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Sally Jane Morgan è un’autrice, artista e drammaturga aborigena australiana che ha iniziato a misurarsi nel terreno della life-writing nel 1987, pochi mesi dopo la First National Conference of Aboriginal Writers e poco prima della celebrazione, nel 1988, del bicentenario dalla conquista inglese. La pubblicazione di My Place, in quell’anno e in quel contesto socio-culturale, non è stata casuale, dal momento che il Governo australiano si era dichiarato pronto ad incamminarsi in un processo di riconciliazione con la popolazione indigena. Lo scritto autobiografico della Morgan ha avuto una risonanza sia nazionale, sia internazionale, arrivando a far conoscere gli scrittori aborigeni e i loro diritti violati ad un pubblico di vaste dimensioni.

Nell’ambito della produzione aborigena, i testi più importanti degli anni Ottanta, in Australia, sono stati prevalentemente scritti da donne, più capaci di costruire legami profondi e attraversare intere comunità, accorpando anche le voci degli uomini, soprattutto quelli più anziani. Dopo il successo del 1987, la Morgan ha pubblicato, nel 1989, Wanamurraganya: The Story of Jack McPhee, una biografia del suo prozio, Jack McPhee (Arthur Corunna), nella quale si è proposta di “chronicle the life of its titular figure, a man central to Morgan’s efforts to reconnect with her Palyku extended family in the Pilbara region of Western Australia”205. Nonostante lo descriva come un uomo che ha avuto problemi con la legge, l’autrice ne mostra anche la conoscenza delle tradizioni, così come la capacità strategica di adottare costumi europei e destreggiarsi nella comunità bianca, con la conseguenza di subire ostracismi all’interno del proprio gruppo. Se da una parte il vissuto di McPhee “functions as an authentic expression of the reflections of ‘Wanamurraganya, the son of a tribal Aborigine’”, dall’altra mostra “a man who is fighting with being black and white. A man who chooses not to live in the tribal way, but who can’t live the white man’s way because the government won’t let him”206.

205 Michael R. Griffiths, “Indigenous Life Writing: Rethinking Poetics and Practice”, in A Companion to Australian

Aboriginal Literature, cit., p. 22.

206 Sally Morgan, Wanamurraganya: The Story of Jack Mcphee, Freemantle Arts Centre Press, Freemantle 1989, p.

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Sally Morgan si è misurata anche nel campo dei Children’s Books collaborando con suo marito, Paul Morgan, alla stesura di Little Piggies nel 1995 e curando la pubblicazione di una serie di storie per bambini scritte da autrici aborigene australiane (Barlay!). Successivamente, lo stesso anno, ha aiutato sua madre, Gladys Milroy, a pubblicare il suo primo libro, dal titolo The Great Cold. L’idea alla base di queste iniziative era contribuire al percorso educativo dei bambini indigeni della scuola primaria, permettendo loro di familiarizzare con storie scritte direttamente da autrici della loro stessa comunità. Allo stesso tempo, ella si proponeva di incoraggiare i bambini non-indigeni ad entrare in contatto con la ricchezza e la profondità dello storytelling tipico del mondo dei natives.

La sua opera del 1987, My Place, ha avuto il merito di trasformare un tema fino ad allora sconosciuto e marginale, come quello delle Stolen Generations, in un argomento condiviso e centrale. Attraverso l’uso del possessivo “My” di fronte a “Place”, il testo intende mettere in rilievo le esperienze che Sally e la sua famiglia hanno fatto per riacquisire il senso e la consapevolezza della loro “aboriginalità”. La scrittrice, attraverso un percorso di recupero e rielaborazione del passato, è riuscita ad aiutare i suoi famigliari non solo a scoprire quale fosse il loro “posto” nella rete delle relazioni con altri aborigeni, ma anche ad orientarsi all’interno dei rapporti e nelle intersezioni tra la società aborigena e quella dei bianchi. Sarà proprio definendo e accettando quel suo “place” che la Morgan riuscirà a trasmettere agli australiani, siano essi neri o bianchi, un messaggio che individua una via di uscita positiva e costruttiva, in contrasto con la drammatica cesura segnata dai rapporti conflittuali tra le due culture.

Questo libro ricostruisce una straordinaria e commovente vicenda autobiografica nella quale l’autrice descrive tutti i tentativi fatti per scoprire le vere origini della sua famiglia da quando, all’età di quindici anni, si era resa conto che essa aveva qualcosa di “diverso” rispetto a quelle dei suoi coetanei. Iniziò così a cercare informazioni e a porre domande a chi le era più vicino, cioè a sua madre e a sua nonna. In un primo momento, dovette misurarsi con una forte resistenza da parte loro, ma questo non fece altro che intensificare il suo desiderio di sapere. Nel 1982, la Morgan intraprese un viaggio insieme a sua madre Gladys nel luogo di nascita di sua nonna, cosicché:

what had started out as a tentative search turned into an overwhelming spiritual and emotional pilgrimage as Sally and her family were confronted with their own suppressed history and fundamental questions about their identity.207

207 Intervista a Sally Morgan da parte di Mary Wright, “A Fundamental Question of Identity”, Kunapipi, 10 (1),

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La famiglia di Sally, compreso suo marito Paul Morgan208, iniziò a sentire sempre più il desiderio di scandagliare la verità. Le testimonianze e le storie del suo prozio Arthur, di sua madre Gladys e di sua nonna Daisy sono state dunque incorporate all’interno di My Place. La ricerca non è comunque stata semplice e Sally, nel capitolo “A Beginning”, registra un momento di sconforto:

I wanted to cry. I hated myself when I got like that. I never cried, and yet since all this had been going on, I’d wanted to cry often. It wasn’t something I could control. Sometimes when I look at Nan, I just wanted to cry. It was absurd. There was so much about myself that I didn’t understand.209

In un’intervista, la Morgan ha affermato che la prima motivazione che la spinse a scrivere questa opera era la “anger”:

Yes, that’s true. My first motivation was anger – I get very angry at injustice, and I thought, “Somebody should put this down, people should know about these things” […] We had been deprived of that crucial knowledge as children, and I didn’t want my own children to be deprived. I felt that it was a record for them and if no-one else read it, it kind didn’t matter. Remember how you came round one night, Mum, and I said I’m going to write a book and you laughed?210

La Morgan ricorre non solo alla parola, ma anche al linguaggio iconico dell’artista, come testimonia la copertina della prima edizione di My Place, pubblicata presso la Freemantle Arts Centre Press. Essa mostra un suo dipinto, che potrebbe essere letto come un complesso paradigma visualizzato della storia della sua famiglia calata e radicata nella geografia del luogo:

208 Paul Morgan era un insegnante che iniziò a frequentare Sally durante il periodo universitario. Decisero di

sposarsi il 9 dicembre 1972. Paul era figlio di missionari e passò i primi anni della sua vita nella zona nel nord-ovest dell’Australia, a Derby, per poi trasferirsi, all’età di tredici anni, verso sud-ovest, a Perth, dove i suoi genitori istituirono un ostello per “mission children”. Paul, durante una delle prime conversazioni con Sally, le ricordò come Nan gli facesse pensare agli “old people who had looked after him up North”. Ma Sally sottolinea come, in quel momento, non si fosse posta particolari domande sull’identità di queste persone menzionate da Paul (“it never occured to me at the time to think about who those people were”).

209 Sally Morgan, My Place, cit., p. 141.

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Fig. 1: Il dipinto di Sally Morgan, come spiega Joan Newman, “demonstrates many

characteristics of traditional Aboriginal cave paintings and sand – the two-dimensional plane, the stylised representation of landscape”.211

211 Joan Newman, “Race, Gender and Identity: My Place as Autobiography”, in Whose Place?: A Study of Sally

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In questa raffigurazione stilizzata, antropologicamente stratificata e dai colori intensi, il serpente costituisce una presenza importante perché simbolo, nella mitologia aborigena, della forza della vita e dello Spirito della Terra. Il corpo del serpente fa da cornice al dipinto e, metaforicamente, consacra l’identità indigena e la selfhood integrata dell’autrice. I disegni che si ripetono in modo alterno sul corpo e sulla pelle dell’animale intendono evidenziare i mutamenti fisici ed emozionali di Daisy, Arthur e Gladys Corunna insieme a quelli della Morgan:

In the painting the serpent’s body marks major points of transition physically and emotionally for the people whose lives are narrated within the pages of the book. The mythical creature forms an overarching frame, suggesting a governing principle that holds his group of lives together, providing “protection, meaning and harmony”.212

Nella copertina viene rappresentato anche un corvo che vola sulla terra, a simboleggiare un pericolo di morte per i nativi insieme alla distruzione del loro territorio. L’occhio, nella parte in fondo a destra del dipinto, associato alla testa del serpente, simboleggia probabilmente anche l’occhio dell’autrice, rivolto allo spettatore come a stabilire un contatto diretto e magnetico. Il disegno illustra poi un’immagine di tutta la famiglia, ovvero di Daisy e Gladys Corunna con i suoi cinque figli, e indica il nome di una località di importanza centrale nelle dinamiche della storia, ossia Corunna Downs (Pilbara). In questo luogo, stazione di proprietà di Howden Drake- Brockman213, nacquero Daisy e Arthur Corunna. La prima avrebbe poi lasciato Corunna Downs all’età di quattordici anni insieme ad Alice Drake-Brockman214, prima moglie di Drake- Brockman, spostandosi verso Perth:

I [Alice] the station, and, when I left, I took Daisy with me. Annie had said to me shortly before, “Take her with you, mistress. I don’t want my daughter to grow up and marry a native, take her with you”. It was at her request that I took Daisy. Of course, what I was doing was illegal, you weren’t supposed to bring natives into Perth.215

La ricerca dell’identità e della selfhood funge da filo conduttore all’interno di questa vicenda autobiografica, con l’identità aborigena a lungo celata alla protagonista, Sally Morgan, dalla sua

212 Ivi, pp. 66-67.

213 Howden Drake-Brockman era il proprietario di Corruna Downs, dove Daisy ha lavorato per la maggior parte

della sua vita. Daisy Corunna e suo fratello Arthur Corunna erano entrambi membri delle Stolen Generations in quanto figli dell’aborigena Annie Padewani e del bianco Howden Drake-Brockman. Daisy confessò a Sally che Howden era non solo suo padre, ma anche il padre di Gladys (figlia di Daisy stessa).

214 Alice fu la prima moglie di Howden Drake-Brockman e la donna che Sally intervistò per prima con l’intento di

ricostruire la storia della sua famiglia. Alice informò Sally sul fatto di aver deciso di portare con sé sua nonna, Daisy, quando lasciò Corunna Downs su richiesta della sua bisnonna.

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stessa famiglia e “scoperta” all’età di quindici anni. Da quel momento, inizierà per lei un autentico percorso di ricerca delle proprie radici, un viaggio che la porterà a individuare il suo vero “place”, corrispondente a un “luogo” così come a un “posto”. Il libro si apre con una dedica alla sua famiglia che sottolinea proprio la rilevanza che la ricerca e la scoperta del sé hanno all’interno di una life-writing che si intreccia con un complesso di relazioni etnico-culturali:

To My Family:

How deprived we would have been if we had been willing to let things stay as they were.

We would have survived, but not as a whole people. We would never have known

our place.216

La scoperta della sua “aboriginalità” è un tesoro talmente grande da dover essere condiviso e studiato più approfonditamente. Per questo motivo, la Morgan ha deciso di inserire anche la storia del suo prozio Arthur Corunna, di sua madre Gladys ed infine di sua nonna materna, Daisy, che cederà rispetto all’iniziale determinazione a non raccontare.

I capitoli iniziali di My Place si aprono con una descrizione dell’infanzia di Sally, che colloca la narrazione in un contesto riconoscibile e nel perimetro di un’esperienza collettivamente condivisa. Il primo capitolo, “The Hospital”, è da considerarsi, sin dalle battute d’esordio, una parte importante da interpretare oltre un primo significato di referenzialità storica. In queste pagine viene rievocata una visita fatta al padre di Sally, in ospedale, con un linguaggio che sembra volersi porre come accessibile a un pubblico ampio. La piccola Sally si definisce “a grubby five-year-old”217 che non riesce a capire in che modo un ospedale possa essere così

asettico e di un candore luccicante. Inoltre la bambina, prevedibilmente, non concepisce la malattia e, soprattutto, non arriva a perdonare e ad accettare l’idea del ricovero di suo padre all’interno dell’ospedale (“sometimes I hated Dad for being sick and Mum for making me visit him”)218. Le prime parole utilizzate per descrivere il luogo possono essere interpretate come una spia del rapporto tra la piccola Sally e il suo “posto” all’interno della società:

The hospital again, and the echo of my reluctant feet through the long, empty corridors. I hated hospitals and hospital smells. I hated the bare boards that gleamed

216 Sally Morgan, “Dedication”, in My Place. 217 Sally Morgan, My Place, cit., p. 11. 218 Ibidem.

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with newly applied polish, the dust-free window-sills, and the flashes of shiny chrome that snatched my distorted shape as we hurried past. I was a grubby five-year-old in an alien environment.219

Le aggettivazioni suggeriscono come l’ospedale sia associato alla whiteness, non solo per il colore e la pulizia nivea, ma anche da un punto di vista di identità culturale. Sally in questo posto si sente fuori luogo, non in “her place”; si percepisce come “dirty”, “grubby” e questo suo sentimento provato da bambina, all’interno dell’ospedale, diventa premonitore dello stato d’animo della Sally adulta, nel momento in cui verrà a conoscenza della sua “aboriginalità”. Ad un certo punto, Sally ricorda come subentrasse perfino una difficoltà a parlare: “I felt if I said anything at all, I’d just fall part. There’d be me, in pieces on the floor”220. Come scrive Lizzy Finn, in “Postcolonial Hybridity in Sally Morgan’s My Place”:

Whiteness is conceived as oppressive, enforcing a negation of self: if Sally’s younger self remains speechless, she remains absent. Her presence in this space is thought of as destructive: to be present, to speak and make her existence known, is to cause herself to fall apart. Silence maintains an allusion of composure […] This is the space in which Morgan begins to write: one where whiteness (white literature, white culture, white history) is the foundation and framework; where to speak is to be dismantled and dismantle.221

In questo primo capitolo viene inoltre introdotta la figura del padre di Sally, William Joseph (chiamato “Bill” all’interno del libro). A differenza del resto della famiglia, egli non è aborigeno e rappresenta dunque l’elemento della whiteness nella loro vita. In chiusura di “The Hospital”, ci viene detto che Bill tornò a casa circa due settimane dopo la visita, dandoci quindi una prima coordinata temporale, “January 1957”, il mese e l’anno in cui i genitori di Sally diedero alla luce il loro quarto figlio, David:

Then, in the following January, 1957, Mum turned up on the doorstep with another baby. Her fourth. I was really cross with her. She showed me the white bundle and said, “Isn’t that a wonderful birthday present, Sally, to have your own little brother born on the same day as you?”. I was disgusted. Fancy getting that for your birthday. And I couldn’t understand Dad’s attitude at all. He actually seemed pleased David had arrived!222

219 Ibidem. 220 Ivi, p. 12.

221 Lizzy Finn, “Postcolonial Hybridity in Sally Morgan’s My Place”, The Idea of New, vol. 4, 2008, p. 16,

https://www.ucl.ac.uk/moveable-type/pdfs/2007-8/finn.pdf [consultato il 16 dicembre 2017].

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Le pagine successive, in un capitolo che, significativamente, è di nuovo contrassegnato dal nome di un luogo (“The Factory”), descrivono il primo giorno di scuola di Sally e la sua grande paura di doversi dividere dalla madre:

One look and I was convinced that, like The Hospital, it was a place dedicated to taking the spirit out of life. After touring the toilets, we sat down on the bottom step of the verandah. I was certain Mum would never leave me in such a dreadful place, so I sat patiently, waiting for her to take me home223.

Questa preoccupazione degenerò presto in un “active dislike of school”224. Sarà proprio all’interno dell’ambiente scolastico che la Morgan avrebbe notato uno “strano” atteggiamento nei suoi confronti. In occasione della fine del secondo semestre, la sua insegnante, Miss Glazberg, propose alla classe di fare un disegno raffigurante la famiglia, che sarebbe poi stato esposto e mostrato ai genitori di ogni alunno. Girando tra i banchi, l’insegnante raggiunse Sally di spalle, dopodiché:

A hand tapped my shoulder and Miss Glazberg said, “Let me see yours, Sally”. I sat back in my chair. “Ooh, goodness me!” she muttered as she patted her heart. “Oh, my goodness me. On no, dear, not like that. Definitely not like that!” Before I could stop her, she picked up my page and walked quickly to her desk. I watched dismay as my big-bosomed, large nippled mother and well equipped father disappeared with a scrunch into her personal bin.225

Emerge chiaramente, in questo passo, l’ironia nei confronti della pruderie bianca e di una sostanziale impreparazione ad affrontare espressioni di una cultura ritenuta primitiva ed arretrata. L’anno seguente fu iscritta a scuola anche la sorella di Sally, Jill, che, a differenza della protagonista, non sembrava spaventata all’idea di iniziare questa nuova avventura. La condizione di Sally, invece, continuò a peggiorare:

After what seemed hours of holding my arm in the air trying to attract Miss Roberts’ attention, I was unable to avoid wetting myself. Miss Roberts had been intent on marking our latest tests […] one of the clean, shiny-haired, no-cavity girls next to me began to chant quietly, “You’ve wet ya pa-ants, we’ve wet ya pa-pants!” […] By this time, most of the surrounding children were starting to giggle.226

223 Ivi, p. 17. 224 Ivi, p. 19. 225 Ibidem. 226 Ivi, p. 24.

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L’atteggiamento di Sally nei confronti della scuola si inasprì ulteriormente dopo l’incidente, allorché si sentiva diversa da ogni bambino all’interno della classe.

I capitoli successivi si soffermano più dettagliatamente sulla figura del padre. Bill era un reduce di guerra e la Morgan scrive che il ricordo tormentato del conflitto non lo abbandonò mai. Quando era a casa era solito bere molto e sfogava la sua rabbia contro moglie e figli (“Dad was drinking more than he was eating, he was very thin”)227. Spesso portava Sally e i suoi fratelli con

lui al pub, ma, mentre lui continuava a bere birra e a divertirsi con i suoi compagni, loro sedevano annoiati e abbandonati in macchina anche durante l’estate:

Summer was worst. Dad always wound the windows up and locked what doors were lockable in case anyone should try to steal us […] these precautions meant that on hot summer’s nights, we were nearly suffocated228.

Per quanto riguarda il rapporto tra Sally e il padre, Lizzy Finn rileva:

Morgan’s relationship with her father is often overlooked by critics, yet it is central to her later configuration of herself and her family as fundamentally Aboriginal. The young Sally’s recognition of the destructive impact her father’s unspoken trauma has on his life is what prompts her to refuse any such silencing of her own identity.229