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LO HUMAN RIGHTS ACT

L’APERTURA DEL REGNO UNITO

4. LO HUMAN RIGHTS ACT

Il dibattito sull’incorporazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nell’ordinamento giuridico nazionale occupò per vari decenni il dibattito politico e giuridico del Regno Unito. Per la prima volta si presentò il problema della mancanza di un’effettiva tutela per i diritti della Convenzione nel 1968, pochi anni dopo che il Gabinetto laburista britannico si decise ad ammettere la giurisdizione della corte di Strasburgo e la petizione individuale da parte dei sudditi di sua

Maestà: in quell’anno Anthony Lester, membro del partito Liberal-Democratico, scrisse un libro intitolato “Democracy and Individual Rights”, in cui si lamentava la mancanza di protezione dei diritti, auspicando una legislazione ad hoc e l’istituzione di un organo che aiutasse il parlamento nella formazione di legislazione compatibile con il diritto internazionale.

Un primo tentativo legislativo di inserire il documento europeo nel diritto inglese ci fu nel 1976 con un progetto di legge presentato da Lord Wade che sollevò molte critiche, poiché un tale atto era considerato estraneo alla tradizione inglese di Common Law, e che non portò a nulla di concreto. Questo non rappresentò una battuta d’arresto di questa campagna; l’anno successivo fu creato un Select Commitee on a Bill of Rights, che aveva il compito di valutare se e come il governo britannico dovesse introdurre un tale atto nel diritto nazionale. Il comitato presentò la propria relazione il 29 giugno 1978 in cui venne affrontato l’argomento dell’incorporazione della Convenzione europea individuando argomenti sia a favore che contrari: tra i primi furono individuati una miglior salvaguardia dei diritti di cui le persone erano titolari, poiché sarebbero venuti a crearsi due canali, nazionale e internazionale, a cui potersi rivolgere, la possibilità per la Common Law di potersi aggiornare e allinearsi con gli altri paesi europei e infine avrebbe permesso ai giudici nazionali di valutare e controllare l’operato delle autorità pubbliche e politiche

britanniche, creando nel paese una cultura dei diritti. Dall’altra parte, i membri del comitato

consideravano un maggior ruolo dei giudici anche un rischio, in quanto ci sarebbe potuto essere un attivismo da parte dei giudici ritenuto eccessivo, soprattutto in materie e ambiti considerati sensibili; infine, un ulteriore rischio andava a toccare le modalità lavorative dei giudici che si sarebbero trovati ad applicare principi generali e astratti, mentre da sempre il diritto inglese si sviluppava a livello giurisdizionale in maniera particolare, valutando caso per caso. L’opinione finale del

comitato era sfavorevole nei confronti dell’introduzione di un Bill of Rights, ma nel rapporto finale fu comunque sottolineato che se si fosse arrivati ad una tale situazione la strada che doveva essere accolta era quella dell’incorporazione della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.

Dopo il giudizio presentato dal Select Commitee ci furono altri tentativi in parlamento, soprattutto nella Camera Alta, di far approvare disegni di legge che introducessero la Convenzione, ma alla fine furono tutti messi da parte e dimenticati, nonostante l’incorporazione della Convenzione europea avrebbe permesso al Regno Unito di riprendere il controllo sullo sviluppo della giurisprudenza in questa materia riducendo il ruolo sempre maggiore che, a partire dagli anni ‘60, aveva assunto la Corte di Strasburgo e limitando inoltre il peso della Corte sovranazionale sul lavoro del Parlamento di sua Maestà.

La situazione iniziò a cambiare negli anni ‘90, quando la battaglia per una maggior salvaguardia sul suolo britannico dei diritti della Convenzione fu abbracciata dal partito Laburista, che nel 1993 presentò “A new agenda for change: Labour’s proposal for Constitutional reform”, in cui veniva indicata una operazione in due fasi: la prima comportava l’introduzione nell’ordinamento inglese della Convenzione che sarebbe prevalsa sulle norme interne in contrasto con le norme

convenzionali tranne nel caso di leggi che presentassero la notwithstanding clause (che permetteva al Parlamento britannico di approvare leggi in contrasto con le norme della Convenzione), per poi, nella seconda fase, creare un nuovo Bill of Rights che comprendesse anche quei diritti che non fossero contemplati nel documento europeo. Per la prima volta un partito politico inglese di primo

114 Sandra Fredman, The New Rights: Labour Law and Ideology in the Thatcher Years, in Oxford Journal of Legal

piano faceva propria la lotta che doveva portare ad allineare il Regno Unito agli altri stati membri del Consiglio d’Europa.

Qualche anno dopo due importanti membri del partito Laburista, Jack Straw e Paul Boateng, ministri ombra quando il partito era ancora all’opposizione, pubblicarono un documento intitolato “Bringing Rights Home”, in cui si ripercorrevano le relazioni del Regno Unito con la CEDU e soprattutto venivano contestate le argomentazioni di coloro che continuavano ad essere contrari ad una tale soluzione, sottolineando in particolar modo come una incorporazione della CEDU avrebbe permesso un vero e proprio risparmio per quei cittadini che si vedevano calpestare i propri diritti che fino a quel momento dovevano necessariamente rivolgersi ai giudici di Strasburgo per avere giustizia impegnandosi in procedimenti che duravano anche anni, permettendo un rafforzamento della fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni politiche115.

Nel maggio del 1997 il partito Laburista riuscì a vincere le elezioni e a formare un governo, con a capo Tony Blair, grazie al suo programma elettorale che prevedeva un ampio progetto di riforma istituzionale in cui era espressamente prevista l’introduzione dei diritti convenzionali nel diritto inglese; tra i primi documenti pubblicati dal nuovo governo Laburista ci fu un White Paper intitolato “Rights Brought Home”, in cui il governo indicò come avrebbe agito affinché i diritti espressi nella Convenzione potessero essere considerati vincolanti per le autorità politiche e i tribunali britannici, riprendendo con questo titolo il documento che era stato pubblicato poco prima da altri esponenti di spicco del partito e con il quale si voleva sottolineare come con

l’incorporazione della Convenzione europea nell’ordinamento interno i diritti umani in essa salvaguardati sarebbero semplicemente tornati a casa, in quanto i diritti che erano tanto osteggiati dagli elementi più tradizionali della società inglese, in realtà appartenevano già alla tradizione britannica proveniente da documenti fondanti il sistema costituzionale del Regno, come la Magna Carta e il Bill of Rights116.

Un mese dopo dalla pubblicazione del White Paper iniziò il percorso di approvazione del progetto di legge dello Human Rights Act in parlamento, che venne approvato definitivamente il 16 febbraio 1998.

Lo Human Rights Act, diversamente da quanto si possa pensare, è formalmente una semplice legge ordinaria; questo non ha impedito alla giurisprudenza interna di prendere una posizione diversa: una pluralità di giudici, tra i quali Lord Woolf nella sentenza R v. Offen, Lord Steyn nella sentenza Mc Cartan Turkington Breen v. Times Newspapers Ltd e Laws LJ nel caso Thoburn v. Sunderland City Council, ritengono che questa legge rappresenti uno strumento costituzionale il quale, secondo quanto sostenuto da Laws LJ, si differenzia da norme ordinarie poiché una norma costituzionale disciplina i rapporti fondamentali fra cittadini e stato oltre ad occuparsi dei diritti fondamentali delle persone. Essere una norma di rango costituzionale nel sistema britannico comporta che tali norme non possano essere toccate dall’abrogazione implicita, che si ha quando una norma successiva sia incompatibile con una norma precedente; queste norme non possono che essere abrogate in maniera esplicita. Quando si parla dello Human Rights Act non possiamo, inoltre, non tenere conto di un’altra particolarità, che permette di differenziarlo dalle altre leggi ordinarie; il controllo, da parte dei tribunali nazionali, sul rispetto dei diritti convenzionali da parte delle norme approvate dal Parlamento, che, in caso di violazioni potrebbe scaturire nell’emanazione, da parte dell’autorità

115 Rosario Sapienza, L’incorporation della Convenzione europea dei diritti umani nell’ordinamento britannico

attraverso lo Human Rights Act del 1998, in Andrea Caligiuri, Giuseppe Cataldi e Nicola Napoletano (a cura di), La tutela dei diritti umani in Europa: tra sovranità statale e ordinamenti sovranazionali, CEDAM, 2010, pp. 613-

616; Silvia Sonelli, La tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento inglese: lo Human Rights Act 1998 e oltre,

Giappichelli editore, Torino, 2010 pp. 10-14; Jack Straw e Paul Boateng, Bringing rights home: Labour’s plans to incorporate the European Convention on Human Rights into UK law, in European Human Rights Law Review,

1997, pp. 71-80; Francesca Rosa, Lo “Human Rights Act” e il processo di internazionalizzazione dei diritti

fondamentali, in Politica del diritto, 2000, p. 685

116 Command Paper N. 3782, Rights Brought Home: The Human Rights Bill, ottobre 1997; Alessandro Torre, Regno

giudiziaria, di una dichiarazione d’incompatibilità: in nessun’altra legge del Regno Unito è presente una tale possibilità117.

La legge del 1998 non ha tuttavia dato forza di legge alla Convenzione europea, metodo che rappresenta il modo consueto con cui una norma di diritto internazionale viene inserita nel diritto nazionale.

In questo caso la strada prescelta dal governo Blair fu quello dell’incorporazione indiretta, cosa che comportò la creazione di un sistema interno che permetteva di dare efficacia interna alla

Convenzione, permettendo ai giudici di conoscere questioni che riguardano le violazioni della CEDU, senza che i cittadini inglesi dovessero rivolgersi esclusivamente alla Corte di Strasburgo per far valere i propri diritti. Bisogna notare che i diritti che trovano efficacia ai sensi dello Human Rights Act e quelli protetti ai sensi della Convenzione non sono esattamente gli stessi: i diritti protetti dallo HRA sono quelli indicati negli articoli da 2 a 12 e dall’articolo 14, nonché gli articoli 1,2 e 3 del primo Protocollo e l’articolo 1 del tredicesimo Protocollo, infine l’articolo 1, quarto comma HRA prevede che il Lord Chancellor possa estendere l’efficacia della norma anche ad ulteriori diritti protetti da Protocolli ratificati dal Regno Unito. Non si fa invece riferimento

all’articolo 13 della Convenzione, poiché la versione inglese prevede che in caso di violazione di un diritto fondamentale le autorità debbano porre in essere un rimedio effettivo (bisogna sottolineare, però, come la traduzione in altre lingue dello stesso articolo non parlano di rimedi ma piuttosto di ricorso effettivo, dando all’articolo un significato legato alla possibilità di chiedere giustizia davanti alle autorità giudiziarie senza guardare alla fase successiva all’accertamento della violazione); nella versione inglese l’articolo poteva essere interpretato in maniera tale da individuare un obbligo per le autorità politiche di modificare la normativa interna del Regno, per cui la decisione del governo dell’epoca di non inserirla nello HRA dipese dal rischio che i parlamentari, gelosi della sovranità dell’istituto parlamentare e non completamente convinti, se non apertamente ostili, all’idea di rendere i diritti convenzionali direttamente azionabili di fronte alle corti nazionali, probabilmente non avrebbero accettato una norma che limitasse la libertà delle autorità politiche del Regno Unito118.

Ancora una volta dobbiamo sottolineare la totale indifferenza delle autorità politiche inglesi nei confronti dei diritti sociali, che non sono contemplati nella nuova forma di tutela interna al Regno Unito. Per questo motivo, affinché anche i diritti sociali potessero avere tutela davanti alle corti inglesi, si è cercata una strada alternativa, utilizzando articoli della Convenzione europea: soprattutto si cercò di utilizzare l’articolo 3 CEDU, che proibisce un trattamento disumano o degradante, l’articolo 8, che prevede il rispetto alla vita familiare, privata, alla casa e alla

corrispondenza, e infine l’articolo 14, che impone il principio di non discriminazione nel godimento dei diritti convenzionali. Tuttavia anche quei procedimenti aventi ad oggetto aspetti rientranti nei diritti sociali sollevati sulla base di violazioni dei sopraddetti diritti non finirono, almeno la maggior parte di questi, a favore dei ricorrenti; il motivo deve essere individuato soprattutto

nell’atteggiamento molto conservatore delle autorità giudiziarie britanniche che, nell’affrontare questioni legate a temi sociali, prende una strada differente rispetto ai procedimenti che hanno ad oggetto altri diritti umani, non seguendo le pronunce della Corte europea dei Diritti Umani. Questo atteggiamento della magistratura britannica è in linea con l’atteggiamento tipico delle autorità pubbliche nei confronti dei diritti sociali e con l’idea delle corti di non occuparsi di questioni che possono avere un qualche risvolto economico sulle casse pubbliche e di cui non hanno una

117 Silvia Sonelli, La tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento inglese: lo Human Rights Act 1998 e oltre, Torino, Giappichelli editore, 2010, pp. 24-30

118 Francoise J. Hampson, The concept of an “arguable claim” under article 13 of the European Convention on

Human Rights, in International and Comparative Law Quarterly, 1990, p. 892; Dominic McGoldrick, The United Kingdom’s Human Rights Act 1998 in theory and practice, in International and Comparative Law Quarterly, 2001,

conoscenza generale, idea strettamente collegata con la loro mancanza di legittimazione democratica119.

L’effetto della legge in esame non finisce però qui; l’articolo 3 al primo comma prevede che “Per quanto possibile, la legislazione primaria e secondaria dovranno essere interpretate ed

applicate in maniera compatibile con i diritti della Convenzione.”120

Si stabilisce, quindi, un ulteriore compito in capo ai magistrati britannici, oltre a quello di conoscere le violazioni dei diritti convenzionali, ovvero quello di dover interpretare qualunque norma

approvata dal parlamento, e non solo quelle che siano direttamente collegate a diritti protetti, in maniera conforme alla Convenzione, cosa che vale non solo per le norme approvate

successivamente all’entrata in vigore della legge ma anche per tutta la legislazione anteriore ad essa; l’interpretazione conforme alla Convenzione era possibile anche prima dello HRA quando una legge o principio di Common Law fosse stato ambiguo, ma ora la legge prevede un obbligo per i giudici di interpretazione conforme; l’effetto di questo obbligo sulla giurisprudenza inglese fu quello di portare ad un abbandono dell’interpretazione letterale delle leggi, obbligando i giudici ad interpretare le norme utilizzando le tecniche del “reading in” o “reading down”, che permettono di interpretare il testo legislativo come se contenesse una parola ulteriore o all’opposto permette di ignorare un termine contenuto nella norma.

Quindi, sulla base dell’articolo 3 HRA, il magistrato britannico può distaccarsi dal contenuto letterale della legge che è chiamato ad applicare, ma nel fare ciò deve comunque tenere conto di determinati limiti che incombono sulla sua attività interpretativa: infatti, se può utilizzare tecniche che gli permettono di aggiungere o togliere termini alle norme, sicuramente non può interpretare una legge in maniera tale da renderla in contrasto con una norma che esplicitamente limiti

l’efficacia di un diritto convenzionale o da interpretarla in maniera incompatibile con un aspetto fondamentale della norma da applicare, in caso contrario il giudice si approprierebbe di competenze che non spettano al potere giudiziario di una nazione; il limite che i tribunali nazionali non devono superare non è però delimitato così chiaramente, cosa che ha portato spesso a divisioni e diatribe dottrinali, come nel caso R v. A121, la cui sentenza fu emessa nel 2002 dalla Camera dei Lord, in cui venne sollevata la questione della compatibilità dell’articolo 41 dello Youth Justice and Criminal Evidence Act del 1999 (il quale prevedeva che non potesse essere considerata oggetto di prova la condotta sessuale delle vittime di reati sessuali, tranne nei casi in cui la corte decidesse

diversamente in casi indicati in maniera restrittiva dal legislatore stesso, per proteggere la vittima da una invasione nella sfera privata del tutto inutile ai fini del procedimento giudiziario) rispetto all’articolo 6 CEDU, i giudici della suprema corte inglese (dell’epoca) affermarono che l’articolo 41, alla luce dell’articolo 3 dello Human Rights Act, deve essere interpretato in maniera tale che i giudici, sebbene debbano tenere conto della vittima e salvaguardarla da possibili umiliazioni, non possano essere considerati legati circa l’ammissibilità di materiale probatorio, proprio per il rispetto del principio di un equo processo, affermando l’esistenza in questo caso di una previsione implicita rispetto al contenuto dell’articolo.

Infine, i giudici tendono ad evitare di prendere decisioni che comportano l’allocazione di risorse pubbliche, che richiedono di effettuare indagini sulle tendenze della società o riguardo ad ambiti troppo generali tali da richiedere l’intervento del potere legislativo per la loro regolamentazione122.

119 Merris Amos, The Second Division in Human Rights Adjudication: Social Rights Claims under the Human Rights

Act 1998, in Human Rights Law Review, 2015, pp.549-568

120 Convenzione europea dei Diritti Umani, articolo 3, primo comma 121 R v. A (No.2) [2001] UKHL 25

122 Roberto Sapienza, L’incorporation della Convenzione europea dei diritti umani nell’ordinamento britannico

attraverso lo Human Rights Act del 1998, in Andrea Caligiuri, Giuseppe Cataldi, Nicola Napoletano (a cura di), La tutela dei diritti umani in Europa: tra sovranità statale e ordinamenti sovranazionali, CEDAM, Padova, 2010, pp.

Collegato al discorso della interpretazione conforme era il dibattito precedente all’approvazione della legge sul rischio di un eccessivo attivismo da parte del potere giudiziario nella valutazione delle norme che sono chiamati ad applicare, tale da modificare il lavoro del legislatore. Proprio per evitare una tale situazione che avrebbe indubbiamente leso la tradizionale divisione dei poteri e soprattutto la sovranità del Parlamento che caratterizza il sistema britannico, buona parte della dottrina sostenne la tesi della Judicial deference, ovvero che i giudici nazionali avrebbero dovuto rispettare le decisioni delle autorità pubbliche, non potendo invalidare atti né dichiararli

incompatibili con i diritti convenzionali solo per un dissenso nel merito, indicando quindi una difesa contro una delle principali paure di coloro che contrastavano un tale provvedimento. La

giurisprudenza, da parte sua, si allineò alla posizione dei sostenitori della Judicial deference, come viene alla luce dalle posizioni tenute dalle corti britanniche; in particolar modo dobbiamo

sottolineare, come detto in precedenza, che i giudici inglesi tendono ad interferire nell’ordinamento solo in maniera puntuale, mai in maniera generale, lasciando al potere legislativo il compito di modificare il sistema su larga scala, come ci dimostra il caso Bellinger v. Bellinger, un altro esempio di deferenza delle corti di fronte alle autorità pubbliche si ha nel caso in cui l’eventuale modifica del sistema richieda la conoscenza di certe informazioni che per il ruolo svolto non sono a disposizione dei magistrati, come è stato chiarito dalla Camera dei Lord nella sua funzione giudiziaria nella sentenza E v. Chief Constable of the royal Ulster Constabulary and another; infine, un ultimo ambito in cui i giudici si autolimitano nella loro attività risiede nei casi in cui determinate decisioni possono imporre allocazioni di risorse o in cui si devono tenere in conto interessi in

contrapposizione come nei casi che riguardano la materia previdenziale e assistenziale123.

L’approvazione dello Human Rights Act ha portato anche ad una estensione dell’utilizzo del principio di proporzionalità da parte delle corti britanniche, che in precedenza lo utilizzavano esclusivamente per le cause che avevano a che fare con il diritto comunitario, poiché i giudici inglesi erano soliti, per le cause inerenti il diritto interno, basarsi sul cosiddetto Wednesbury Test o principio di ragionevolezza, il quale consiste nel valutare la ragionevolezza di un atto affinché si possa dichiararne la illegittimità; con lo HRA si aprì un nuovo fronte in territorio inglese per il principio di proporzionalità, quello dei procedimenti aventi ad oggetto violazioni dei diritti protetti a livello europeo, che ha permesso alle autorità giudiziarie del Regno Unito di fare valutazioni che tengano conto del bilanciamento tra gli interessi in campo, compresi gli interessi dell’individuo coinvolto rispetto a quelli della collettività, non limitandosi a valutare la ragionevolezza dell’atto che non permette di valutare in maniera penetrante la situazione su cui i giudici devono prendere una decisione.

A livello pratico lo Human Rights Act prevede all’articolo 7, primo comma che chiunque sostenga che un’autorità pubblica abbia agito in maniera illegittima allora possa presentare ricorso o possa far valere la violazione in un procedimento già in corso, entro un anno da quando la violazione ha