζοµένη λαοῖσι δίκαζε τἀληθῆ.

v.4: τῆς ὀρθῆς scil. ὀδοῦ vel κρίσεως; non ritengo, con Schulte, di leggere quest’ultimo verso come una critica nei confronti di Giustiniano, del quale Procopio depreca, inter alia, le pessime qualità di giudice (Arc. 13.21); mi sembra piuttosto ancora un cliché laudativo collaudato in riferimento a figure affini a Chiredio, basti citare il cosiddetto “Ciclo di Martiniano” dei funerari di Gregorio di Nazianzo: qui sovente viene ricordata l’imparzialità dell’attività giuridica del defunto (tramite l’espressione “reggere la bilancia” ed un costante

700 Su cui si veda OCD3 s.v. Attic Orators, 212.

701 Cfr. Agosti 2006-2007, 13. 702 Cfr. Tissoni 2000, 26.

703 Con Livrea 1968 ad l., per le occorrenze precedenti; si veda anche Livrea 1973 a A.R.

4.1178.

704 Per l’identificazione con Giovanni di Epidamno e per il commento al testo si veda Tissoni

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riferimento a Themis)705. Vale la pena ricordare inoltre che tra gli stilemi utilizzati nella lode del iudex Martiniano compare anche la menzione della sua eccellenza oratoria similmente a quanto accade per il nostro Chiredio (cfr. Greg. Naz. AP 8.108.1706). Limitatamente al Ciclo si veda anche Agath. AP 7.574 = 9 Vians., dove del defunto giurista Agatonico si dice (v.3) che la Moira µιν ἁρπάξασα σοφῶν ἤµερσε θεµίστων.

Anche il tema opposto, ossia quello della fallacia e stoltezza dei giudici e degli avvocati, era comune tra i nostri poeti attivi nel settore: ad essi sono dedicati infatti Agath. AP 11.350 = 12 Vians. e il già ricordato AP 11.376 = 13 Vians.

AP 7.575 = GVI 640

Epitafio per Rode, moglie di Gemello, morta di vecchiaia dopo una vita felice. Viene qui ricordata, con le movenze tipiche dell’epitafio epigrafico, la tiriana Rode707, moglie di Gemello, identificato dagli esegeti come uno degli

antecessors dell’epoca del nostro poeta708: egli non compare tra gli antecessors

cui è indirizzata la Constitutio Omnem del 533. Il testo passa in rassegna, distico dopo distico, i momenti salienti dell’esistenza della donna, legati ovviamente alla vita familiare709 (si trasferì forse a Costantinopoli per seguire il marito e qui, stando al lemma, morì): domina la topica del genere, che insiste sulla fedeltà incondizionata della donna, sulle sue virtù in qualità di moglie e madre e sul rimpianto per la sua dipartita, anche se avvenuta in tarda età. Esempi di carmi analoghi non mancano, ovviamente nel settimo libro della AP: basti qui ricordare Agath. AP 7.552 = 8 Vians., epitafio per la madre Periclea.

Σῆµα Ῥόδης· Τυρίη δὲ γυνὴ πέλεν, ἀντὶ δὲ πάτρης ἵκετο τήνδε πόλιν κηδοµένη τεκέων. αὕτη ἀειµνήστοιο λέχος κόσµησε Γεµέλλου, ὃς πάρος εὐνοµίης ἴδµονα θῆκε πόλιν. γρηῢς µὲν µόρον εὗρεν, ὄφελλε δὲ µυρία κύκλα 5 ζώειν· τῶν ἀγαθῶν οὐ δεχόµεσθα κόρον. 3 αὕτη P : αὐτή Brunck

705 Cfr. Corsano 1991; la lode di Martiniano si unisce, in questi testi, all’esecrazione dei

violatori del sepolcro: su questo aspetto degli epigrammi del Nazianzeno si veda Floridi 2013c. Sulle sfaccettature della figura del iudex in epoca tarda cfr. Harries 1999.

706 Sui rapporti tra questo testo e l’elogio funebre di Giovanni, anch’egli prefetto e poeta, in

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