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Nees geneteres aoides. traduzione e commento degli epigrammi dei "minori" del ciclo di agazia

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II

NOTA INTRODUTTIVA

L’idea di presentare un progetto di ricerca sugli epigrammisti minori del

Ciclo di Agazia ― quelli cioè che, diversamente da Paolo Silenziario,

Mace-donio, Giuliano d’Egitto e Agazia stesso, hanno all’attivo un numero esiguo di componimenti epigrammatici ― nasce dalla prosecuzione della mia tesi di lau-rea specialistica condotta sul medesimo argomento: l’esigenza di fornire questi testi di un commento esaustivo e scientificamente organizzato, similmente a quello condotto già da tempo sugli epigrammisti dei secoli precedenti, si è fatta poi più urgente negli ultimi anni visto da un lato il fermento che sta interessan-do i poeti della silloge agaziana1, dall’altro la totale inadeguatezza dei lavori di H. Schulte, tentativo mal riuscito di commento ai componimenti dei “minori”2. Questa tesi di Dottorato è dunque il frutto di anni di lavoro sul testo degli epi-grammi dei “colleghi” di Agazia e si pone accanto ai commenti già esistenti3 quale strumento di lavoro per la comprensione della “rinascita” del genere epi-grammatico in età giustinianea ― e avremo poi modo di chiarire la validità di quest’espressione. Non si pensi però solamente all’ultima tessera di un puzzle (o, per meglio dire, di un mosaico), quella che consente finalmente la visione d’insieme dell’amplissima tradizione epigrammatica che dai poeti delle due

Corone si dipana fino appunto ad Agazia, prima di entrare definitivamente

nell’epoca bizantina: il presente lavoro costituiva un desideratum anche dal punto di vista dello studio unitario della Spätantike e come tale deve essere va-lutato, esattamente come il periodo cui appartiene: non il colpo di coda di seco-li di grecità ma una realtà letteraria affatto pecuseco-liare, profondamente legata al momento storico-culturale che l’ha prodotta.

***

Il momento dei ringraziamenti è, in questo caso, particolarmente emozio-nante dacché gli anni del Dottorato hanno costituito per me un vero e proprio ritorno agli studi filologici e hanno coinciso con un momento particolarmente felice della mia esistenza: di entrambi gli aspetti sono debitrice in primo luogo alla mia famiglia e a Claudio, che è diventato da poco mio marito; in secondo

1 Dopo il volume di Viansino 1963, Paolo Silenziario è da tempo affidato alle esperte cure

editoriali di C. De Stefani, mentre per Agazia F. Valerio ha fornito di recente una eccellente edizione critica, ancora inedita, degli epigrammi (cfr. Valerio 2014); Giuliano d’Egitto è invece oggetto degli studi di A. Gullo. Con questi ultimi due giovani studiosi è nato non solo un rapporto di collaborazione ma anche una sincera amicizia: il loro aiuto e le loro ricerche sono stati preziosi per la stesura del presente lavoro.

2 Cfr. Schulte 2005 e 2006.

3 Oltre al già citato Viansino 1963 su Paolo, Viansino 1967, pur con i suoi limiti, rimane ancora

l’unico commentario agli epigrammi del “corifeo” Agazia; per Macedonio possediamo l’ottimo Madden 1995: per ogni membro del Ciclo la base di partenza rimane la monografia di Mattsson 1942.

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primo grado “IV Novembre” di Arezzo, in particolare gli alunni della classe I C, con i quali ho avuto modo, in questi ultimi mesi, di ripercorrere le tappe del regno di Giustiniano il Grande. Un pensiero speciale infine va agli amici e col-leghi del Dottorato, Valentina Cecchetti, Luca Civitavecchia, Giampiero Mar-chi, Cristiano Berolli e Matteo Frivoli, studiosi eccellenti ai quali mi ha legato un affetto via via sempre più profondo: li ringrazio per essere riusciti a mitigare la fatica dello studio con tante, tantissime risate. Dedico la tesi alla piccola Ma-tilde, mia nipote, il cui sorriso cancella all’istante la pesantezza di certe giorna-te.

Questa tesi ha beneficiato di un soggiorno di un mese (novembre 2014) presso la Fondation Hardt pour l’étude de l’antiquité classique (Vandoeuvre- Ginevra), grazie alla borsa di studio per dottorandi e giovani ricercatori bandita dalla medesima Fondazione.

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PARTE PRIMA

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5 1. Genesi della raccolta

Sin dal III secolo a.C. c’è stata, nei confronti del sempre prolifico genere dell’epigramma, la tendenza ad antologizzare parte della vasta produzione che ogni periodo aveva da offrire, sì da costituire raccolte rappresentative dell’ec- cellenza raggiunta da coloro che si cimentavano in tali componimenti. Dopo la grande stagione vissuta in età ellenistica e nella prima età imperiale, l’epi- gramma fiorisce sotto Giustiniano e i suoi successori, in quella che è stata spes-so definita, in modo forse improprio, una “rinascita” del genere in età giusti-nianea4. Intorno alla metà del VI secolo d.C. Agazia di Mirine, σχολαστικός e letterato continuatore dell’opera storica di Procopio di Cesarea, ispirandosi alle precedenti raccolte di Meleagro di Gadara e Filippo di Tessalonica, compila una silloge di epigrammi a cui dà il nome di Κύκλος. Diviso in sette libri in ba-se all’argomento, contiene componimenti di poeti contemporanei di Agazia, la maggior parte dei quali erano σχολαστικοί ed erano in varia misura conoscenti dell’antologizzatore e tra di loro: tutti comunque gravitavano per lavoro attorno alla corte di Giustiniano e si cimentavano nella poesia per passione, tanto che si può parlare di “poeti occasionali”. Il Ciclo (d’ora in poi nella forma tradotta) di Agazia rappresenta un punto fermo nella storia delle antologie di epigrammi in quanto mostra, sia nell’organizzazione complessiva sia nelle riflessioni conte-nute nella parte proemiale, la consapevolezza da parte dell’autore della novità rappresentata dalla produzione coeva rispetto a quella precedente; esso è inol-tre, assieme ai componimenti di Gregorio di Nazianzo e Pallada, la testimo-nianza principale del genere dell’epigramma letterario nella tarda antichità.

Con il X secolo e l’inizio del periodo che viene chiamato “rinascenza macedone” si assiste ad una ripresa di interesse verso la grande produzione let-teraria delle epoche precedenti, accompagnata dalla volontà di riproposizione dei classici tramite raccolte o estratti particolarmente adatti alla divulgazione presso le cerchie erudite della società. Nel 917 d.C. Costantino Cefala, προτοπάπας della corte di Costantino VII Porfirogenito, riunisce il Ciclo e le altre antologie in una sua raccolta, organizzata secondo lo stesso criterio scelto da Agazia, in cui, peraltro, egli riporta anche le prefazioni dei suoi predecesso-ri: a lui va il merito di aver conservato i tre proemi scritti da Agazia di cui par-leremo tra poco. Dopo Cefala, e partendo proprio dal suo lavoro, degli anonimi hanno curato, probabilmente tra il 930 e il 970, la silloge che ha assicurato, in via definitiva, la conservazione del genere epigrammatico: è l’Anthologia Gra-eca, conosciuta comunemente come Anthologia Palatina (d’ora in avanti AP) dal luogo (la biblioteca Palatina di Heidelberg) in cui era conservato il mano-scritto che la conteneva. Il codice della biblioteca Palatina venne qui riscoperto intorno al XVI secolo e portato alla biblioteca Vaticana; la sua sorte fu quella

4 Che il genere epigrammatico non sia mai “morto” davvero lo dimostra la sua ininterrotta

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di essere diviso in due parti che sono oggi i testimoni principali dell’Anthologia

Graeca: il Palatinus Heidelbergensis Graecus 23 (P) e il Parisinus

Supplemen-tum Graecus 384. Accanto a questi, altro testimone di importanza capitale è il

ms. Marc. gr. 481 (Pl), che riporta l’antologia assemblata da Massimo Planude nel suo atelier scrittorio attorno al 1299-1301, l’Anthologia Planudea: in pos-sesso di due antigrafi cefalani, Planude mise assieme una silloge che ha il meri-to di conservarci 388 epigrammi non contenuti in P, che sono oggi conosciuti col nome di Appendix Planudea (APl nel presente lavoro)5.

Nel corso degli anni gli studi sempre più mirati sulla personalità e l’opera di Agazia hanno portato a continui dibattiti sulla cronologia relativa alla com-posizione dei suoi lavori, tesi non solo a collocare con precisione la sua raccol-ta epigrammatica in rapporto alle altre opere agaziane, ma anche e soprattutto a cercare di stabilire la data di pubblicazione della silloge; oltre al problema cro-nologico, teso soprattutto ad identificare l’imperatore cui è dedicata la raccolta, sin dai tempi di Mattsson si è cercato di indagare più a fondo l’aspetto com-plessivo dei componimenti che compongono il Ciclo, senza mai però tentare una vera e propria ricostruzione, anche solo ipotetica, della fisionomia della raccolta. La difficoltà nel portare avanti quest’ultimo versante dello studio dell’epigramma tardoantico è in parte dovuto al fatto che necessariamente ci si trova a dover fare i conti con il metodo di lavoro che Costantino Cefala adottò per assemblare la sua antologia: Cefala infatti trasse degli escerti dal Ciclo ― quelle che i coniugi Cameron, nel loro fondamentale studio, hanno definito “Cycle-sequences”6 (denominazione che sarà adottata anche nel presente lavo-ro) ― che intervallò agli estratti dalle altre antologie. Non sempre è agevole identificare con sicurezza l’inizio e la fine di tali sequenze perché Cefala inserì in esse componimenti tratti anche da altre sillogi come quella di Pallada7; altre volte invece è stata conservata una sequenza agaziana genuina, che è servita come base per identificare i poeti effettivamente appartenenti al Ciclo e per comprendere i criteri che hanno regolato il lavoro di antologizzatore del Miri-nense: si consideri ad esempio la lunga sequenza presente nel quinto libro di Cefala, quello degli epigrammi erotici, che testimonia una buona parte, se non la totalità dell’originario sesto libro del Ciclo8.

5 Dall’edizione di Dübner in poi è invalso l’uso, presso gli editori, di riunire questi 388

epigrammi nel cosiddetto sedicesimo libro della AP che, di fatto, è un’invenzione moderna. Per la storia della AP fondamentale rimane Cameron 1993.

6 Cfr. Cameron-Cameron 1966a, passim.

7 Già i coniugi Cameron, 1966a parlano di “broken Cycle-sequences”.

8 Per un’analisi dettagliata della suddetta sequenza, che va da AP 5.216 ad AP 5.302 (entrambi

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7 1.1 Il lavoro di Agazia

Non sussistono dubbi sul fatto che Agazia, prima di dedicarsi alla sua pera storica e subito dopo la composizione del poema mitologico ∆αφνιακά, mise insieme una raccolta epigrammatica: egli stesso ci informa di ciò nella prefazione alle sue Historiae9. Interesse giovanile dunque quello per la poe-sia10, che lo portò, prima dell’impegno della continuazione del lavoro storico di Procopio di Cesarea, alla raccolta di epigrammi τὰ ἀρτιγενῆ καὶ νεώτερα: il criterio di scelta dei poeti che Agazia include nella sua silloge è messo chiara-mente in evidenza da queste parole, dove si dice che i componimenti seleziona-ti sono recenseleziona-ti e ancora ignoseleziona-ti, composseleziona-ti da poeseleziona-ti contemporanei di Agazia11. La novità costituita dalle composizioni poetiche del suo tempo Agazia la ri-marca anche nella sezione giambica del proemio al Ciclo12, tramandatoci as-sieme a quelli delle corone di Meleagro e Filippo da Cefala nel quarto libro della sua antologia13, cfr. AP 4.3.20 = 1.20 Vians. ἥκω προθήσων ἐκ νέων ἡδυσµάτων, ed infine nella sezione esametrica dello stesso prologo, nella orgo-gliosa definizione che egli sceglie per sé e i suoi sodali e che costituisce il tito-lo del presente lavoro, cfr. Agath. AP 4.3.114 = 2.68 Vians. ὅσσαπερ ἐγράψαντο νέης γενετῆρες ἀοιδῆς. Altrettanto orgoglio Agazia mostra per il suo operato di antologizzatore, ancora nella sezione esametrica del proemio, cfr. AP 4.3.103-107 = 2.57-61 Vians. σοὶ γὰρ ἐγὼ τὸν ἄεθλον ἐµόχθεον· εἰς σὲ δὲ µύθω | ἐργασίην ἤσκησα, µιῇ δ’ ὑπὸ σύζυγι βίβλῳ | ἐµπορίην ἤθροισα πολυξείνοιο µελίσσης· | καὶ τόσον ἐξ ἐλέγοιο πολυσπερὲς ἄνθος ἀγείρας, | στέµµα σοι εὐµύθοιο καθήρµοσα Καλλιοπείης. Nella nuova antologia trovano posto anche gli epigrammi che Agazia compone in prima persona: oltre alla convenzionalità delle affermazioni del proemio, che trovano senso nella dedica a Teodoro14, vale la pena segnalare che anche in questo atteggiamento Agazia

9 Cfr. Agath. Hist. praef. 8 ἔδοξε δέ µοι πρότερον κἀκεῖνο ἀξιέπαινόν τι εἶναι καὶ οὐκ ἄχαρι, εἴ

γε τῶν ἐπιγραµµάτων τὰ ἀρτιγενῆ καὶ νεώτερα, διαλανθάνοντα ἔτι καὶ χύδην οὑτωσὶ παρ’ ἐνίοις ὑποψιθυριζόµενα, ἀγείραιµί τε ὡς οἷόν τε εἰς ταὐτὸ καὶ ἀναγράψαιµι ἕκαστα ἐν κόσµῳ ἀποκεκριµένα. καὶ οὖν δὴ καὶ τόδε µοι ἐκτετέλεσται ἕτερά τε πολλὰ ἀγωνίσµατα, τοῦ µὲν ἀναγκαίου χάριν οὐ µάλα πεποιηµένα, ἄλλως δὲ ἴσως προσαγωγὰ καὶ θελκτήρια.

10 Ma mai sopito, cfr. Cameron 1970c, 9. 11 Cfr. Cameron 1970c, 12 ss.

12 Ricordiamo che Agazia compose due testi prefatori alla raccolta, AP 4.31-133 = 1-2 Vians.

(giambi+esametri) e AP 4.4 = 3 Vians., un vero e proprio epigramma in distici concepito come introduzione alla versione del Ciclo destinata alla pubblicazione: questa l’ipotesi, condivisibile, di Magnelli 2008a. Sulla prassi tardoantica del prologo giambico cfr. Viljamaa 1968, 68-97; Cameron 1970b.

13 Sul valore dei due proemi di Agazia all’interno del quarto libro e in rapporto ai precedenti di

Meleagro e Filippo cfr. Magnelli 2008a.

14 Sull’identificazione di Teodoro cfr. almeno McCail 1969, 92-94 e Baldwin 1980, 336 che

vedono nel personaggio menzionato da Agazia nei suoi versi (PLRE IIIb s.v. Theodorus 57) lo stesso Teodoro che sarebbe menzionato in AP 1.36 (PLRE IIIb s.v. Theodorus 54); Cameron 1970c, 8 n.1 (con bibliografia precedente) e Cameron 1993, 73-74 propongono di verdervi in-vece il decurione che fu dux et augustalis della Tebaide nel 577 d.C. (PLRE IIIb s.v. Theodorus 35).

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si pone perfettamente in linea con quanti lo hanno preceduto, dacché «l’antologista riassume in sé le caratteristiche sia del redattore della silloge, che raccoglie e dispone materiale altrui, sia del poeta del libellus, che crea ma-teriale nuovo»15.

Come si vede dai testi che abbiamo citato non è il Mirinense a rivelare il nome del dedicatario dell’opera né il titolo della stessa: per quanto concerne il titolo abbiamo la voce relativa ad Agazia della Suda16, laddove invece il lemma di P ad AP 4.3 riporta solo un generico συλλογὴ νέων επιγραµµάτων17; la Suda è inoltre l’unica fonte da cui ricaviamo almeno tre dei nomi dei componenti del

Ciclo: Agazia infatti, a differenza dei suoi predecessori18, non elenca nei versi

prefatori i nomi dei suoi sodali19 che, come abbiamo detto, vanno ricavati dall’analisi delle sezioni cefalane tratte dal Ciclo.

1.2 Struttura e datazione della silloge

Agazia dunque, nella migliore tradizione ellenistica delle raccolte epi-grammatiche, riunì in un’unica opera gli epigrammi scritti da lui e da persona-lità con cui era variamente in rapporto, amici e conoscenze nell’ambito dell’avvocatura. La disposizione dei testi nella silloge però non seguì l’exemplum delle “corone” di Meleagro e Filippo ma si rifece ad un’altra ten-denza già in voga all’epoca ellenistica, vale a dire l’organizzazione per libri tematici20: Agazia distribuì infatti i componimenti in sette libri in base all’argomento, e di questi libri fece una puntuale presentazione nella già citata sezione esametrica del suo prologo, grazie alla quale possiamo avere un’idea appunto del contenuto e della successione dei libri stessi. Seguendo passo pas-so i versi del prologo riconosciamo, nell’ordine, i seguenti libri:

libro I: epigrammi votivi (AP 4.3.113-116 = 2.67-70 Vians.); libro 2: epigrammi ecfrastici (AP 4.3.117-120 = 2.71-74 Vians.); libro III: epigrammi funerari (AP 4.3.121-123 = 2.75-77 Vians.);

libro IV: epigrammi epidittici21 e protrettici (AP 4.3.124-126 = 2.78-80 Vians.);

libro V: epigrammi satirici (AP 4.3.127-129 = 2.81-83 Vians.);

15 Cfr. Argentieri 1998, 2.

16 Cfr. Suda α 112 Adler = Agath. test. 6 Keydell οὗτος συνέταξε καὶ ἕτερα βιβλία ἔµµετρά τε

καὶ καταλογάδην, τά τε καλούµενα ∆αφνιακά, καὶ τὸν Κύκλον τῶν νέων Ἐπιγραµµάτων, ὃν αὐτὸς συνῆξεν ἐκ τῶν κατὰ καιρὸν ποιητῶν. συνήκµασε δὲ Παύλῳ τῷ Σελεντιαρίῳ καὶ Μακεδονίῳ τῷ ὑπάτῳ καὶ Τριβουνιανῷ ἐπὶ τῶν Ἰουστινιανοῦ χρόνων.

17 Ed indica il dedicatario in “Teodoro decurione figlio di Cosma”. 18 Cfr. Cameron 1993, 19 ss.

19 Accanto ai noti Paolo Silenziario e a Macedonio, il terzo nome citato dalla Suda, Triboniano,

rimane ancora oggi sconosciuto: non ci sono componimenti all’interno di AP e APl attribuiti ad un poeta con questo nome.

20 Cfr. il Pap. Mil. Vogl. VIII 309 contenente gli epigrammi di Posidippo di Pella.

21 Su cosa si intenda per epigramma epidittico cfr., oltre all’ormai classico Lauxtermann 1998,

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libro VI: epigrammi erotici (AP 4.3.129-131 = 2.83-85 Vians.);

libro VII: epigrammi simposiali (AP 4.3.131-133 = 2.85-87 Vians.), di cui ci rimangono solamente sette esemplari per scelta di Agazia stesso o di un compilatore più tardo22.

La scelta organizzativa di Agazia ebbe conseguenze assai profonde sulla futura trasmissione del genere epigrammatico: come è noto Cefala, nel riunire le sillogi antiche in un’unica antologia, adottò proprio il sistema agaziano, che è poi passato in P e in Pl. Non solo: anche i criteri con cui il Mirinense dispose i testi, identificati da Mattsson nel suo pionieristico studio23, furono poi adottati da Cefala. Secondo un criterio di alternanza infatti Agazia intervallò agli epi-grammi suoi, di Paolo, Macedonio e Giuliano d’Egitto, quelli dei poeti “mino-ri”, creando così sequenze variegate non solo dal punto di vista degli autori ma anche da quello dei soggetti, nello stile etc., in base al secondo criterio, quello associativo per somiglianze o differenze.

Una volta terminato il suo lavoro di compilazione, Agazia provvide alla pubblicazione del Ciclo negli anni 567-568 d.C., vale a dire nei primi anni di regno dell’imperatore Giustino II24: il periodo che il Mirinense ha passato nella raccolta e selezione degli epigrammi, svoltosi essenzialmente durante il regno di Giustiniano, ha prodotto un’opera che è specchio fedele di quell’epoca e che deve molto all’imperatore e all’impronta indelebile che egli impresse alla so-cietà del VI secolo d.C.25. Anche se mai nominato esplicitamente all’interno del Ciclo, Giustiniano fa sentire la sua presenza nei molti epigrammi ecfrastici ed encomiastici dedicati alle sue imprese, ai suoi funzionari e alle figure che popolavano la sua corte, dando ai poeti del Ciclo l’occasione di comporre, nel-lo stile della tradizione ellenistica e nonniana, un tipo di poesia cortigiana che è già pienamente bizantina.

22 Per queste due posizioni cfr. McCail 1971, 240 (che nota anche come i libri “seri” precedano

quelli più “leggeri” e Madden 1995, 295-299; Valerio 2014, 15 pensa, molto opportunamente ad un guasto meccanico della tradizione.

23 Cfr. Mattsson 1942, 1-16.

24 Così, convincentemente, Cameron-Cameron 1966a, 21-25; Cameron 1970c, 12-16; Cameron

1993, 69-75 pace Baldwin 1977, 298-301; 1980.

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10 2. La poesia dei “minori” del Ciclo 2.1 Omero

Negli ultimi tempi sta aumentando, presso gli studiosi, l’interesse per un campo di indagine quale la presenza di Omero negli epigrammi; dopo il basila-re studio ― che ancora rimane l’unico ad ampio raggio ― di Skiadas26, le ul-time due decadi hanno visto apparire contributi specifici sull’argomento27, che affiancano i risultati ricavabili dagli studi monografici sui singoli epigrammisti delle varie sillogi. Per quanto riguarda l’epigramma letterario tardoantico una prima ricognizione si deve a Madden, che ha analizzato alcune possibili eco omeriche in Macedonio28: allo stato attuale degli studi un buon contributo è quello portato dai lavori di Guichard, fondato essenzialmente su Pallada29, e di Agosti, il quale concentra il suo interesse sui carmi epigrafici30. Tenendo in considerazione i risultati già raggiunti dalla ricerca, indagheremo la presenza di Omero nei componimenti dei poeti del Ciclo, con particolare attenzione ai co-siddetti poeti “minori” che mai fino ad ora sono stati analizzati da questo punto di vista.

Un aspetto fondante e assai noto della poesia tardoantica è la doppia in-fluenza di retorica e παιδεία sul gusto estetico contemporaneo: è in questo qua-dro che ogni traccia di poesia omerica ― piccola o grande che sia ― andrà sempre considerata, tenendo dunque conto di cosa è un portato della tradizione e della prassi “scolastica” e cosa invece è imitazione originale e consapevole. I poeti del Ciclo, siano essi alti funzionari, σχολαστικοί o γραµµατικοί si erano formati su un curriculum studiorum che aveva ― come è noto ― l’Iliade e l’Odissea come testi base: non sorprende dunque il fatto che la cosiddetta “di-zione omerica” sia anche per essi ― accanto al modello primario costituito da Nonno (ne parleremi in seguito) ― uno strumento espressivo sicuramente sfruttabile perché previsto dalla tradizione. Lo stesso vale per i temi, le imma-gini e gli exempla utilizzati, dove si fa sentire la consuetudine retorica e scola-stica.

Un altro aspetto della questione, a più riprese sottolineato, è il tipo di pubblico cui il testo epigrammatico è rivolto e la risposta che da esso il poeta si attende; in questo senso è facile considerare la presenza di frustuli omerici, so-prattutto in zone ben specifiche dell’esametro, come precisi richiami “uditivi”, per l’audience, alla comune e condivisa conoscenza della versificazione omeri-ca: basti pensare ad esempio ad una clausola come ὀλίγοις τε φίλοις τε in AP

26 Cfr. Skiadas 1965.

27 A cominciare dall’importante Harder 2007 per finire con l’atteso volume curato da

Durbec-Pralon-Trajber 2015 (in corso di stampa: ho potuto leggere alcuni dei saggi contenuti in esso grazie alla gentilezza degli autori).

28 Cfr. Madden 1995, 66-68.

29 Cfr. Guichard 2016 (in corso di stampa).

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9.624 di Leonzio, oppure a παρὰ θῖνα θαλάσσης in AP 5.265 di Cometa. “Pre-ziosismi” omerici, che elevano lo stile ma soprattutto il tono dei componimenti, vengono poi impiegati ad hoc e con maggior frequenza in quegli epigrammi che hanno un soggetto dichiaratamente epico e solenne, in linea con quanto aveva già fatto la poesia ellenistica31: all’interno del Ciclo questa considerazio-ne vale in particolar modo per i carmi ecfrastico-celebrativi, dedicati alla esal-tazione dei Realien contemporanei come le imprese imperiali o qualche figura di spicco della corte giustinianea.

Anche i poeti del Ciclo ai rifanno ad un approccio tradizionale e specifi-co della poesia, non solo epigrammatica, nei riguardi dell’Iliade e dell’Odissea. I due capisaldi dell’identità letteraria greca in epoca imperiale vengono con sempre maggior frequenza considerati come un imprescindibile punto di rife-rimento: Omero è una sorta di libro sacro sapienziale, da leggere e consultare ogni qual volta si cerchino risposte ai dubbi dell’esistenza32 e costituisce, come abbiamo già visto, il fondamento della poesia, non solo tardoantica33. Accanto a questo, e in maniera complementare, il testo omerico è visto come un qualco-sa da capire e interpretare nel suo significato più recondito, secondo il noto principio dell’allegoria34. Da ciò derivano due attitudini diverse e opposte: “scandagliare” Omero significa anche poterlo liberamente “distorcere” in quan-to modello: ecco allora la costante ripresa parodica dell’epica come costante della produzione epigrammatica scoptica di età imperiale, di cui Lucillio e Pal-lada sono due ottimi esempi35; sulla scia di questi ultimi lo stesso fanno i nostri epigrammisti del Ciclo, almeno da quello che possiamo vedere dalla esigua produzione scommatica supersitite, in quello che, evidentemente, diviene un “marchio di fabbrica” del sottogenere.

La decostruzione del testo omerico però va anche in un’altra direzione, vale a dire quella della pratica centonaria, «un modo per unire la sacralità di Omero e quella delle Scritture»36. Questo è, in un certo senso, ciò che avviene, in epoca tardoromana, anche in seno all’epigramma, in prima battuta con Gre-gorio di Nazianzo: si veda ad esempio AP 8.13 dove passi scritturali e omerici si fondono in un nuovo significato37. Nel trattamento del testo omerico ― e non solo ― l’opera del Nazianzeno influenzerà gli epigrammisti dell’età giu-stinianea, che in maniera analoga creano significati del tutto originali dall’unione “centonaria” dell’epica e dei Vangeli: si consideri come esempio il primo verso di AP 9.659 di Teeteto. Questa che potremmo definire una vera e

31 Cfr. ancora Harder 2007.

32 Sul ruolo del “Libro di Omero” cfr. Agosti 2010a, 13-14 con relativa bibliografia.

33 Anche Agazia nel suo secondo proemio cita Omero, accanto a Platone, come esempio di

opera che procura vera gloria: cfr. ancora su questo Agosti 2010a, 17.

34 Basti menzionare le Homericae Quaestiones di Eraclito. 35 Cfr. Floridi 2014, 35-37; Guichard 2015.

36 Agosti 2010a, 22.

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propria prassi culturale è quanto di più tipico si possa rilevare a proposito della presenza di Omero nell’epigramma tardoantico, letterario e non solo38: non si tratta solo dell’utilizzo del cosiddetto “codice epico” ma di un modo affatto nuovo di appropriarsi del modello, che sovente porta anche a riaffermare la «supériorité du Christianisme»39 ancora una volta si riconferma, nella defini-zione del genere, l’importanza affatto secondaria che la produdefini-zione epigrafica ha rivestito.

2.2 La poesia ellenistica

Ciò che abbiamo detto su Omero può essere utilmente fatto valere anche per la “triade” ellenistica Callimaco-Teocrito-Apollonio Rodio: la formazione scolastica da un lato e le preferenze in termini di letture da parte degli epi-grammisti tardi dall’altro fanno sì che tutti e tre i rappresentanti della versifica-zione esametrica e in distici di una delle più grandi stagioni della letteratura greca siano un elemento non secondario del bagaglio culturale di Agazia e i suoi sodali. La poesia ellenistica è lo snodo fondamentale per la formazione del gusto estetico tardoantico: nel caso degli epigrammisti del Ciclo l’influenza degli alessandrini non arriva soltanto tramite la mediazione operata dai compo-nimenti delle Corone di Meleagro e Filippo e da Nonno ma, appunto, da una conoscenza diretta dei singoli testi quali le Argonautiche, gli Idilli, gli Inni e gli

Aitia e dall’ammirazione provata per essi.

Se «Agathias’ mind was very soaked in the poetry of Callimachus»40 quella dei suoi colleghi non lo era certo di meno: Callimaco risulta, in generale, uno dei poeti più letti e ammirati dai nostri epigrammisti. Tra i componimenti del Ciclo compaiono richiami al poeta di Cirene condotti sulla scorta del “mo-dello principale”, vale a dire il testo nonniano, senza una precisa volontà di da-re ai distici una vera e propria coloritura callimachea41: è il caso ad esempio dell’impiego di alcuni aggettivi da parte di Teeteto e Mariano (si veda il comm. rispettivamente ad AP 6.27 e AP 9.668). Altre volte invece l’inserzione di un emistichio o di una “tessera” callimachea, come in AP 9.650 e APl 38 di Leon-zio, contribuiscono semplicemente all’allure del testo, e come tali erano rico-nosciute e apprezzate dal pubblico colto42. Del tutto in accordo con la poetica del Cireneo è invece l’uso dell’appellativo Ἀσσυρίοι riferito ai Medi in APl 221 sempre di Teeteto, col suo senso fortemente denigratorio, e οἰνοπότας in Eratosth. AP 6.77, che condivide con Call. ep. 36 Pf. la patina scoptica; del re-sto, proprio in linea con i dettami del sottogenere scommatico43, un intero verso

38 Cfr. Agosti 2015a passim, in particolare 189-191. 39 Cfr. Agosti 2015a, 190.

40 Cfr. Hollis 1972.

41 Questo vale, più in generale, per tutta la produzione poetica tardoantica e bizantina, come

hanno ben evidenziato De Stefani-Magnelli 2011, 562.

42 Così anche per Agazia: cfr. Valerio 2013a, 93-100. 43 Cfr. Floridi 2014, 37.

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degli Aitia risuona in AP 11.369 di Giuliano antecessor: che il prologo contro i Telchini, assai noto nell’antichità, fosse tra i “pezzi” favoriti dai nostri epi-grammisti lo dimostra anche Agath. AP 5.282 = 78 Vians., in cui l’autore «ri-prende di peso tre quarti del pentametro callimacheo» (i.e. Call. Aet. fr. 1.6)44.

Per quanto concerne la presenza di Teocrito tra i nostri epigrammisti non si può non tener conto di come venga in generale considerato, in quest’epoca, il filone della poesia bucolica45: è proprio nella produzione epigrammatica che la «continua filigrana di imagerie pastorale»46 trova una delle sue realizzazioni più compiute, soprattutto nell’unione pressocché costante con la tematica amo-rosa. Per i poeti del Ciclo spesso un elemento teocriteo funge da marcatore di genere, a prescindere dalla tipologia di componimento epigrammatico (vale a dire che questa scelta stilistica si applica a componimenti ecfrastici, erotici, e così via..); anche in questo caso poi agisce la mediazione costituita dalla riela-borazione nonniana di certi temi. Un esempio lampante di ciò è costituito dai testi che hanno per soggetto l’amore infelice di un pastore ― Pan o Dafni ― , nei quali la veste bucolica è assicurata, in prima istanza, dall’uso del dialetto dorico, come in AP 6.78 di Eratostene: se abbiamo potuto escludere la volontà di conferire un tono callimacheo agli epigrammi, nel caso di Teocrito i nostri poeti agiscono in senso diametralmente opposto per seguire specifiche indica-zioni di genere.

La vitalità della poesia pastorale ellenistica presso i nostri poeti è testi-moniata anche dalla lettura, verosimilmente antologica, di Bione di Smirne, esemplificata dal riuso di un suo emistichio da parte di Leonzio in APl 245.

Se risulta legittimo, anche nel caso della “triade ellenistica”, parlare di imitazione consapevole e di conseguente “risposta positiva” da parte del pub-blico, da valutare ― è vero ― caso per caso, altrettanto utile per capire il tipo di riuso effettuato dai nostri epigrammisti è considerare, come già abbiamo fat-to per Omero, il caso di una “risemantizzazione tardoantica” del tesfat-to ellenisti-co, particolarmente evidente nel caso in cui siano in gioco riferimenti ad una specifica realtà contemporanea, ancor meglio se riguardante l’aspetto religioso; un esempio di ciò può essere costituito dall’impiego della citazione di un verso di Apollonio Rodio, autore che, al pari degli altri, costituisce per i nostri epi-grammisti un repertorio lessicale e di immagini da cui attingere direttamente (si veda ad esempio il commento ad AP 6.63.6 di Damocaride). In APl 272.3 Le-onzio imita, fin quasi alla citazione verbatim, il fraseggio di A.R. 2.512, incen-trato sull’educazione del pastore-apicoltore Aristeo, in un epigramma dedicato a Giamblico, annoverabile tra gli iatrosofisti tardoantichi, figure di medici-sapienti particolarmente in voga ad Alessandria: le caratteristiche dei due

44 Cfr. Valerio 2013a, 89, assai importante per la presenza di Callimaco nei versi del

Mirinense.

45 Cfr. Agosti 2008c e 2013a, sulle riflessioni del quale si basa il nostro discorso. 46 Agosti 2008c, 49.

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sonaggi (detentori entrambi di un particolare tipo di poliedrica sapientia) e l’insistenza leonziana su un tratto cristiano quale la castità di Giamblico (lad-dove invece Aristeo prende Autonoe in moglie) fanno sì che il riuso apollonia-no costituisca un bell’esempio di Kontrastimitation (vd. comm. ad l.), partico-larmente interessante per il nostro discorso perché, come abbiamo detto, ri-guarda un elemento peculiare (gli iatrosofisti appunto) della realtà socio-culturale tardoantica.

2.3 Le sillogi e gli epigrammisti precedenti

Come esplicitato da Agazia nella sua proemiale dichiarazione program- matica, alla quale ci siamo ispirati per il titolo del presente lavoro, i “padri dell’arte poetica nuova” hanno come intento principale quello di rivaleggiare coi classici del genere epigrammatico, in prima istanza gli autori della Corona di Meleagro e di Filippo: la competizione si instaura già a livello proemiale, dacché non solo Agazia riprende la ben nota metafora meleagrea dei fiori e del-le api nello στέµµα che va componendo, chiara allusione ai precedenti στέφανοι, ma anche e soprattutto perché le sezioni giambica ed esametrica del suo proemio costituiscono un unico testo in sé coerente e compiuto che aspira a paragonarsi direttamente (anzi a superare) i componimenti proemiali di Melea-gro e Filippo insieme47.

Per far sì che la competizione con gli antichi sia oggettivamente valutabi-le essa deve svolgersi su un tereno comune e ad armi pari: è per questo che, oltre al recupero di soggetti, movenze ― spesso incipitarie ― che dichiarino alla prima occhiata quale sia l’illustre precedente, gli epigrammisti del Ciclo sono stati maestri nella riscrittura cum variatione di un medesimo carme dei loro tanto ammirati antesignani; bastino come esempio le rielaborazioni di uno stesso componimento votivo-catalogico, come quello sugli strumenti del me-stiere dello scrivano o del pescatore. È stato più volte osservato che l’unico tratto di originalità in queste prove poetiche sta nell’uso del linguaggio nonnia-no, a fronte di una pedissequa aderenza al modello che ha fatto parlare di man-canza di ispirazione, scarsa perizia poetica e quant’altro: tenendo ben presente la dichiarazione proemiale di Agazia però risulta immediatamente evidente come la categoria dell’originalità sia inadeguata nella valutazione di tali com-ponimenti, portando, in passato, a giudizi di valore a volte negativi e basati es-senzialmente sul gusto moderno: i rifacimenti degli epigrammi ellenistici sono rappresentativi del modo di intendere la poesia da parte dei nostri poeti tanto quanto le loro innovative composizioni ecfrastiche; il compito che Agazia e i suoi sodali si erano prefissati è stato egregiamente portato a termine, in nome dell’idea di mimesi che sta alla base della cultura tardoantica48.

47 Cfr. Magnelli 2008a, 564. 48 Cfr. il classico Hunger 1969-1970.

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Un discorso a parte meritano gli epigrammi di Posidippo di Pella, per cui si osserva, anche nel caso dei nostri poeti minori, la tendenza già rilevata da Magnelli49: se qualcosa rimane, rimane il Posidippo selezionato da Meleagro per la sua Corona, si veda ad esempio l’evidentissima ripresa, da parte di Sine-sio, di Posidipp. APl 275 = 142 A.-B., un testo che diviene il modello canonico per i Dialogen mit Stauen50. Col P. Mil. Vogl. VIII 309 il Ciclo ha in comune la struttura per libri tematici, non adottata dagli altri antologisti tramandatici nella AP e ripresa da Cefala per la sua silloge: essa non può però essere considerata un’innovazione esclusivamente posidippea vista l’esistenza di altre raccolte così organizzate sin dall’epoca ellenistica51. Dei componimenti del “nuovo” Posidippo non sembra esserci sostanzialmente traccia: l’affinità di Posidipp. 19 A.-B. con Eratosth. AP 6.78 è dovuta all’influsso teocriteo, così come quella tra la clausola di Posidipp. 76.2 A.-B. e la iunctura di Leont. AP 9.650.2 pre-senta altri paralleli, a dispetto della simile posizione nel pentametro. Maggior-mente significativo è invece il paragone tra il fraseggio di Posidipp. 51.4 A.-B. εἴαρι πορφυρέ[ου κλῶν’ ἐς ἀ]γῶνα νέµους con Marian. AP 9.669.5 ὁππόθι πορφυρέης ὑπὲρ αὔλακος εἴαρι θάλλει (ma il contesto è del tutto diverso trat-tandosi, nel caso del poeta di Pella, di un epigramma funerario) che può essere,

dubitanter, posto accanto alla citazione di Agath. AP 5.276.9-10 = 6.9-1052 a

testimone della scarsa presenza del “nuovo” Posidippo presso i nostri minori. La silloge rufiniana53 rappresenta, per i nostri epigrammisti, il riferimento privilegiato per la produzione erotica in distici: nomi, situazioni, topoi del ge-nere mostrano una conoscenza diretta della produzione di Rufino, con precisa volontà di rifarsi, anche per differentiam, al modello. Come è noto la vicinanza a Rufino è stata indagata dal mirabile lavoro di Sir Denys Page54; i rilievi che Page fa nel suo commento agli epigrammi della silloge mostrano, come si è detto, la conoscenza da parte degli “agaziani” di questi testi: l’analisi dei nostri minori ha confermato questo dato, soprattutto per quanto concerne un certo ti-po di lessico quotidiano che i nostri ti-poeti hanno in comune con Rufino55.

La conoscenza degli epigrammi di Lucillio da parte dei nostri minori sembra assicurata almeno da Eratosth. AP 6.77 e dalla tradizione dello σκῶµµα dei “piccoli” fatta propria da Giuliano antecessor AP 11.369 che ricalca Lucill. AP 11.265: per quel poco che possiamo leggere del libro scoptico del Ciclo ve-diamo quanto grande sia il debito che i nostri epigrammisti hanno verso

49 Cfr. Magnelli 2005, 217-227. 50 Cfr. Kassel 1983. 51 Cfr. Argentieri 1998, 4-5.. 52 Cfr. Magnelli 2005, 222-223. 53 Cfr. Page 1978, 3-14.

54 Vicinanza ― come è noto ― non cronologica: cfr. Cameron 1982; Robert 1982; Höschele

2006, 49-61; Floridi 2007, 3-6.

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lio, che dà un’impronta indelebile al genere56; se Agazia e i suoi leggessero Ru-fino e Lucillio nell’Anthologion di Diogeniano o avessero a disposizione i li-belli degli autori non è questa la sede per cercare di stabilirlo57.

Con silloge palladana si intende quella raccolta di epigrammi assemblata verosimilmente tra il 550 ed il 560 d.C.58 in cui figura, come autore più rappre-sentativo, appunto Pallada di Alessandria59. Ѐ chiaro ormai che la silloge palla-dana non sia stata inclusa nel Ciclo da Agazia60: quello che a noi interessa è non tanto riaprire la questione su quali poeti ― il cui nome compare in poco nette sequenze tratte dal Ciclo ― siano stati inclusi nell’una o nell’altra silloge (è il caso, ad esempio, dell’epigramma di Teodoro compreso in AP 7.553-55961), quando stabilire con una certa sicurezza in che misura i poeti del Ciclo conoscessero il lavoro dell’Alessandrino. Il problema non è di importanza marginale nella più ampia definizione del patrimonio letterario comune ai no-stri “poeti per passione” perché si inserisce nel più generale orizzonte del

revival del genere epigrammatico in epoca tardoantica. In primo luogo è

neces-sario oggi contribuire a sfatare del tutto l’idea di una rinascita poetica dopo al-cuni “anni bui”, in cui l’epigramma non sarebbe stato praticato: Averil Came-ron e Gianfranco Agosti ― per citare solamente due dei nomi maggior- mente noti tra gli studiosi della Spätantike ― hanno a più riprese sottolineato come il genere sia stato mantenuto vitale nella sua forma più genuina, vale a dire quella epigrafica. Non c’è stata soluzione di continuità dunque nella duzione epigrammatica tout court e la presenza, nel V secolo, di un autore pro-lifico come Pallada lo testimonia chiaramente. Ma quale influenza ha avuto la sua versificazione sui poeti giustinianei e da quale punto di vista? Ѐ questo che, in seconda battuta, abbiamo cercato di indagare per comprendere quanto gli epigrammisti del Ciclo siano debitrici di una tradizione che è già ellenistica e tardoantica insieme: non stanchi epigoni dei poeti ellenistici quindi ma consa-pevoli prosecutori lungo una strada già tracciata e mantenuta viva nei secoli immediatamente precedenti il sesto. Viene da chiedersi, a questo punto, quali temi o soggetti siano comuni solamente a Pallada e ai poeti giustinianei (dun-que da (dun-questi ultimi ripresi direttamente dall’Alessandrino) e quali invece siano il portato della tradizione precedente: naturalmente gli ultimi sarano la maggior parte. Indagando sui primi risulta sin troppo incerto e vago fondare le nostre

56 Cfr. Floridi 2014, 9-21.

57 Per il rapporto tra la silloge rufiniana e Diogeniano cfr. Cameron 1993, 89-90; per Lucillio

cfr. l’esaustiva disamina di Floridi 2014, 68-80.

58 Stima condotta sulla base dei testi contenuti nelle sequenze riconscibili come facenti parte

della suddetta silloge: cfr. Lauxtermann 1997, il quale restringe la forbice temporale per l’allestimento della raccolta agli anni 551-567 d.C.

59 Che non è dunque il compilatore della silloge. Per la nuova edizione degli epigrammi

dell’alessandrino si attende ancora il lavoro di Guichard.

60 Cfr. Cameron 1993, 263-264; Lauxtermann 1997, 334.

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riflessioni su testi come AP 5.277 di Eratostene e tutta la serie agaziana sul ma-trimonio: non appare determinante la vicinanza di certi toni misogini presenti in Pallada62 perché gli epigrammisti del Ciclo risentono fortemente delle dispo-sizioni legislative giustinianee in materia63. Diverso è il caso dei componimenti parenetici del decimo libro: per Agazia, Paolo e Macedonio si può proporre, come è stato fatto64, un utile accostamento con i testi palladani, accostamento suggerito del resto dalla stessa disposizione cefalana degli epigrammi all’interno del libro. Rimanendo nell’ambito dei testi protrettici, ma spostando-ci nella seconda sezione del nono libro, si veda ad esempio Agath. AP 9.768 = 59 Vians., da confrontare con Pall. AP 10.72 e 8065. Altro soggetto caro sia ai giustinianei sia all’Alessandrino sono le ballerine di pantomimo, cui Pallada dedica un componimento satirico che è in diretto rapporto con un epigramma di Ausonio66: proprio la vicinanza col testo latino dimostra che in questo caso l’interesse comune è spiegabile con una tendenza culturale trasversale all’epoca tardoantica, che presta una particolare attenzione a tematiche che tro-vano un immediato riscontro in seno alla società contemporanea. Fin qui dun-que non siamo andati oltre la rilevazione di dun-quella che potremmo chiamare una generale “ispirazione tardoantica” o una comunanza di motivi di ascendenza classico-ellenistica: meritevole di segnalazione è solamente la produzione pro-trettico-parenetica di Agazia e dei suoi, che subisce l’influenza di quello che per Pallada era un sottogenere privilegiato. Possiamo però rintracciare almeno un caso in cui l’influsso palladano si concretizza nel riutilizzo ― anche dal punto di vista lessicale ― di precise immagini, anche se in contesto differente: si tratta di un paio di epigrammi erotici, AP 5.249 e 5.251, in cui l’autore, Ire-neo referendario, riprende stilemi “nati”, per così dire, dalla penna di Pallada per fini parenetici e scommatici, adattandoli alla situazione contingente: quello che in Pallada è il motteggio dell’alterigia del retore e compatriota Gessio di-viene in Ireneo il biasimo della medesima alterigia che caratterizza la donna amata67.

Da queste osservazioni possiamo concludere che i poeti del circolo aga-ziano conoscessero e leggessero gli epigrammi di Pallada di Alessandria (circo-lanti all’epoca e disposti all’incirca nello stesso torno di tempo nella c.d. “sillo-ge palladana”), e che da questi abbiano preso in varia misura, spunti composi-tivi che non arrivano - se non forse nel caso che abbiamo appena ricordato - all’imitazione consapevole.

62 Cfr. su questo Henderson 2009. 63 Cfr. Viansino 1963, 68-69.

64 Cfr. Cameron 1970c, 96 n. 4; Madden 1995, 48.

65 Ma si vedano comunque le osservazioni di Viansino 1967 ad l., e Cameron 1970c, 96-97 n.

4.

66 Si veda a proposito di questi testi Kay 2001, 254; Garelli 2007, 415-416.

67 Si veda più sotto il commento ai singoli testi. Per l’influenza di Pallada sulla lingua degli

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2.4 Altre presenze letterarie antiche (lirica, tragedia, commedia)

La ricezione della poesia lirica e drammatica da parte dei nostri poeti è avvenuta, come è noto, tramite il medium della scuola, che ha stabilito la sele-zione di testi il cui studio si è protratto fino alla tarda antichità e oltre ed ha influenzato i gusti del pubblico colto. Qualsiasi discorso sull’influenza della poesia lirica, monodica e corale, e drammatica sugli epigrammisti del Ciclo dovrà dunque tener conto dei risultati già raggiunti dagli studiosi nell’indagine sui modelli classici presso gli autori tardoantichi, la quale, a dire il vero, si è concentrata soprattutto su Pindaro e la sua presenza sia negli scrittori di prosa che di poesia68: l’importanza “ideologica” del modello pindarico è stata ormai da tempo riconosciuta e sottolineata per Nonno69 ma nel caso dei nostri epi-grammi non possiamo affermare che il poeta di Cinoscefale abbia costituito un riferimento privilegiato né nel tipo di versificazione né nel concepire l’ispirazione poetica. Ciò che ritroviamo nei nostri epigrammi è invece la cono-scenza antologica di certa produzione letteraria precedente, quella cioè dei pas-si selezionati dalla scuola e divenuti ormai patrimonio comune70: nel caso di Pindaro alcune citazioni dalle sue opere hanno una diffusione tale da divenire quasi proverbiali, usate e abusate da chiunque voglia far sfoggio della propria cultura libresca. Capita quindi di riscontrare in componimenti epigrafici come AP 9.629 di Giovanni Barbucallo l’attacco della prima Olimpica, “etichetta” raffinata e scontata per chi voglia scrivere versi elogiativi di terme e bagni pubblici. Lo stesso epigramma però, assieme ai versi dedicati a Pindaro da Cri-stodoro di Copto e agli altri componimenti dedicati ad autori (non solo lirici) del passato, testimoniano la persistenza di certe “icone culturali”71 anche nel mondo tardoantico: un pantheon di miti letterari da ammirare, cristallizzati nell’immagine che già l’ellenismo aveva dato degli stessi. È il caso di Saffo che nell’epigrammistica viene sempre celebrata come la “decima musa”, cliché a cui non si sottrae Damocaride che per rappresentare la poetessa nei suoi versi attinge a piene mani ai giudizi antichi su di essa. Riconoscere la rilevanza lette-raria di certe figure del passato letterario non significa ― lo abbiamo già detto ― prenderle a modello per la propria versificazione: non mi pare si possano riscontrare in nessun caso toni lirici negli epigrammi dei minori del Ciclo né una manifesto desiderio di emulazione di quel tipo di poesia. Il riflesso di certe letture ― i passi più noti della selezione scolastica ― si concretizza ad esem-pio nella scelta di alcuni preziosismi poetici come la notissima clausola di sa-pore archilocheo in APl 285 di Leonzio, oppure negli aggettivi bacchilidei in AP 6.55 di Giovanni Barbucallo o in APl 245 sempre di Leonzio, oppure

68 Cfr. Agócs-Carey-Rawles 2012. 69 Cfr. Gigli 2016.

70 Cfr. D’Alfonso 2004, 121 n.7.

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ra nell’allusione antifrastica all’ode 31 Voigt di Saffo che fa Eratostene in AP 5.242.

Quando non si tratta di materiale filtrato dall’epica nonniana, la presenza diretta degli autori della tragedia classica nei nostri epigrammi è sempre legata al mito, quasi a voler invocare un’ennesima “voce autorevole” per le vicende via via trattate, o per innalzare di tono lo stile del testo, come accade con la ci-tazione dell’Elena in AP 9.633 di Damocaride o per l’allure eschilea che Teete-to conferisce ai suoi versi per la celebrazione della vitTeete-toria giustinianea contro i Persiani in APl 221. Se si escludono questi casi isolati i restanti richiami alla tragedia classica si concentrano, curiosamente, tutti nella produzione di Arabio σχολαστικός, probabilmente per una sua predilezione personale. Fatta eccezio-ne per Sofocle, sia Eschilo che Euripide (quest’ultimo principalmente72) figu-rano in alcuni degli epigrammi attribuiti ad Arabio: in APl 149 ad esempio compare una ripresa dall’Agamennone; in APl 225 il poeta impiega un aggetti-vo, ἀνωφελής, di uso spiccatamente tragico; per APl 144 invece, trattandosi di un epigramma ecfrastico è sicuramente corretto, con Carrara, affermare che «esso documenti soltanto il perdurare di una tradizione iconografica che al tra-gico (scil. Euripide) risale»73 ma probabilmente, per il testo, non è del tutto da escludere un rapporto diretto coi frammenti dell’Andromeda (vd. commento)74. La comicità trova spazio, all’interno del Ciclo, essenzialmente in ciò che rimane del libro quinto, quello degli epigrammi scoptici75: la iambikè idea dei nostri minori76, nel caso dei componimenti di Giuliano antecessor, sfrutta ora una clausola ipponattea (in AP 11.367) ora il lessico della commedia attica77: per quest’ultima si parla esclusivamente di Aristofane78, il cui vocabolario ri-sulta familiare agli epigrammisti del Ciclo, a cominciare dalla prefazione giambica di Agazia, infarcita (è proprio il caso di dirlo) di elementi comici in-seriti nella nota metafora del poeta-cuoco79. Il linguaggio aristofaneo viene im-piegato per ottenere effetti ironici anche in componimenti che non nascono per il libro quinto, si veda ad esempio AP 5.242 di Eratostene: si tratta di testi a metà tra i sottogeneri epigrammatici noti, di cui un altro esempio è costituito

72 La diffusione del testo euripideo nella tarda antichità è stata indagata da Carrara 2009,

495-584 e e, in tempi recenti, è stata messa in luce la vitalità anche dei drammi “perduti” in prosatori tardoantichi, cfr. D’Alfonso 2006 con le precisazioni metodologiche di Carrara 2009, 499-500 n.2.

73 Cfr. Carrara 2009, 500.

74 Incerto Klimek-Winter 1993, 117-118, decisamente contrario Pagano 2010, 32. Per una

testimonianza papiracea imperiale della tragedia cfr. Carrara 2009, 326-327.

75 Per Agazia cfr. Mattsson 1942, 108 e il materiale addotto da Viansino 1967 nel suo

commento; per Macedonio Madden 1995, 51-78 passim.

76 Cfr. Agosti 2001, in particolare 236-237. 77 Cfr. Galli Calderini 1987a.

78 Per Aristofane quale modello principale per la letteratura “giambica” tardoantica cfr. Agosti

2001, 233.

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dall’anatematico AP 6.77, sempre di Eratostene, in cui il poeta mescola la de-dica ad elementi scommatici rifacendosi esplicitamente alla tradizione prece-dente, segnatamente alla produzione di Lucillio.

2.5 La letteratura cristiana e Gregorio di Nazianzo

Nonostante la presenza, in AP, di epigrammi cristiani esplicitamente at-tribuiti ad Agazia80 e i risultati degli studi specifici dedicati ad alcuni dei poeti della raccolta81, per molto tempo ancora si è continuato82 (e a volte ostinata-mente si continua83) a considerare la veste mitologica degli epigrammi del Ci-clo come segno di un anacronistico “cripto-paganesimo” dei suoi poeti. Avre-mo Avre-modo di constatare come i poeti del Ciclo leggessero la Parafrasi nonniana e come abbiano scelto di impiegarla, a volte, nei loro componimenti: nel com-mento ai singoli testi verranno di volta in volta sottolineati espedienti quali il contrasto luce/Cristo-tenebra/peccato e l’identificazione dell’imperatore come

imago Dei, consueti ad esempio nei carmi epigrafici e nei componimenti

ecfra-stico-encomiastici di Arabio (lo abbiamo accennato sopra) e di Teeteto a pro-posito di Domnino in AP 9.659. Oltre a ciò si considerino gli epigrammi in cui Eratostene, del tutto in linea con la politica imperiale, depreca l’amore omoses-suale ed esalta il “giusto matrimonio”: l’immagine della verginità che emerge da questi componimenti risente, anche a livello lessicale, delle ampie riflessioni elaborate sul tema dalla letteratura omiletica. Non è pensabile che autori cri-stiani come i nostri non conoscessero gli elementi della dottrina, gli stessi che la legislazione imperiale utilizzava nelle formulazioni legislative in materiale di morale, con cui i nostri σχολαστικοί avranno avuto sicuramente a che fare. Certo dall’analisi degli epigrammi oggetto del presente lavoro non è emersa una quantità sorprendente di “materiale cristiano”: del resto le dichiarazioni programmatiche di Agazia nell’illustrare i vari libri di cui si compone il Ciclo chiariscono molto bene che la contemporanea poesia epigrammatica fa proprie le immagini del passato pagano come richiede il sapiente esercizio mimetico cui i poeti si sono dedicati. Negli stessi versi prefatori il corifeo Agazia sente la necessità di giustificare tali scelte stilistiche e di renderne esplicita sin da subito la natura letteraria, fugando ogni dubbio su una adesione al paganesimo sua84 e dei colleghi: ciò accade una prima volta in riferimento al primo libro, quello

80 Non inseriti nel Ciclo ma arrivati a Cefala grazie alla raccolta epigrafica di Gregorio di

Campsa, cfr. McCail 1969, 92-93; Valerio 2014, 18-22.

81 Cfr. Madden 1977.

82 Cfr. Baldwin 1984a; Kaldellis 1999.

83 Da un colloquio che ho avuto personalmente con S. Smith, studioso statunitense del Ciclo, in

occasione del convegno sull’epigramma tenutosi a Londra nel settembre 2013, è emersa la sua valutazione in questo senso di molti degli epigrammi, nonché una considerazione dell’intera raccolta come un’opera di velata polemica nei confronti di Giustiniano e della sua politica: va da sé che le affermazioni del collega, di cui si attende a breve una monografia sull’argomento, a mio parere non sono affatto condivisibili.

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degli epigrammi votivi, cfr. Agath. AP 4.3.115-116 = 2.69-70 Vians. καὶ γὰρ ἐῴκει | γράµµατος ἀρχαίοιο σοφὸν µίµηµα φυλάξαι, ed una seconda volta per il libro dei funerari85, cfr. AP 4.3.122-123 = 2.76-77 Vians. τάπερ Θεὸς ἐν µὲν ἀοιδῇ | ἐκτελέειν νεύσειεν, ἐν ἀτρεκίῃ δὲ διώκοι, dove Dio stesso è chiamato quale garante della letterarietà degli epitimbi.

Abbiamo già avuto modo di accennare ― a proposito della presenza do Omero nei nostri epigrammi ― all’influenza che la poesia di Gregorio di Na-zianzo ha avuto sugli epigrammisti del Ciclo: la “riscrittura cristiana” del pa-trimonio letterario antico non è certo prerogativa esclusiva del Cappadoce ma egli ha di certo costituito un punto di riferimento per Agazia e i suoi colleghi per il grado di letterarietà e l’elevatezza dello stile dei suoi carmi. Gregorio di Nazianzo viene considerato dagli epigrammisti tardi esattamente come gli altri illustri predecessori classici ed ellenistici e, come nel caso della produzione di questi ultimi, anche quella del Nazianzeno è fatta oggetto di ripresa ed imita-zione da parte dei nostri poeti: non solo i componimenti inseriti nell’ottavo li-bro della AP ― come ci si potrebbe aspettare ― ma tutta quanta la copiosa produzione in distici di Gregorio costituisce un altro degli imprescindibili rife-rimenti per gli epigrammisti del Ciclo.

Lo sfruttamento, sia per gli esametri che per i pentametri, di clausole i-dentiche a quelle del Nazianzeno è prassi comune nei componimenti del Ciclo: si veda ad esempio Jo. Barb. AP 6.55.3 ~ Greg. Naz. carm. 2.1.13.24 ἀλλὰ δέχεσθε| oppure Agath. AP 5.216.5 = 73.5 Vians. ὑπερφιάλους ἀθερίζειν ~ Greg. Naz. carm. 2.1.1.366 ὑπερφιάλους ἀθερίζει ~ 2.2.3.117 ὑπερφιάλους ἀθερίζων: interessante è notare come in questi e negli altri casi riscontrabili si operi un processo inverso rispetto a quello cui abbiamo accennato poco sopra trattandosi, in questo caso, di clausole nate per la poesia cristiana e riadattate a contesti fittiziamente pagani (o erotici nel caso del verso di Agazia citato). Al-tre volte invece proprio la ripresa di una iunctura del Nazianzeno ha come sco-po il conferimento di un senso cristiano ai versi degli epigrammi come nel caso di Leont. APl 272.4, dove l’astensione dai guadagni del medico Giamblico è enfatizzata dalla movenza κέρδεσιν οὐδ᾿ ὁσίοις, riscontrabile in Greg. Naz. carm. 2.1.1.395 e 2.2.1.563; lo stesso si può dire del termine µαχλοσύνη in Iren. AP 9.444.4 (uno degli epigrammi del Ciclo sul valore del “giusto matrimonio”), certo non un conio di Gregorio ma impiegato in carm. 1.2.15.86 e1.2.29.78 nell’identica posizione e significato del nostro. Il Cappadoce epigrammista costituisce un modello stilistico e formale tout court per i poeti del Ciclo, o meglio risulta uno dei ponti tra la tradizione ellenistica e le realizzazioni tardoantiche: il catalogo di Arab. AP 9.667.1 ad esempio è sicuramente modellato su Greg. Naz. AP 8.129.1 (in entrambi i casi una

descriptio loci amoeni), mentre la lode del defunto giurista Chiredio di Leont.

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AP 7.573 prende spunto dagli stilemi eulogistici condensati nel “ciclo” per il

iudex Martiniano dell’ottavo libro della AP86.

2.6 Nonno e lo stile moderno

Nonno di Panopoli rappresenta una pietra miliare della letteratura greca, un innovatore così profondo da aver influenzato tutta la poesia a lui successiva e da aver portato gli addetti ai lavori a coniare l’espressione “scuola nonniana” della quale oggi si riconoscono tutti i limiti87: i seguaci di questo nuovo stile ― questa la dicitura che è più corretto adoperare ―, molto spesso γραµµατικοί originari di diverse aree dell’impero (non solo la Tebaide), hanno prodotto poe-sia, in vari generi che, dal punto di vista del lessico, della sintassi e soprattutto della metrica, presenta innovazioni profonde e sostanziali rispetto alla poesia ellenistica; si tratta di personalità artistiche, Nonno in primis, che diventano i “nuovi classici” della letteratura in lingua greca e che hanno condizionato for-temente i componimenti dei nostri epigrammisti e non solo. Quanto abbia in-fluito lo stile moderno sui versificatori delle epoche successive a Nonno è oggi l’oggetto di utili approfondimenti riguardanti le maggiori figure dei secoli VI-VII88. Anche nel caso dei poeti minori89, letterati otiandi causa (nei casi più felici; si è arrivati in passato ad affibbiare etichette “estreme” come quella di “poetastro” per Dioscoro90) tra cui rientrano appieno i nostri epigrammisti, il panopolitano risulta l’auctoritas stilistica principale91, da emulare e superare, orgogliosamente citata, sin dai versi proemiali, dal “corifeo” Agazia: Nonn. D. 25.27 τηλίκος. ἀλλὰ νέοισι καὶ ἀρχεγόνοισιν ἐρίζων ~ Agath. AP 4.3.113 = 2.67 Vians. Πρῶτα δέ σοι λέξαιµι, παλαιγενέεσσιν ἐρίζων92. Ma non è, come abbiamo accennato, solo una questione di citazioni: esse compaiono sì negli epigrammisti del Ciclo ad esibire la dipendenza da Nonno (movenze, in special modo clausolari, ma anche interi esametri), tesserae che, come in un mosaico,

86 Da ultimo rimangono da segnalare alcune coincidenze lessicali degne di nota; si tratta di

composti verbali assenti in Nonno, che ricorrono nella poesia del Nazianzeno e nei nostri poeti: mi riferisco ad ὑποφλέγω in Marian. AP 9.627.2 = Greg. Naz. carm. 2.1.88.96; ἀντιχαρίζοµαι, tipico della prosa ma attestato in poesia solamente in Greg. Naz. AP 8.133.6 ~ Theaetet. AP 9.659.4 (entrambi in clausola di pentametro); ἐκπρορέω ancora in Marian. AP 9.669.4 ~ Greg. Naz. carm. 2.1.34.144 (ma anche [Orph.] Lith. 203).

87 Cfr. Miguélez Cavero 2008, in particolare 93-99. 88 Cfr. Fayant 2003; Lauritzen 2014; Whitby 2014.

89 Di coloro cioè che sono sempre stati giudicati, per ampiezza e qualità della produzione,

secondari nel panorama di una letteratura già di per sé considerata “minore”: cfr. Agosti 2005-2006, 209.

90 Dimensione valutativa anche questa ormai superata grazie soprattutto al lavoro di J.L.

Fournet.

91 Cfr. Miguélez Cavero 1998, 91, con bibliografia precedente. 92 Cfr. Agosti 2005-2006, 212.

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impreziosiscono il quadro d’insieme93, ma è bene parlare di debito nonniano anche nella scelta di certi temi, nel trattamento di determinati soggetti e nell’impiego di particolari immagini.

Se volessimo analizzare gli epigrammi della silloge agaziana applicando loro le ormai abusate categorie di tradizione/innovazione94 potremmo dire, semplificando al massimo, che, rispetto alla produzione in distici precedente il tratto innovativo più vistoso è proprio l’adozione dellla maniera moderna tout

court, come ha ben messo in evidenza Agosti:

«tutta la poesia epica ed epigrammatica della fine del V e dell’inizio del VI secolo mostra una generale tendenza a utilizzare la maniera moderna in modo decontestualizzato, tendenza favorita in parte dal tipo stesso di lingua usata da Nonno (formulare e con molte espressioni metricamente interscambiabili);… la letteratura alta recepisce il nuovo modello metrico-stilistico in toto..»95.

È possibile affermare che tutti gli epigrammi presenti nelle sezioni tratte dal Ciclo di Agazia sono composti seguendo il nuovo stile: senza voler togliere spazio al commento diciamo riassumendo che tutti i testi qui analizzati presen-tano inizi di verso e soprattutto clausole nonniane, che assicurano la riconosci-bilità dell’esametro; in molti epigrammi compaiono aggettivi composti alla maniera di quelli che figurano nelle Dionisiache; altri ancora hanno usi sintat-tici attestati in Nonno. Naturalmente, come abbiamo già avuto modo di sottoli-neare, proprio in virtù dell’adozione in toto di questo stile, Nonno risulta il “ve-icolo” tramite il quale la precedente tradizione letteraria arriva ai nostri epi-grammisti, che dunque la recepiscono con gli adattamenti che il poeta di Pano-poli aveva già operato.

Ciò che in ogni caso risulta il tratto più “nonniano” dei nostri epigrammi-sti è l’adozione dell’imagérie del poema dionisiaco all’interno dei loro diepigrammi-stici: pensiamo ad esempio all’episodio di Atteone da cui prende ispirazione Damo-caride per il suo epigramma sulla defunta pernice di Agazia, o quello della me-tamorfosi di Sileno del diciannovesimo canto che fornisce a Leonzio i principi sulla base dei quali spiegare la genesi della statua di un satiro; non si tratta solo di stile compositivo dunque ma anche di tutta una serie di nuovi topoi che, gra-zie a Nonno, diventano patrimonio comune della cultura tardoantica: uno degli esempi più significativi di questo è la figura di Fetonte, protagonista del tren-tottesimo canto del poema nonniano e gettonatissimo soggetto epigrammatico,

93 Quella con la tecnica musiva è un’analogia già introdotta, per la poesia tardoantica, da G.

Agosti, vd. Agosti 2004-2005: anch’essa, come altre felici descrizioni della tecnica compositiva degli autori tardi, deve molto allo “stile ingioiellato” di Roberts 1989.

94 Cfr. Galli Calderini 1987b. 95 Cfr. Agosti 2005-2006, 213-214.

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epigrafico in particolare. Dietro a questo sta naturalmente la più generale reto-rizzazione della poesia, di tutta la poesia, che si nutre degli esercizi scolastici quali l’etopea: ecco perché, come è stato molte volte rimarcato, il pubblico col-to si aspettava di trovare determinati luoghi comuni letterari e ciò vale anche per gli epigrammi del Ciclo.

Non è affatto scontato mettere in evidenza che il Nonno che i nostri poeti recepiscono non è solo quello delle Dionisiache ma anche quello della

Para-frasi, seppur in misura minore. Un’indagine sistematica sulla conoscenza del

poema cristiano da parte degli autori “nonniani” è stato un desideratum per molto tempo e adesso ci si sta muovendo in questa direzione, benché l’attenzione maggiore sia sempre rivolta al poema pagano per affinità tematica con la maggior parte delle composizioni dei secoli successivi. Nel caso degli epigrammisti del Ciclo porsi una domanda del genere apre scenari quanto mai interessanti: quanto leggevano la Parafrasi questi poeti cristiani che ambivano a scrivere alla maniera dei pagani? E che tipo di influenza ha esercitato Nonno parafraste sulla versificazione di Agazia e dei suoi sodali? Se parliamo di rice-zione dello stile nonniano, esempi analoghi a quelli che abbiamo fatto sopra a proposito delle Dionisiache possono essere condotti anche a partire dal testo della Parafrasi: movenze clausolari o incipitarie e singoli termini usati da Nonno esclusivamente nel poema cristiano compaiono sovente nei nostri epi-grammi. Prendendo in considerazione invece il repertorio di immagini dispie-gate dalla Parafrasi, immagini evangeliche note rielaborate dal poeta di Pano-poli, c’è almeno un’occasione in cui il testo nonniano fa da modello alla realiz-zazione di uno dei nostri epigrammi e, non a caso, si tratta di un componimento ecfrastico-encomiastico, proprio quelli caratteristici degli epigrammisti tardo-antichi quanto a innovazione: mi riferisco ad APl 39, in cui il prefetto Longino, fedele servitore di Giustiniano, viene assimilato alla figura dell’apostolo Pietro sulla base del testo di P. 20 (si veda comm. ad l.).

Lo stile moderno, come abbiamo sottolineato, non consta solo dei poemi nonniani ma anche degli altri testi che hanno contribuito alla definizione delle nuove tendenze poetiche: i nostri epigrammisti si pongono dunque sulla linea che dalla Tebaide di Colluto, Pamprepio e Trifiodoro porta alla Costantinopoli dei poemi ecfrastici di Paolo Silenziario, passando per la Gaza di Giovanni. Dal nostro commento, dove Nonno indubbiamente la fa da padrone, si è cerca-to di far emergere la stretta connessione tra questi prodotti poetici, diversi per genere ma affini nella tecnica compositiva e la loro influenza sulla versifica-zione dei “minori”. Il poemetto di Museo, ad esempio, assurge a testo di rife-rimento per quanto riguarda le tematiche erotiche, presentando un repertorio retorico di soggetti, chiaramente sfruttati Agazia e i suoi sodali che in certi casi si rifanno da vicino all’Ero e Leandro; analogo repertorio, stavolta inerente l’encomio del sovrano o di alti funzionari, accomuna gli epigrammi e

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