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In Australia, il termine “aboriginality” non è da considerarsi una categoria prefissata, dal momento che cambia e si modifica sia in modo sincronico, sia in ottica diacronica. Gli aborigeni, per riuscire a consolidare un senso di identità personale, dovettero altresì necessariamente contrapporsi a pensieri dominanti che li categorizzavano secondo determinati codici di riferimento, quali il colore della pelle, le peculiarità linguistiche o il comportamento sociale. Il problema dell’identità culturale e della sua autenticità è stato, ed è tutt’oggi, largamente discusso. Si riconosce però l’importanza del fatto che i nativi “establish their own self-

180 Ibidem. 181 Ibidem. 182 Ibidem.

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definitions in opposition to White definitions of Aboriginality, no matter what problems are connected with the term itself”183. I natives, soprattutto attraverso i loro scritti, intendono sostenere un concetto di aboriginalità che non sia un’etichetta delimitante, quanto un aspetto quintessenziale e introiettato, come evidenzia Anita Heiss:

for Aboriginal people, Aboriginality is not something that can be or should be classified or measured. Rather, it is an inherent identifying quality that cannot be dismissed or denied. The Aboriginality of a person is not qualified by how much Aboriginal blood that person may have.184

La letteratura, per loro, diventa un mezzo indispensabile e necessario per poter comunicare la valenza della propria “aboriginalità” ad un pubblico appartenente a culture differenti.

Il legame tra i coloni occidentali (inglesi in particolare) e gli aborigeni è andato costituendosi sulla base di un rapporto di determinazione contrastiva delle identità. Secondo logiche ormai acclarate, il colonizzatore avrebbe avuto bisogno di riaffermare la propria posizione istituendo un contrasto oppositivo con l’Altro. Dando per acquisito l’apporto teorico indispensabile dei Postcolonial Studies, si tenterà qui di far riferimento anche agli studi del sociologo canadese Erving Goffman, cercando di mostrare come nei rapporti interpersonali, o che coinvolgono gruppi relativamente circoscritti, emerga in modo chiaro questo rifiuto dell’alterità.

Erving Goffman185 è considerato uno dei sociologi più autorevoli del Novecento e, più precisamente, si inserisce nel settore specialistico della “microsociologia”, ovvero dell’analisi di

183 Ivi, p. 32.

184 Anita Heiss, “Why Does a Black Woman Write?”, in The Strength of Us as Women: Black Women Speak, ed. by

Kerry Reed-Gilbert, Ginninderra Press, Chamwood 2000, p. 51.

185 Erving Goffman, nato a Manville l’11 giugno 1922 e deceduto a Filadelfia il 19 novembre 1982, si laureò in

Sociologia e conseguì il dottorato all’Università di Chicago (1953). Dopo un breve periodo d’insegnamento per il

National Institute of Mental Health a Bethesda, a sud della contea di Montgomery, si trasferì in California, dove, nel

1962, gli venne conferita la cattedra di Sociologia all’Università di Berkeley. Dal 1981 al 1982 fu il settantatreesimo presidente dell’American Sociological Association, un’associazione non-profit formata principalmente da accademici e fondata nel 1905, volta a sostenere ed incentivare il progresso della sociologia come disciplina e professione. Nel 1979, ricevette un premio internazionale per la comunicazione insieme al Cooley-Mead Award, premio annuale consegnato “to an individual who has made lifetime contributions to distinguished scholarship in sociological social psychology”. Erving Goffman fu un importante sociologo, un cui contributo essenziale alla ricerca consiste nella formulazione del concetto di “interazione simbolica” (concetto su cui si discusse negli Stati Uniti nel primo trentennio del Novecento e che conobbe il suo pieno sviluppo con la fine degli anni Sessanta). Una sua pubblicazione rilevante fu The Presentation of the Self in Everyday Life (1956). Il suo interesse per l’interazionismo si basa sull’ipotesi che il legame tra gli elementi interni al sistema interazionale sia più forte rispetto a quelli strutturali esterni. Nello studio sopracitato, Goffman osserva il comportamento dell’individuo che si relaziona agli altri, assumendo un ruolo e seguendo un percorso teso a controllare le impressioni e le reazioni delle figure coinvolte. Tra i suoi numerosi studi si ricordano anche Stigma (1963) e Frame Analysis (1974). Egli non considera però la compagine sociale come un mero prodotto dell’interazione intersoggettiva, bensì come un insieme di microrelazioni quotidiane in cui i comportamenti individuali diventano atti comunicativi attraverso i quali l’immagine che ciascuno mostra di sé mira ad essere convalidata. Più precisamente, attraverso la descrizione della

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dinamiche che emergono nei rapporti di o tra piccoli gruppi. I suoi studi si concentrano sull’importanza della dimensione sociologica nella vita quotidiana, sull’interazione, sulla costruzione simbolica e comportamentale del sé all’interno della comunità e su elementi determinanti nella vita pubblica come, ad esempio, lo stigma, tema centrale di un saggio di notevole importanza pubblicato nel 1963, dal titolo Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity. Il termine “stigma” trova le sue radici nella cultura greca, come Goffman stesso ricorda:

The Greeks, who were apparently strong on visual aids, originated the term stigma to refer to bodily signs designated to expose something unusual and bad about the moral status of the signifier.186

Ci si riferisce quindi ad un marchio, originariamente apposto sul volto di un criminale, in modo che fosse facile riconoscere la natura di soggetto deviante di “a blemished person, ritually polluted, to be avoided, especially in public places”187. Oggi, il termine è utilizzato con il senso

originario, ma “[it] is applied more to the disgrace itself than to the bodily evidence of it”188; in senso figurato, lo stigma è dunque un segno generalmente connotato negativamente.

Goffman, d’altro canto, osserva come non esistano solo forme di “marcato negativo”, ma anche accezioni positive, dove il segno si trasforma in qualcosa di valorizzante. Il sociologo parte dall’idea di base secondo cui la società stabilisce i metodi di categorizzazione degli individui e i requisiti ai quali ciascun membro di ognuna di queste categorie deve rispondere per essere considerato “normale”:

Those who do not depart negatively from the particular expectations at issue I shall call the normals. The attitudes we normals have toward a person with a stigma, and the actions we take in regard to him, are well known, since these responses are what benevolent social action is designed to soften and ameliorate. By definition, of course, we believe the person with a stigma is not quite human.189

complessità della vita quotidiana, Goffman vuole mostrare come gli individui si muovano e gestiscano questa realtà. I piccoli gesti abitudinari e le sfumature espressive diventano l’oggetto privilegiato delle sue analisi, che, partendo sempre e comunque da un vissuto autobiografico, intendono far emergere le implicature dalle dinamiche dell’interazione.

186 Erving Goffman, Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity, Touchstone Edition, New York 1986,

p.1.

187 Ibidem. 188 Ibidem. 189 Ivi, p. 3.

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In qualunque interazione sociale, i partecipanti sono portatori di aspettative su ciò che dovrebbe succedere e su quali siano le qualità che ciascun interlocutore deve possedere, attributi che Goffman chiama “aspettative proiettive”:

While the stranger is present before us, evidence can arise of his possessing an attribute that makes him different from others in the category of persons available for him to be, and of a less desirable kind […]. He is thus reduced in our minds from a whole and usual person to a tainted, discounted one. Such an attribute is a stigma, especially when its discrediting effect is very extensive.190

Il termine “stigma” celerebbe una doppia prospettiva, oscillante tra “the plight of the discredited” e la figura del “discreditable”. Questa differenza è fondamentale, nonostante in molte circostanze gli individui stigmatizzati si siano calati in entrambe le situazioni. L’individuo “screditato” sarebbe portatore di uno stigma visibile e non possederebbe i requisiti atti a soddisfare le “aspettative proiettive” dei “normali”; si pensi, ad esempio, a una disabilità fisica, oppure al colore della pelle in un contesto bianco occidentale. L’individuo “screditabile”, invece, sarebbe portatore di uno stigma non visibile come, ad esempio, una persona ebrea in un contesto europeo della prima metà del Novecento. Si potrebbe pensare che chi è marchiato da uno stigma evidente si trovi in una condizione peggiore rispetto ai cosiddetti screditabili, mentre la posizione di questi ultimi risulta, secondo Goffman, molto più complessa. Essi si troverebbero infatti di fronte ad una serie di strade, in cui deve concretizzarsi l’azione del “passing”, cioè di fronte ad una serie di possibilità che necessitano di un adattamento mimetico. Dal momento che lo stigma è insito in questi individui e che potrebbe palesarsi in qualsiasi momento, la situazione del “passing” li espone ad interazioni difficoltose in cui, nonostante essi cerchino di mascherare lo stigma come se non esistesse, quest’ultimo potrebbe essere comunque percepito dai “normali”, facendo precipitare gli “screditabili” nell’imbarazzo. Per gli individui screditati, invece, lo stigma è evidente, cosicché la rappresentazione sociale non riserva loro particolari sorprese amare e conduce a una gestione perlomeno più controllata dello scambio. Al tempo stesso, la situazione di stigmatizzato presuppone che, anche nel caso di un soggetto screditato, persista una certa ruvidità nella gestione dell’interazione sociale e, per questo motivo, la persona coinvolta cercherà di evitare situazioni in cui lo stigma risulti particolarmente invalidante.

Goffman continua la sua analisi operando una triplice distinzione all’interno dello stigma stesso. La prima sottocategoria comprende le varie deformità fisiche (“abominations of the

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body”), nella seconda figurano “blemishes of individual character perceived as weak”, mentre la terza si riferisce allo stigma tribale:

Finally there are the tribal stigma of race, nation, and religion, these being stigma that can be transmitted through lineages and equally contaminate all members of a family.191

Chi è marchiato da un segno tende ad attirare tutta l’attenzione negativa degli altri partecipanti “normali” all’interazione, al punto che questi ultimi non notano più gli eventuali attributi positivi che lo stigmatizzato potrebbe comunque possedere. Esso si caratterizza per uno stigma, una undesired differentness, che lo porta ad essere marginalizzato.

In un esempio di life-writing qui analizzato, My Place, nonostante l’autrice-protagonista, Sally Morgan, pensi di essere parte integrante della comunità in cui vive, ella possiede un segno esteriore, la pelle scura, che testimonia la sua origine aborigena e induce immediatamente i suoi compagni di classe a non percepirla come un’“autentica” australiana. Sally, ferita da queste reazioni, chiese alla madre quali fossero le loro origini familiari e quest’ultima le consigliò di dire ai compagni che erano indiani. È stato il colore della pelle a far sì che Sally percepisse, per la prima volta, un senso di “displacement”, dell’essere “fuori luogo” in un’Australia eletta a terra dei bianchi, dove i non-bianchi erano visti come cittadini-ombra, appartenenti ad un mondo diverso. La blackness viene colta a livello inter-comunitario come un fattore discriminante e porta con sé connotazioni negative. Significativamente, perfino a livello intra-comunitario, la nonna di Sally accusa la nipote di preferire una nonna bianca a lei:

“You bloody kids don’t want me, you want a bloody white grandmother, I’m black. Do you hear, black, black, black!” With that, Nan pushed back her chair and hurried out to her room.192

Per Sally, inizialmente la blackness non rappresentava alcun problema e non era percepita come una diversità. Però nel confronto con gli altri, in seno al gruppo ristretto dei coetanei e, in alcuni momenti, anche all’interno della propria famiglia, è portata a riflettere sul significato di questo particolare “segno” fisico che contraddistingue lei e i suoi antenati:

For the first time in my fifteen years, I was conscious of Nan’s colouring. She was right, she wasn’t white. Well, I thought logically, if she wasn’t white, then neither

191 Ibidem.

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were we. What did that make us, what did that make me? I had never thought of myself as being black before.193

L’autrice allora arriva alla conclusione che dietro il colore della pelle ci sia molto di più, un diverso modo di vivere il rapporto con la natura, con la famiglia e con le istituzioni:

“Boongs, we’re Boongs!” I could see Jill was unhappy with the idea. It took a few minutes before I summoned up enough courage to say, “What’s that Boong?”. “A Boong. You know, Aboriginal. God, of all things, we’re Aboriginal!” “Oh.” I suddenly understood. There was a great deal of social stigma attached to being Aboriginal at our school.194

Questo rapporto, decisamente diverso da quello istituito dalla comunità bianca dominante, viene considerato sbagliato e pericoloso, associabile al “plight of the discredited”.

In Follow the Rabbit-Proof Fence, Doris Pilkington/Nugi Garimara, nel momento in cui

si richiama all’insediamento britannico nella Western Australia, sottolinea immediatamente come il colore della pelle dei nativi, in netto contrasto con la whiteness dei coloni, sia stato stigmatizzato e caricato di connotazioni negative, in modo da giustificare lo sfruttamento degli aborigeni da parte dei britannici. Quando i nuovi residenti bianchi dovettero trovare dei labourers, la loro scelta cadde sui nativi perché, essendo etnicamente “inferiori”, essi potevano essere pagati meno ed avevano esigenze e stili di vita decisamente più modesti:

“Black servants, I find”, wrote George Fletcher Moore in his Diary of Ten Years, “are very serviceable in this colony; on them we eventually depend for labour, as we can never afford to pay English servants the high wages they expect, besides feeding them so well. The black fellow receive little more than rice – their simple diet”.195

Lo stigma giustifica anche, in modo strumentale e discriminante, il fatto che le espropriazioni di immensi appezzamenti di terra fossero compensate con la distribuzione annuale di coperte:

As a further insult by the white invaders, an act of goodwill in the form of an annual distribution of blankets to the Aboriginal people was established. This generally occurred on Queen Victoria’s birthday. The Illustrated Melbourne Post of 20 August 1861, page 9, described this event as, “a sorry return for millions of acres of fertile land of which we have deprived them. But they are grateful for small things and the scanty supply of food and raiment doled out to this miserable remnant of a once numerous people, is received by them with the most lively gratitude”.196

193 Ibidem. 194 Ivi, p. 98.

195 Doris Pilkington/Nugi Garimara, Follow the Rabbit-Proof Fence, cit., p. 16. 196 Ivi, p. 17.

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Per Molly, una delle protagoniste del libro, il fatto di avere la pelle più chiara di tutti gli altri bambini della comunità diventa a sua volta elemento di una undesired differentness, che la porta ad essere emarginata ed esclusa dal proprio gruppo:

The Mardu children insulted her and said hurtful things about her. Some told her that because she was neither Mardu or wudgebulla she was like a mongrel dog. She reacted in the only way she knew. She grabbed handfuls of sand or stones and threw them at her tormentors, and sometimes she chased them with a stick.197

Proprio questo ulteriore stigma attribuito dai natives ad altri natives fornirà ai bianchi una base ideologica per separare gli half-castes dalle loro famiglie:

The common belief at the time was that part-Aboriginal children were more intelligent than their darker relations and should be isolated and trained to be domestic servants and labourers.198

Nell’ultima opera analizzata, The Shadow Child: a Memoir of the Stolen Generation, Rosalie Fraser descrive a sua volta i soprusi, le minacce, gli abusi e i maltrattamenti che lei e la sua sorellina Bev hanno subito per mano della loro foster mother, perché considerate un “pair of bastards”199. Anche in questo contesto, il loro segno esteriore, cioè la pelle nera, ha determinato automaticamente un’emarginazione e una sottomissione all’interno del nucleo famigliare ospitante, che al contrario avrebbe dovuto proteggerle, aiutarle e curarle. Sarà proprio la figura materna a sottolineare sempre, all’interno del libro, il peso della diversità:

On this occasion [the Welfare visit] I heard her claim that Bev and I were upset with her because Uncle Dick had told us that Kellys were not our real family. The truth is that she had been telling us since the moment we arrived in her house that we did not belong to her. It was certainly never any surprise to us that the Kellys were not our family! Not when our foster mother used to tell us every day that our mother was a dirty black boong and that we were just like her.200

I “mongrels”, dunque, finirono per subire un’ulteriore lacerazione in una società fortemente gerarchizzata, in cui sarebbero risultati da una parte “screditati”, e dall’altra meno “screditabili” rispetto agli altri aborigeni.

197 Ivi, p. 39. 198 Ivi, p. 40.

199 Rosalie Fraser, The Shadow Child: a Memoir of the Stolen Generation, cit., p. 52. 200 Ivi, p. 60.

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Erving Goffman, all’interno di Stigma, mette a punto un’ulteriore precisazione parlando, nel sotto-capitolo “The Own and The Wise”, delle tipologie di gruppi generalmente presenti all’interno di una società stigmatizzata. Il termine “own” delinea un insieme di individui che condividono un particolare tipo di stigma e, per questo motivo, sono capaci di sostenere chi è accomunato dalle loro stesse caratteristiche:

The first set of sympathetic others is of course those who share his stigma. Knowing from their own experience what it is like to have this particular stigma, some of them can provide the individual with instruction in the tricks of the trade and with a circle of lament to which he can withdraw for moral support and for the comfort of feeling at home, at ease, accepted as a person who really is like any other normal person.201

Il gruppo rappresentato dai “wise” fotografa invece quei soggetti considerati “normali” che, anziché allontanare il “diverso”, riescono ad instaurare con esso un rapporto perché “[a special situation] has made them intimately privy to the secret life of the stigmatized individual”202. Le peculiarità delle due categorie sono puntualmente rintracciabili all’interno delle vicende autobiografiche delle scrittrici trattate all’interno di questo elaborato. In contesti, tempi e situazioni diverse, la Morgan, la Pilkington e la Fraser riescono a dare prova di queste dinamiche sociali che hanno caratterizzato l’Australia delle Stolen Generations.

In My Place, Follow the Rabbit-Proof Fence e The Shadow Child le autrici (e protagoniste) riescono a render conto dell’importanza che l’idea di appartenenza ha in seno alle comunità aborigene. Il legame profondo che instaurano gli individui portatori di un’undesired differentness instaurato all’interno di un gruppo “own” viene descritto da Goffman come vitale al punto che spesso, per consolidare la loro appartenenza i “diversi” decidono di dare voce ai loro sentimenti e pensieri anche attraverso degli scritti:

Often those with a particular stigma sponsor a publication of some kind which gives voice to shared feelings, consolidating and stabilizing for the reader his sense of the realness of “his” group and his attachment to it.203

La figura di Paul Morgan all’interno di My Place può essere riconducibile alle caratteristiche proprie del gruppo “The Wise”. Cresciuto in una famiglia di missionari, egli ha passato i primi anni della sua vita nella zona a nord-ovest dell’Australia, a Derby, per poi spostarsi, all’età di

201 Erving Goffman, Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity, cit., p. 19. 202 Ivi, p. 28.

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tredici anni, verso sud-ovest, a Perth, dove i suoi genitori istituirono un ostello per “mission children” aborigeni. Ha sempre avuto la possibilità e l’opportunità di confrontarsi con il “diverso” al punto da non riconoscerlo più come tale e a riuscire a considerarlo “uguale” a sé. La naturalezza e la “normalità” con cui si rapporta a Sally e la sua famiglia aborigena è un esempio di assottigliamento della differenza tra “stigmatised” e “normal”, quello stesso confine che gli altri membri della famiglia della Morgan (soprattutto la nonna Nan), e Sally stessa, concepiscono e vedono come invalicabile e netto.

In The Shadow Child di Rosalie Fraser, si colgono similmente gli schemi goffmaniani