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La Liberata e il dramma della conoscenza

III. 3 2 L’errore di Goffredo

III. 4 La Liberata e il dramma della conoscenza

Come poema epico cristiano, nella Liberata l’azione divina non può essere aspetto accessorio, bensì è presupposto necessario non solo per il compimento dell’impresa bellica, ma per l’acquisizione di un’ultima virtù inaccessibile alle sole forze umane. Il fatto che Goffredo, come del resto Rinaldo, possa giungere a una piena maturazione e dunque a una profonda cognizione solo dopo l’intervento divino, se da una parte testimonia la coerenza con la struttura religiosa del poema, dall’altra mette in luce la drammatica debolezza e insufficienza della conoscenza umana. Senza un aiuto extra umano non può darsi cognizione certa della realtà. Come ricorda Zatti nelle ultime battute del suo imprescindibile saggio, «la verità delle cose è penetrata solo dall’occhio divino e questa prerogativa non compete all’uomo».112 Tutti gli attori della Gerusalemme, compreso Goffredo, agiscono

per approssimativi tentativi di interpretare un mondo esterno che sfugge a una coerente comprensione. Il problema non riguarda solo l’«imperfezione dell’umana natura» (Allegoria 26) un’imperfezione, che come si è visto, è più intellettiva che volitiva – i personaggi tassiani, infatti, non vivono il dissidio tra sapere e volere, anzi il conoscere muove sempre la volontà ad attuare quanto decretato dalla ragione – ma concerne la realtà stessa, che, più complessa e articolata, sembra negarsi alla pretesa conoscitiva dell’intelletto umano. Nonostante tale aspetto sia stato affrontato abbondantemente dalla critica, si rende necessario richiamarlo in questa sede, soprattutto per la connotazione morale che l’istanza conoscitiva viene ad assumere nel poema tassiano.

La Liberata nasce nel cuore di un secolo che vede disgregarsi «la concezione classica della certezza, quale attributo di una conoscenza inconfutabile» fondata sulla stabilità e immutabilità dell’oggetto indagato. Una

Daniela Marredda, Il problema del male nella «Gerusalemme Liberata» di Torquato Tasso, Tesi di Dottorato in Scienze dei Sistemi Culturali, Università degli Studi di Sassari.

distinzione netta inizia a intercorrere tra la ratio essendi e la ratio cognoscendi della realtà, tra la natura ontologica dell’oggetto e il movimento gnoseologico del soggetto,113 cui segue una sfiducia sulla stessa «oggettività degli aspetti del

reale».114 Nell’ambito di questo «processo di mutazione epistemologica»115 che

riguarda soprattutto la seconda metà del Cinquecento, «il rapporto fra il reale esterno e l’interiorità dell’Io comincia ad apparire problematico»,116 l’ipotesi di

una corrispondenza tra apparenza e verità vacilla lasciando spazio al dubbio e all’angoscia,117 aspetti chiave dell’età del Manierismo.118 Il poema tassiano non

può, anche in questo caso, non assorbire tensioni e contraddizioni proprie di questo periodo. Bene Gorni lo esplicita nel contributo già citato: agli occhi dei personaggi tassiani, la cui natura è debilitata dall’eredità del peccato originale, si presenta una realtà mutevole, impossibile da decifrare e penetrare. Nell’atto stesso del percepire, i sensi sono soggetti a un continuo inganno dovuto a una conoscenza che può darsi, a intermittenza, solo per il fenomenico e mai per il reale.119 Ne sono testimonianza i continui fraintendimenti di cui sono vittime i

113 A.ANGELINI, Dalla verità assoluta ai gradi della certezza, in Il Cinquecento: l’età del Rinascimento, a

cura di U. Eco, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 2012, I-III: III, 38 ss. Non a caso Mario Rosa parla dell’elaborazione tra Cinquecento e Seicento della categoria del ‘probabile’ (La Chiesa e gli stati

regionali nell’età dell’assolutismo, in Letteratura italiana: Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982,

267-389) da cui prende spunto la riflessione di F.ERSPAMER, Il «pensiero debole»…, 121.

114 G. SCIANATICO, Il dubbio della ragione. Forme dell’irrazionalità nella letteratura del Cinquecento, Venezia, Marsilio, 1989, 103.

115 G.SCIANATICO, L’arme pietose…, 31.

116 G.SCIANATICO, Il dubbio della ragione…, 140.

117 Cfr. A. HUSER, Il Manierismo. La crisi del Rinascimento e l’origine dell’arte moderna, Torino,

Einaudi, 1965, 201.

118 Si segnalano a riguardo, senza una pretesa esaustiva, almeno R. SCRIVANO, Cultura e

letteratura nel Cinquecento, Roma, Ed. dell’Ateneo, 1966; F.ULIVI, Il Manierismo del Tasso e altri studi,

Firenze, Olschki, 1966; C. OSSOLA, Autunno del Rinascimento. Idea del tempio dell'arte nell’ultimo

Cinquecento, Firenze, Olschki, 1971; A.GAREFFI, Le voci dipinte. Figura e parola nel Manierismo italiano,

Roma, Bulzoni, 1981; E. RAIMONDI, Per la nozione di Manierismo letterario, in Rinascimento inquieto, Torino, Einaudi, 1994, 219-51.

Daniela Marredda, Il problema del male nella «Gerusalemme Liberata» di Torquato Tasso, Tesi di Dottorato in Scienze dei Sistemi Culturali, Università degli Studi di Sassari.

protagonisti del poema e che mettono a repentaglio continuamente la sacra impresa, basti pensare, a titolo di esempio, al noto inseguimento di Tancredi che si allontana dal campo sulle tracce di Erminia erroneamente creduta Clorinda, per finire, in seguito, nel castello di Armida dopo aver stimato come vero il «parlar finto» (VII 28 4) del falso messaggero. Ed è proprio Tancredi la

figura che forse più di tutte incarna il fallimento dell’istanza conoscitiva, egli è l’eroe che patisce la lacerazione drammatica che viene a stabilirsi tra il vedere e il conoscere. Lo si può comprendere osservando la parabola amorosa che lo lega a Clorinda, dai primi incontri fino al tragico epilogo. La vista, come nota Gareffi,120 è nel poema simbolo della conoscenza, medium imprescindibile tra

l’esteriorità del mondo e l’interiorità percettiva dell’Io, ed è anche condizione quasi necessaria per la nascita della passione amorosa. Questo spiega perché la «follia d’amore» di Tancredi si origina e si alimenta proprio dalla continua percezione visiva che lui ha della donna. Le prime apparizioni di Clorinda sono contraddistinte, non a caso, da una sua manifestazione libera da qualsiasi barriera che ne possa impedire il riconoscimento:

Quivi a lui d’improviso una donzella tutta, fuor che la fronte, armata apparse: […]

Egli mirolla, ed ammirò la bella

sembianza, e d’essa si compiacque, e n’arse. (Gl I 47 1-2; 5-6)

Tale scena si reitera nel canto III, questa volta non nella calma tranquillità del fonte, ma dentro il frastuono della prima battaglia campale tra cristiani e musulmani, che fa sì che il volto di Clorinda si manifesti a Tancredi solo dopo che l’urto della sua lancia ne fa balzare l’elmo – «ferírsi a le visiere, e i tronchi in alto | volaro e parte nuda ella ne resta» (III 21 3-4) –: la donna appare così,

petrarchescamente, in tutta la sua bellezza. L’eccezionalità dell’evento è

Daniela Marredda, Il problema del male nella «Gerusalemme Liberata» di Torquato Tasso, Tesi di Dottorato in Scienze dei Sistemi Culturali, Università degli Studi di Sassari.

sottolineata dal narratore stesso, che interviene direttamente nel testo sollecitando Tancredi a riconoscere la donna amata:

Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi? non riconosci tu l’altero viso?

Quest’è pur quel bel volto onde tutt’ardi;

e infatti il paladino subito si ridesta e «or lei veggendo impètra» (III 23 2). La

proporzionalità diretta che lega la vista all’increscere della passione amorosa è testimoniata dai pensieri stessi di Tancredi:

Fra sé dicea: “Van le percosse vote talor, che la sua destra armata stende;

ma colpo mai del bello ignudo volto non cade in fallo, e sempre il cor m’è colto.”

(Gl III 24 5-8)

Allo stesso tempo anche il sentimento può d’altra parte potenziare la capacità visiva, è il caso, come ricorda Baffetti,121 del momento, già descritto

nelle pagine precedenti, in cui Tancredi, prima di combattere contro Argante, riconosce Clorinda sopra il colle, azzerando l’effettiva distanza che ne avrebbe reso difficile l’identificazione a qualsiasi altra persona.122 Questo indugiare di

Tasso, nella prima parte del poema, sull’effettiva capacità visiva di Tancredi, che ne determina un irretimento amoroso paralizzante, acuisce per contrasto il successivo naufragio gnoseologico di cui è vittima l’eroe. Tale fallimento viene reso paradossalmente con il continuo utilizzo intensivo dei verba videndi che, però, vengono ora svuotati della loro effettiva capacità gnoseologica. All’altezza del canto XII, Clorinda dopo aver dato fuoco, con il contributo di

121 G. Baffetti, Fra distanza e passione. Una poetica dell’occhio ‘patetico’, «Lettere italiane», 1 (2001), 49-62.

122 Questa è una delle tante critiche che Galileo muove nei confronti del poema tassiano: «E forse che (Tancredi) non aveva scelto un bel luogo di vagheggiare la dama! Non poteva esser lontano da lei manco di mezzo miglio; essendo che, come dice l’Autore, ei non era ancor fatto vicino a quel largo piano dove stava attendendolo Argante; oltre il qual piano erasi poi, sopra una collina, fermata Clorinda, armata ma ben con la visiera alta» (G.GALILEI, Scritti letterari, a cura di A. Chiari, Firenze, Le Monnier, 1970, 573).

Daniela Marredda, Il problema del male nella «Gerusalemme Liberata» di Torquato Tasso, Tesi di Dottorato in Scienze dei Sistemi Culturali, Università degli Studi di Sassari.

Argante, alle torri cristiane, non riesce a rientrare nella città e cerca di confondersi tra le truppe avversarie, favorita e nascosta dalla confusione e dalla notte. La sua presenza, come ci si aspetterebbe non sfugge all’attenzione del cavaliere:

Solo Tancredi avien che lei conosca; egli quivi è sorgiunto alquanto pria; vi giunse allor ch’essa Arimon uccise:

vide e segnolla, e dietro a lei si mise.

L’avverbio, posto in abbrivio del verso, elegge Tancredi come unico testimone conscio dell’episodio, e i verbi che denotano conoscenza, collocati per altro seguendo la logica dell’hysteron proteron, ci informano che il guerriero

riconosce, vede, tiene d’occhio (segnolla), e di conseguenza segue. La fine dell’ottava

crea una sospensione, un breve spazio di attesa prima che il narratore sveli la natura dell’equivoco: «vuol ne l’armi provarla: un uom la stima | degno a cui sua virtù si paragone» (XII 51 5-8; 52 1-2). L’errore di giudizio, ancora una volta

espresso dal ricorrente verbo stimare, è ora reso manifesto. Tale fraintendimento mette chiaramente in luce il paradosso dell’utilizzo del verbo

conoscere – «avien che lei conosca» – del verso sopra riportato, e testimonia

soprattutto la rottura del legame logico esistente tra il vedere e il conoscere. Tancredi sfiora solo la superficie fenomenica di quanto accade. Riconosce nell’armatura, diversa da quella solita, di Clorinda, un avversario, ma non penetra nell’essenza vera della sua identità. I versi successivi non fanno altro che testimoniare questa impossibilità della percezione di raggiungere la verità. I due si guardano spesso, «l’un l’altro guarda», ma non si raggiungono, Tancredi scorge particolari, pezzi di realtà «vede (…) in maggior copia il sangue | del suo nemico, e sé non tanto offeso» (XII 58 1, 5-6), e alla richiesta di

conoscere il suo avversario, «che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra, | acciò ch’io sappia» (60 6-7), riceve lo stesso una risposta parziale, una risposta che dichiara ma non rivela: «tu inanzi vedi | un di quei due che la gran torre

Daniela Marredda, Il problema del male nella «Gerusalemme Liberata» di Torquato Tasso, Tesi di Dottorato in Scienze dei Sistemi Culturali, Università degli Studi di Sassari.

accese» (61 3-4). Le parole che dovrebbero dire non dicono, esattamente come

la realtà si manifesta solo nel suo rendersi inaccessibile. Il momento, fin troppo noto, in cui il vedere si allinea finalmente al conoscere è quello della morte della guerriera pagana:

Tremar sentì la man, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio.

La vide, la conobbe, e restò senza

e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

(Gl XII 67 5-8)

La verità si concede, dunque, in un’ultima definitiva negazione. Il possesso, sia amoroso sia conoscitivo, non può darsi se non nella forma di una perdita, Tancredi possiede Clorinda, la conosce, solo nell’attimo in cui la uccide.123

Questa incapacità di conoscere profondamente il reale genera anche la difficoltà di una sua chiara comunicazione; i personaggi tassiani, com’è stato ampiamente messo in luce,124 mentono in continuazione, e non solo quelli

pagani come Armida ed Erminia, ma anche quelli cristiani come Sofronia, operazione che rischia di introdurre nel testo una legittimazione etica del machiavelliano fine che giustifica i mezzi.

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