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Uno dei significati più immediati dell’espressione postcolonial rimanda a “a period coming after the end of colonialism”150. Con “colonizzare” si allude a un sistema di popolamento e/o sfruttamento di un territorio che si trova oltre i confini nazionali e che finisce per trasformarsi in una rete di insediamenti chiamati “colonie”:

Colonialism is the process of settlement by Europeans in Asia, Africa, South America, Canadian and Australian spaces. Colonization was a violent appropriation and sustained exploitation of native races and spaces by Europeans cultures.151

Il termine “colonia”, soprattutto nell’Ottocento, indicava un territorio di un paese extraeuropeo assoggettato alla sovranità di uno stato occidentale, il quale, con l’idea di diffondere la propria civiltà (ritenuta superiore), finiva per sopprimere le forme di organizzazione civili e politiche indigene. L’Occidente favoriva, in questo modo, la diffusione della propria lingua, del proprio sistema legislativo e amministrativo e agevolava l’insediamento dei propri cittadini, a cui venivano attribuite cariche di comando e controllo. L’Europa occidentale trasse ricchezze notevoli dalle terre conquistate e ne sconvolse e riordinò l’assetto economico, che legò al proprio in un rapporto di dipendenza e subalternità. Creò, inoltre, un flusso continuo di risorse umane tra i paesi subordinati e quelli dominatori. La maggior parte dei profitti tornava, però, sempre alla madre patria, creando un forte squilibrio fra le due realtà. Attraverso le imprese coloniali, la cultura europea stessa si è diffusa in nuovi territori con effetti a breve e lungo termine sulla produzione letteraria.

Numerosi sono stati i tentativi di trovare una denominazione che riuscisse ad inquadrare e cogliere, nel miglior modo possibile, l’insieme degli scritti degli autori provenienti o residenti nelle colonie. Con il 1960, anno simbolico per l’indipendenza di vari stati colonizzati, si è

150 Peter Childs e R.J. Patrick Williams, An Introduction to Post-Colonial Theory, Pearson Education, Harlowe

1997, p. 1.

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diffuso il termine “Commonwealth Literature”, che, però, alimentò un certo scetticismo a causa dei suoi “geographical and political limitations. It rested purely on the fact of a shared history and the resulting political grouping”152. Altrettanto limitante, se non paternalistico, è risultato “Third World Literatures”, cui è seguita l’espressione “New Literatures in English”, la quale, dopo poco, ha lasciato spazio a “post-colonial literature”, che “points the way towards a possible study of the effects of colonialism in and between writing in English and writing in indigenous languages in such contexts”153.

La letteratura postcoloniale e, in particolare, quella in lingua inglese, ha tentato di decostruire l’idea di “superiorità bianca”, partendo dalla convinzione che la storia coloniale abbia profondamente leso le popolazioni assoggettate, privandole spesso dei loro diritti e costringendo i nativi a svolgere i lavori più umili. Dopo vari decenni in cui temi storici, politici ed etnici hanno acquisito priorità, la letteratura postcoloniale è ormai entrata nel vasto e ibrido territorio della “letteratura contemporanea”. Storicamente, però, il nucleo portante del Postcolonialismo si colloca nella seconda metà del Novecento e, più precisamente, agli inizi degli anni Sessanta, quando si costituirono i territori nazionali che riuscirono a raggiungere l’indipendenza.

Sarebbe comunque troppo semplicistico ed approssimativo pensare di poter dividere la storia in due periodi netti, uno “coloniale” e l’altro “postcoloniale”, dal momento che, in molti casi, il processo di colonizzazione e, soprattutto, i suoi effetti continuano ancora oggi (o, viceversa, fermenti anticoloniali erano già presenti all’interno delle colonie stesse). L’autrice indigena canadese Marie Battiste, ad esempio, ha recentemente sottolineato come:

Indigenous thinkers use the term ‘postcolonial’ to describe a symbolic strategy for shaping a desirable future, not an existing reality. The term is an aspirational practice, goal, or idea that the delegates used to imagine a new form of society that they desired to create.154

Secondo la Battiste non è inoltre possibile pensare che il binomio colonizzatore-colonizzato sia già obsoleto, dal momento che, in alcune società, il contrasto tra i due poli è ancora attuale. Il Postcolonialismo è dunque un complesso di fenomenologie che sono andate risolvendosi o trasformandosi in alcune realtà, mentre in altri contesti attendono ulteriori e sostanziali sviluppi. In relazione all’Australia, Nadja Zierott afferma in un suo saggio:

152 Bill Ashcroft, Gareth Griffiths e Helen Tiffin, The Empire Writes Back, Routledge, London 1989, p. 23. 153 Ibidem.

154 Marie Battiste, Reclaiming Indigenous Voice and Vision, University of British Columbia Press, Vancouver 2000,

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We can see from this that the term ‘postcolonial’ is not unproblematic. Nevertheless, this term will be used for Australian Indigenous literature because up until now a more appropriate term has not been coined.155

In questo studio si cercherà di mostrare le affinità e i tratti tematici comuni che la life-writing delle donne aborigene australiane ha con tipologie di autori più riconoscibilmente postcoloniali. Sulla scia delle lotte condotte dai movimenti degli anni Settanta che si batterono per i diritti dei nativi, intorno al 1990 venne finalmente rivolta l’attenzione verso le culture aborigene. Gli studi che si sono confrontati con questo ambito

note how Aboriginal writings emphasize the interconnectedness of all life, the domination of white settlers, the exploitation of their lands and the suppression of their way of life.156

Esisteva poi una forte componente di imperialismo culturale che fece sì che l’uomo bianco diventasse, agli occhi di molti colonizzati, il prototipo e l’incarnazione di un modello da emulare. I nativi, durante la fase coloniale, iniziarono a pensare che gli unici valori che contassero veramente fossero solo quelli dei bianchi, arrivando, con effetti autodistruttivi e lesivi per la psiche, a staccarsi sempre di più dalla loro blackness o dalle loro peculiarità etniche. Il noto psicanalista, intellettuale e militante antillano, Frantz Fanon, nel suo saggio rivoluzionario Black Skin, White Masks scrisse di riflesso che “in the man of color there is a constant effort to run away from his own individuality, to annihilate his own presence”157. Anche se non si trattava di africani, i natives degli antipodi arrivarono comunque a fare propri valori occidentali legati alla religione, al pensiero e all’espressività, facendo passare in secondo piano la loro cultura e le loro tradizioni, ma

at the same time his own traditions and customs continue to exert a powerful pull on the black man. The result is a schizophrenic condition, torn between the white man’s culture that he seeks to appropriate and his own culture that he is reluctant to let go.158

Una svolta si è registrata con la fase postcoloniale dell’autoconsapevolezza, legata a un percorso di riconquista della propria identità. Proprio attraverso questo processo di riscoperta, gli

155 Nadja Zierott, Aboriginal Women’s Narratives: Reclaiming Identities, cit., p. 14. 156 Pramod K. Nayar, Postcolonialism: A Guide for the Perplexed, cit., p. 22. 157 Frantz Fanon, Black Skin, White Masks, Grove Press, New York 1967, p. 60.

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“ex”colonizzati diedero vita a nuove forme di espressività letteraria e, in generale, i loro scritti hanno cercato di rivelare “the unwritten side of history”159.

La scelta del linguaggio occupa ovviamente una posizione centrale all’interno del panorama degli scritti postcoloniali:

The crucial function of language as a medium of power demands that post-colonial writing defines itself by seizing the language of the centre and re-placing it in a discourse fully adapted to the colonized place.160

Una caratteristica comune a questi testi è quella di essere redatti in una lingua inglese “riappropriata”, scelta che ha un forte peso politico in quanto attraverso di essa si apre agli autori, ad esempio, la possibilità di rivolgersi ad un pubblico più vasto. Se l’uso dell’inglese potrebbe essere visto come ennesima conferma di un segno di sottomissione e di subordinazione nei confronti della cultura dei colonizzatori, d’altro canto occorre tener presente che si tratta di un codice stilistico spesso rimodellato e ibridato, a suggerire una coscienza critica e dialettica. Ciò non significa che l’inglese sia l’unico codice di riferimento.

Agli inizi del colonialismo in Australia, infatti, venivano parlate più di duecento lingue aborigene e, complessivamente, erano presenti circa settecento varietà glottologiche, dal momento che la maggior parte delle lingue si diramava in diversi dialetti. Ogni dialetto aveva un legame particolare e profondo con il suo contesto. Duecento anni dopo la colonizzazione, è scomparsa oltre la metà delle duecento lingue parlate. David Malouf, noto scrittore australiano contemporaneo, ha affrontato questo tema in una short story, “The Only Speaker of His Tongue”, nella quale ha immaginato un uomo aborigeno come ultimo rappresentante di una lingua orale con la cui scomparsa coinciderà la dissoluzione di un mondo intero:

The words, the great system of sound and silence (for all languages even the simplest, are a great and complex system) are locked up now in his heavy skull […] It is still alive in the man’s silence, a whole alternative universe, since the world as we know it is in the last resort the words through which we imagine and name it.161

Questo “alternative universe” evocato (e compianto) da Malouf può tuttavia ancora rintracciarsi all’interno della life-writing delle donne indigene australiane, soprattutto perché la loro rivisitazione dell’inglese tende in qualche modo a compensare il vuoto lasciato dalle lingue

159 Nadja Zierott, Aboriginal Women’s Narratives: Reclaiming Identities, cit., p. 13. 160 Bill Ashcroft, Gareth Griffiths e Helen Tiffin, The Empire Writes Back, cit., p. 37.

161 David Malouf, “The Only Speaker of His Tongue”, in Contemporary Australian Short Stories, Reclam, Stoccard

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tradizionali dei natives. Se da una parte queste autrici cercano di “reconstitute experience through an act of writing which uses the tools of one culture or society”, dall’altra si ripropongono di “remain faithful to the experience of another”162. Esse hanno mantenuto una fisionomia culturale distintiva utilizzando, spesso, parole originarie fortemente radicate all’interno della loro storia, cosicché “the use of untranslated words as interface signs seems a successful way to foreground cultural distinctions”163. L’importanza e la forza intrinseca del

linguaggio autoctono è stata del resto evidenziata anche da Frantz Fanon, che ha ribadito come “a man who has a language consequently possesses the world expressed and implied by that language”164.

La subordinazione forzata della lingua d’origine ha dunque segnato profondamente ed intimamente la vita degli aborigeni, sottoposti a un forte rischio di alienazione, dal momento che il linguaggio è una parte imprescindibile ed indispensabile nella formazione dell’identità. Esiste però un filo di speranza, come sostiene Zierott in riferimento alla scrittura femminile aborigena:

if some connection to one’s traditional language still exists, there is always the possibility to reestablish the bounds with one’s culture. It is far more difficult to do this when people’s ideologies are cut off from their traditional origins.165

Un altro aspetto che accomuna la scrittura aborigena al panorama degli scritti postcoloniali è l’esperienza della dislocation e del displacement, in questo caso acuita e accelerata dal trasferimento coatto, dallo sfruttamento e dallo sradicamento dal loro own place. Quasi superfluo è ribadire come il place sia “closely connected to one’s ‘self’, and this close relationship influences the way Indigenous people identify with their environment and relations”166. Il displacement porta, dunque, con sé un carico di alienazione che induce ad estraniarsi dal proprio essere ed esistere nel mondo.

In Australia, gli indigeni hanno dovuto misurarsi con questo senso di alienazione e di displacement a causa delle numerose politiche governative che li hanno costretti a vivere in riserve o nelle mission stations. Le donne furono obbligate a svolgere servizi domestici presso le case dei bianchi, mentre i bambini furono cresciuti all’interno di white homes o in orfanotrofi. La terra, il sense of place, è sempre stato un tema centrale in seno alle culture indigene australiane,

162 Bill Ashcroft, Gareth Griffiths e Helen Tiffin, The Empire Writes Back, cit., p. 59. 163 Ivi, p. 65.

164 Frantz Fanon, Black Skin, White Masks, cit., p. 18.

165 Nadja Zierott, Aboriginal Women’s Narratives: Reclaiming Identities, cit., p. 24. 166 Ivi, p. 15.

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all’interno delle quali, con l’espressione il “Tempo del Sogno”, ci si riferiva a un insieme di miti e credenze riguardanti il momento della Creazione da parte di esseri ancestrali che avrebbero dato vita a tutti gli elementi che compongono anche l’ambiente fisico, come montagne, fiumi ed alberi. Una volta terminata l’opera della Creazione, gli esseri ancestrali si sarebbero ritirati nei luoghi da cui erano venuti, in genere sotterranei, o avrebbero deciso di riposarsi nell’ambiente che avevano appena finito di creare, diventando parte integrante di esso. L’ambiente naturale diventò così, per i nativi australiani, anche un paesaggio sacro, avvolto in un’atmosfera panteistica.

Agli occhi degli europei questo stesso ambiente apparve, invece, monotono e minaccioso e per i conquistatori fu difficile riconoscerlo come alveo di una presunta presenza sacra. Bill Aschcroft167, insieme ai co-autori del volume, Intimate Horizons: The Post-Colonial Sacred in Australian Literature, osserva che questa difficoltà è connessa al fatto che “‘Presence’ suggests the apprehension of the world outside ‘structures of meanings’ that are fundamental to Western ways of thinking”168. Il concetto di “Presence” sarebbe di difficile comprensione per chi non si identifica in maniera pre-razionale e totalizzante con la specificità di un luogo naturale:

But ultimately words, intellect, religion, give way to the simple corporeality of material being—God is in this table. But the crucial fact for the perception of an Australian sacred, perhaps, is that it is this table, not any table, not the Platonic idea of table, but the present ‘thisness’ of material being.169

I natives ritengono che al Tempo del Sogno, i primi esseri, gli Antenati Totemici o Creature Sognanti, abbiano attraversato l’immenso continente registrando ogni esperienza come unica, imprimendone il ricordo nella terra e dando così origine al mondo conosciuto. Ogni albero, roccia, asperità del suolo ha per gli aborigeni un significato preciso ed inequivocabile. Il mondo naturale e i cicli della vita sarebbero la materializzazione di qualsiasi verità. Al contrario, i primi colonizzatori bianchi, anche coloro che avevano una sensibilità artistica, erano spinti a domandarsi

167 Bill Aschcroft è Australian Professor Fellow alla School of English, Media and Performing Arts. È un

importante esponente della teoria postcoloniale e co-autore del primo testo che affronta in modo dettagliato ed approfondito gli studi inerenti all’ambito di matrice coloniale, The Empire Writes Back (1989). È autore e co-autore di sedici rilevanti testi critici, tra cui Post-Colonial Transformation (2001), Post-Colonial Futures (2001), Caliban’s

Voice (2008) ed infine Intimate Horizons (2009), di oltre 150 contributi ed articoli. Collabora, infine, con più di

dieci riviste internazionali.

168 Bill Aschcroft, Frances Devlin-Glass and Lyn McCredden, Intimate Horizons: The Post-Colonial Sacred in

Australian Literature, ATF Press, Adelaide 2009, p. 11.

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how this land of desert, violent settlement, hard labour and lack or refusal of European sophistication and tradition, might be a place in which to elicit and nurture new meanings, new poetries.170

Questo territorio sarebbe divenuto per loro prevalentemente un luogo di conquista e di trasformazione: adattarlo alle loro esigenze e “rimuovere” i nativi faceva parte di questo progetto politico. Per gli aborigeni, essere cacciati dalla loro terra significò molto di più che perdere il luogo in cui vivevano, poiché essi “have experienced the destruction of their identity after their removal”171.

In generale, il Novecento è stato il secolo della “decolonisation for millions of people who were once subject to the authority of the British crown”172. Sin dalla fine del diciannovesimo secolo, comunque, l’Australia aveva iniziato a chiedere una forma di self-government, concesso e poi ottenuto attraverso la creazione di dominions173, cioè territori dell’impero britannico dotati di una semi-autonomia politica. L’indipendenza vera e propria e il costituirsi di una Federazione furono traguardi raggiunti nel 1900. Se, da una parte, i nuovi dominions si governavano autonomamente, dall’altra erano chiamati a confermare un’alleanza con la “Mother Country”, fino a che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, si costituì il Commonwealth.

Molto complesso sarebbe stato, però, il processo di decolonizzazione. Estrapolando un’osservazione di Edward Said in Culture and Imperialism (1993), si deve tener conto di come il recupero del “geographical territory”, non possa prescindere da quello del “cultural territory”:

The slow and often bitterly disputed recovery of geographical territory which is at the heart of decolonisation is preceded – as empire had been – by the charting of cultural territory.174

Mentre una prima fase di resistenza aveva visto un’opposizione nei confronti di un’intrusione esterna (i colonizzatori), la seconda ha comportato una ricostruzione culturale ed ideologica interna:

170 Ivi, p. 141.

171 Nadja Zierott, Aboriginal Women’s Narratives: Reclaiming Identities, cit., p. 16.

172 John McLeod, Beginning Postcolonialism, Manchester University Press, Manchester 2000, p.6.

173 Con la Balfour Declaration del 1926 questi territori vennero riconosciuti come “autonomous Communities

within the British Empire, equal in status, in no way subordinate one to another in any aspect of their domestic or external affairs, though united by a common allegiance to the Crown, and freely associated ad members of the British Commonwealth of Nations”. Nel 1931, lo Stature of Westminster decretò la loro completa indipendenza.

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After the period of ‘primary resistance’, literally fighting against outside intrusion, there comes the period of secondary, that is, ideological resistance, when efforts are made to reconstitute a ‘shattered community, to save or restore the sense and fact of community against all the pressures of the colonial system’.175

Said riconosce come la strategia della resistenza implichi il “writing back”, ovvero un insieme di contro-risposte critiche al centralismo occidentale. Nei casi più vistosi, il “writing back” è coinciso con una forma di riscrittura di testi canonici e universalmente celebrati, come ad esempio The Tempest di Shakespeare, di cui è stata messa a fuoco la presenza indigena di Caliban. In altre circostanze, è emersa una forma di risposta alle opere della tradizione letteraria occidentale che è consistita nella stesura di testi ex novo. Queste riscritture creative:

bear their past within them in various ways: as scars of humiliating wounds, […] as potentially revised visions of the past tending toward a postcolonial future […] as urgently reinterpretable and redeployable experiences, in which the formerly silent native speaks and acts on territory reclaimed as part of general movement of resistance.176

Lo scopo di questi scritti è ricostruire un percorso dialogico e “break down the barriers which exist between different cultures”177. Il processo di decolonizzazione e le sue strategie di resistenza e ridefinizione sono direttamente collegati alla ricostruzione di un’identità, sia personale che collettiva.

Aschcroft, Devlin-Glass e McCredden, nel testo critico sopracitato, sottolineano come, alla fine del ventesimo secolo, anche gli scrittori bianchi australiani fossero stati “influenced by contact experiences, historiography and Indigenous life-writings”178 e si siano così misurati con un territorio completamente nuovo e, fino a poco tempo prima, a loro sconosciuto, quello dell’“indigenised, earthed and embodied sacred”179. Fino a quel momento, i colonizzatori australiani e i nativi avevano avuto concezioni del “luogo” completamente diverse e difficilmente conciliabili:

If the bush nationalist mythos and pastoral industry in their early formation (and in some continuing versions of that formation), were notoriously unable to enter into

175 Ibidem. 176 Ivi, p. 253.

177 Nadja Zierott, Aboriginal Women’s Narratives: Reclaiming Identities, cit., p. 23.

178 Bill Aschcroft, Frances Devlin-Glass and Lyn McCredden, Intimate Horizons: The Post-Colonial Sacred in

Australian Literature, cit., p. 165.

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dialogue about the nature of the environment with the Indigenous peoples who occupied it prior to settlement, this is no longer so.180

Lentamente, la situazione è cambiata, diventando più fluida:

Literary and historical texts from the end of the twentieth and early twenty-first century, having their origins in the pastoral zone, tell an increasingly complex tale of what it is to be at home, and not at home, in place, and of home as a potentially sacred