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La positivizzazione dei diritti nel Regno Unito

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LA POSITIVIZZAZIONE DEI DIRITTI NEL

REGNO UNITO

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INTRODUZIONE

Quando si guarda a quella branca del diritto che si occupa dei diritti umani fondamentali, dei quali si sono occupati fin dall’antichità molti giuristi e filosofi tra i più conosciuti ed apprezzati delle loro epoche, non possiamo non pensare al lungo percorso che ha portato all’attuale sistema, basato, in molti casi, su carte nazionali e su forme di tutela su più livelli (nazionale e internazionale).

La storia dei diritti umani nell’ordinamento britannico presenta, però, delle particolarità rispetto al resto del continente europeo, e della tradizione occidentale, particolarità di cui gli inglesi sono sempre andati fieri e che ancora oggi li portano ad esserne gelosi in maniera tale che una parte dell’opinione pubblica, e delle autorità pubbliche, vorrebbero tornare ad un sistema di protezione esclusivamente interno, abbandonando la struttura della Convenzione europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali (CEDU).

Le particolarità legate al mondo dei diritti nel Regno Unito sono varie.

La prima è sicuramente legata alla durata di questo processo, che prende le mosse dal Medioevo; la Magna Carta, documento del 1215, è uno dei capisaldi di questo percorso; questo documento è stato nel tempo quasi mitizzato, diventando un modello per le successive evoluzioni dei rapporti tra le varie anime dello stato e, soprattutto, una base per la limitazione del potere del sovrano rispetto agli affari di stato. La Magna Carta non era certamente una novità per l’epoca; già in precedenza i sovrani che precedettero Giovanni Senzaterra accordarono ai loro sudditi, o perlomeno ad alcune classi e categorie sociali, delle carte, le cosiddette Charters of Liberties, con le quali venivano effettuate concessioni e privilegi specifici a categorie precise. Inoltre il modello di una Carta che racchiudesse i diritti e i privilegi che un sovrano, o signore, concedeva ad una o più classi sociali, non è una particolarità dell’allora regno d’Inghilterra: in molti altri territori dell’Europa

continentale, i signori concessero ai propri subordinati delle Carte, che testimoniassero le concessioni da questi ottenuti dall’autorità.

Ciò che ci permette ancora oggi di guardare con attenzione alla Magna Carta, e di ammirarla ancora oggi (nel 2015 sono stati celebrati in maniera ufficiale gli 800 anni di vita della Carta) è la sua capacità di resistere al tempo, cosa che ha portato a distinguerla dagli altri testi ad essa

contemporanei di cui oggi abbiamo solamente un vago ricordo: anche la Magna Carta ha avuto alterne vicende durante la sua esistenza (è stata confermata, pur essendo rimaneggiata più volte, fin dai primi anni successivi alla sua stesura, subendo, tuttavia, tra il XIV e il XVI secolo, un periodo di oscuramento sebbene non sia mai stata ufficialmente cancellata dalle norme del regno), ma ha sempre resistito ai cambiamenti, adattandosi ai nuovi regimi che si susseguivano nel regno

d’Inghilterra, compreso l’altro elemento caratteristico del sistema politico-costituzionale inglese, il Parlamento, fino ad essere riscoperta e riportata a nuova luce nel XVII secolo, nel pieno di nuove lotte, questa volta tra la corona, che cercava di accentrare il potere nelle proprie mani creando quella monarchia assoluta tanto ammirata dai re Stuart, e il Parlamento, che aveva rimpiazzato la classe baronale nella lotta per la conquista del potere politico; furono proprio coloro che parteggiavano per il Parlamento a ergere la Magna Carta come modello, affinché il potere del re fosse limitato, in particolar modo nell’ambito della tassazione.

Ciò che ha portato ad individuare la Magna Carta come modello, non solo per i successivi rivolgimenti interni all’Inghilterra, ma anche per le future Carte prodotte dalle nazioni democratiche, europee e non solo, è stato anche il contenuto della Carta: tra gli articoli che

riguardano specifiche concessioni, tipici delle carte medievali, il cui valore giuridico è venuto meno con il tempo, ci sono anche articoli che hanno avuto una portata maggiore e più duratura, nei quali possiamo individuare istituti giuridici ancora oggi esistenti e posti a tutela dei cittadini; basti pensare alla proporzionalità delle sanzioni rispetto alla violazione, all’Habeas Corpus,

all’imparzialità del giudice, senza dimenticare il riferimento che molti articoli contengono, non a singole classi o categorie di sudditi, ma a tutti i liberi homines, un riferimento molto innovativo per l’epoca.

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Sicuramente di uguale importanza, rispetto la Magna Carta, è il Bill of Rights del 1689. Questa carta è importante perché rappresenta la definitiva vittoria del Parlamento sulla corona, ma non solo; il documento del 1689 rappresenta la prima carta (in un periodo in cui il modello della

monarchia assoluta era al suo massimo splendore in tutta l’Europa continentale), che impone ad un sovrano un giuramento di fedeltà, subordinando la propria ascesa al trono a tale dichiarazione, e rimarrà anche l’unica carta di questo tipo per circa un secolo. La legge del 1689 sancisce, inoltre, il nuovo ruolo del Parlamento, il quale assume da questo momento in poi un ruolo apicale, o quasi, nell’amministrazione dello stato.

La differenza da notare tra queste due pietre miliari nel cammino verso una totale protezione dei diritti nel Regno Unito consiste nel valore legale di questi due documenti: mentre la Magna Carta mantiene il valore di una Carta concessa dal sovrano ai propri sudditi con un valore giuridico limitato di fatto alla volontà del re di attenervisi, modalità tipica nel Medioevo in tutta Europa, il Bill of Rights, invece, aveva una efficacia certa nell’ordinamento inglese, in quanto il parlamento decise di fissarne il contenuto all’interno di una vera e propria legge, per evitare che i nuovi sovrani decidessero di ignorare il documento da loro accolto, come era già accaduto in passato con altre promesse della corona.

Tuttavia, ciò che accomuna i due documenti, del 1215 e del 1689, nonostante la grande distanza di secoli che esiste tra i due, consiste nell’essere antecedenti alle grandi Carte dei Diritti del

Settecento, il Bill of Rights americano e la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino redatta nella Francia rivoluzionaria. Coloro che redassero queste Carte, che dovevano contenere i diritti inviolabili degli esseri umani, guardarono ed attinsero, infatti, a quanto fissato dalle autorità inglesi nella Magna Carta, e ancor di più nel Bill of Rights, dai quali ricavarono in particolar modo l’idea di una limitazione del potere dell’autorità politica di fronte a diritti e libertà ritenuti comuni a tutti gli uomini e superiori a qualunque altro interesse. La differenza che possiamo riscontrare, tra gli atti inglesi e le Carte americana e francese, risiede nella portata del contenuto dei testi in considerazione: mentre il contenuto della Magna Carta e del Bill of Rights è improntato sulla praticità, poiché vengono definiti aspetti che hanno un valore pragmatico e di diretta influenza sulle persone (basti pensare a tutti gli istituti giuridici legati ai processi che nascono e si sviluppano a partire da queste pietre miliari), le altre Carte hanno, invece, un carattere generale ed astratto, indicando diritti e libertà le cui definizioni e rilevanza pratica sono più evanescenti e difficoltose ma, nonostante ciò, sono considerati degli elementi imprescindibili per la vita dell’essere umano. Nei circa due secoli e mezzo successivi i cambiamenti nell’ambito dei diritti furono più limitati e soprattutto graduali, pur potendo individuare importanti cambiamenti, come quello relativo all’abolizione della schiavitù; si dovette aspettare il XX secolo, e in particolar modo l’esperienza delle dittature nel continente europeo e la fine della seconda guerra mondiale, con i loro orrori nei confronti delle popolazioni civili e il totale abbattimento dei sistemi di tutela dei diritti umani, che a partire dalla rivoluzione francese, molto lentamente, si erano venuti a creare nelle principali nazioni d’Europa, affinché ci fosse un rivolgimento repentino: le nazioni europee, o perlomeno le nazioni democratiche, decisero di unirsi in una organizzazione, il Consiglio d’Europa, che redasse una Carta contenente quei diritti e principi comuni alle nazioni europee libere e democratiche, istituendo contemporaneamente un sistema che diede alla Carta, non un mero valore programmatico o dichiarativo, ma una vera e propria efficacia legale, poiché gli stati dovevano rispettarne il

contenuto, o i loro cittadini avrebbero potuto presentare di fronte alla Corte dei Diritti Umani, con sede a Strasburgo, un ricorso contro l’autorità pubblica che avesse leso i loro diritti.

La Convenzione europea dei Diritti dell’uomo ha rappresentato un cambiamento epocale; mai era stato creato, infatti, un elenco di diritti umani e libertà fondamentali comune ad una pluralità di stati, che avesse un valore vincolante per i governi degli stati sottoscrittori. Questo documento rappresenta un cambiamento ancora maggiore per il Regno Unito, il quale non ha mai avuto, a differenza della maggioranza dei paesi europei membri del Consiglio d’Europa, una Carta costituzionale scritta, contenente anche un elenco dei principi generali che dovrebbero guidare il

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governo e i diritti e le libertà di cui ogni cittadino godrebbe a prescindere da qualunque altra condizione. Il trattato europeo rappresenta, quindi, il primo esempio di una tale Carta per la nazione britannica, oltre a rappresentare un mezzo di limitazione della sovranità parlamentare, la cui

definizione più accurata e seguita fu quella del costituzionalista inglese Albert Dicey, che operò a cavallo del XIX e il XX secolo, con una visione del potere del Parlamento assoluto, strumento di limitazione che lascia però ancora molti spazi di autonomia all’organo rappresentativo della volontà popolare; quindi la Convenzione europea rappresentò un vero e proprio spartiacque per la storia costituzionale del Regno Unito.

La ratifica da parte del Parlamento britannico della Convenzione rappresenta, però, un cambiamento a metà per l’ordinamento inglese, poiché le autorità politiche decisero di non incorporarla

nell’ordinamento interno, rimanendo in questa maniera esclusivamente un trattato internazionale privo di un possibile rimedio di fronte alle corti nazionali. Dovettero passare molti anni dalla ratifica prima che un governo britannico decidesse di compiere anche l’ultimo passo, per un totale cambiamento nella modalità di protezione dei diritti nel Regno Unito, incorporando nel 1998 la Convenzione attraverso una legge ordinaria, lo Human Rights Act.

La storia dei diritti nel Regno Unito è stata, quindi, lunga e articolata, rappresentando nello stesso tempo un esempio unico, in cui possiamo individuare uno sviluppo lento, ma costante, come non accadde in nessun altro paese, permettendo, inoltre, una evoluzione coerente di molti istituti giuridici che ancora oggi sono utilizzati nell’ambito dei diritti nazionali.

Questa caratteristica di una lenta, ma costante, evoluzione di quelli che erano considerati i diritti fondamentali degli uomini rappresenta una ulteriore particolarità della situazione inglese rispetto a quella delle altre nazioni: mentre le Carte che a partire dalla fine del Settecento si succedettero in varie parti del mondo, fanno seguito ad eventi che portarono ad un nuovo corso in quel paese, basti pensare alle Carte americana e francese che vengono redatte in seguito a due rivoluzioni, e la stessa cosa si può dire delle Costituzioni, con annessi elenchi dei diritti e delle libertà fondamentali, del XX secolo (vengono subito alla mente la Costituzione di Weimar, che segue la fine della prima guerra mondiale e la creazione della repubblica tedesca, oltre le Costituzioni tedesca e italiana successive alla fine della seconda guerra mondiale, che hanno le loro radici nella lotta al nazismo e al fascismo). Nella storia costituzionale e dei diritti umani del Regno Unito non possiamo

individuare un tale schema; l’avanzamento in questo campo non ha visto un cambiamento repentino rispetto alla situazione precedente, e anche in quegli atti, sopra menzionati, che possono essere considerati rivoluzionari per l’epoca, non si possono tuttavia considerare delle novità improvvise, poiché gli eventi degli anni precedenti, se non addirittura decenni, già li preannunciavano, con una unica eccezione, che consiste nella Convenzione europea.

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CAPITOLO 1

IL CAMMINO DEI DIRITTI

1. LE PRIME CARTE

Comunemente si ritiene che per rintracciare le origini della protezione dei diritti nel Regno Unito si debba guardare alla Magna Carta. In realtà, sebbene tale Carta sia indubbiamente fondamentale per tale ambito, prima di questa vari sovrani concessero ai loro sudditi cosiddette “Charters of Liberties”, carte che avevano come caratteristica comune il riaffermare il rispetto di usi e costumi che andavano a limitare il potere regio.

Capostipite di queste carte si può considerare la “Coronation Charter” o “ Charter of Liberties”, concessa da Enrico I al momento della sua incoronazione nel 1100, che ha come sua fonte d’ispirazione, probabilmente, le Borough Charters, atti che concedevano diritti e privilegi a comunità, solitamente città1.

Lo scopo di questa carta era avere il maggior supporto possibile alla propria ascesa al trono. Il trattato di Caen del 1091 tra Guglielmo II, re d’Inghilterra, e il duca Roberto di Normandia,

entrambi figli di Guglielmo il conquistatore, doveva prevenire qualunque intervento armato tra i due fratelli; il trattato stabiliva che l’uno avrebbe nominato l’altro suo erede e viceversa. Sulla base di questo trattato, quindi, Enrico I era, di fatto, un usurpatore e per questo motivo doveva ottenere l’appoggio dei principali personaggi d’Inghilterra, che facevano parte della chiesa e della classe baronale2. Per questo motivo la Carta contiene norme che eliminano tutte le prepotenze e gli abusi

perpetrati dal fratello e predecessore relative soprattutto ad esazioni ingiuste e troppo onerose, andando contro quelli che erano stati costumi feudali3. Per fare ciò l’articolo 13 della carta

ripristinava le leggi di re Edoardo come erano state emendate da Guglielmo il Conquistatore , limitando il suo potere al rispetto di esse, inoltre, come viene esplicitamente affermato nell’articolo 12, con questo atto Enrico I voleva ripristinare la pace nel regno4.

Nonostante queste promesse, il contenuto della Carta non fu però rispettato da parte del sovrano, a dimostrazione che questo documento non era considerato un vero e proprio atto legislativo, ma solo una promessa senza valore vincolante fatta al momento dell’incoronazione; a dimostrarlo abbiamo a disposizione un altro documento, un registro finanziario, il Pipe Rolls, che testimonia il venir meno delle promesse fatte5 in tema di tassazione. Questo documento, tuttavia, rimane un importante

precedente poiché successivamente sarà ripreso dai fautori della Magna Carta a sostegno delle proprie rivendicazioni.

Il successore di Enrico I fu il nipote, Stefano, che regnò durante il periodo noto come “anarchia” a causa della guerra civile tra di lui e sua cugina Matilde, figlia di Enrico I. Nel momento in cui fu incoronato , nel 1135, confermò quanto concesso dal suo predecessore nella sua Charter of Liberties e l’anno successivo, il 1136, concesse una nuova carta a favore della chiesa; anche in questo caso la concessione di carte che riepilogassero i limiti e le “libertà” della classe feudale e

1 Henry L. Cannon, The character and antecedents of the Charter of Liberties of Henry I, in The American Historical

Review, 1909, pp. 43-46

2 William Sharp McKechnie, Magna Carta: A Commentary on the Great Charter of King John, with an Historical

Introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, p. 96

3 Ann Lyon, Constitutional history of the United Kingdom, Londra, Cavendish Publishing, 2003, p. 26

4 William Sharp McKechnie, Magna Carta: a commentary of the Great Charter of king John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, pp. 100-101

5 Sir Frederick Pollock e Frederic W. Maitland, The history of english law before the time of Edward I, Cambridge,

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della chiesa era necessaria al sovrano per ottenere la sua consacrazione a re d’Inghilterra, solo in questo modo, infatti, Stefano avrebbe ottenuto l’appoggio del conte di Gloucester, il Barone più potente all’epoca, a cui avrebbe fatto seguito l’appoggio di tutti gli altri6.

Ben più importante dei due precedenti fu il successore di Stefano, Enrico II, nipote di Enrico I e capostipite della dinastia dei Plantageneti; anche lui al momento della sua salita al trono emanò una nuova carta che sostanzialmente confermava ancora una volta quanto fissato da Enrico I omettendo però le carte concesse da Stefano, probabilmente a causa delle eccessive concessioni che aveva fatto alla chiesa7. In linea con questa posizione fu l’atto che emanò dieci anni dopo, nel 1164, ovvero le

Constitutions of Clarendon. Queste Costituzioni si inseriscono nella lotta tra il re e Thomas Beckett, arcivescovo di Canterbury e sostenitore delle libertà ecclesiastiche rispetto al potere dell’autorità laica, e infatti con esse Enrico II voleva allargare le prerogative regie a scapito di quelle della chiesa. Ciò che Enrico ottenne con questo atto fu principalmente riportare sotto la giustizia laica gli uomini di chiesa, che in precedenza potevano essere giudicati solo da corti ecclesiastiche e andando di fatto a cancellare quella libertà assoluta assunta dalla chiesa durante il regno di re Stefano8.

Enrico II non può non essere ricordato infine per essere il sovrano sotto cui iniziò a formarsi il sistema di Common Law come lo conosciamo ancora oggi, sistema legato ai writs, cioè gli ordini del sovrano rivolti ai suoi funzionari locali di dare soddisfazione al diritto di colui che aveva ottenuto il writ, e ad avere iniziato il processo di centralizzazione della giustizia, facendo prevalere la giustizia del re rispetto a quella delle corti locali e andando ad incrementare il potere del sovrano nel regno e sui suoi feudatari9.

2. LA MAGNA CARTA

Con i successori di Enrico II, i figli Riccardo I e Giovanni cosiddetto Senzaterra, la situazione di pace interna che era riuscito a creare venne meno. Sotto questi due sovrani, infatti, la monarchia inglese perse di forza. Riccardo I rimase lontano dalla patria per la maggior parte del suo regno, che durò una decina d’anni dal 1189 al 1199; egli parti per la Terra Santa nel 1190 per ritornare in Inghilterra, dopo alterne vicende, nel 1194, per ripartire subito alla volta della Francia, per difendere i suoi possedimenti francesi dalle mire del re di Francia. Per finanziare queste spedizioni militari dovette aumentare le tasse, andando contro tutte le promesse fatte dai suoi predecessori nelle varie carte relative ad esazioni ingiuste ed eccessive10.

Con Giovanni senzaterra la posizione della monarchia si indebolì ancora di più nonostante i tentativi del sovrano di sottrarre potere ai baroni del regno.

Tra le cause di questo indebolimento possiamo individuare, sicuramente, la perdita dei possedimenti francesi (per la cui difesa, su modello del fratello, impose un aumento delle tasse, contravvenendo, come il fratello, alle promesse dei predecessori), l’alleanza con Ottone IV di Brunswick che portò l’Inghilterra alla sconfitta di Bouvines del 1214 ad Opera di Federico II di Svevia e del re di Francia e lo scontro con la chiesa, scaturita dalla nomina ad arcivescovo di Canterbury di Stephen Langton, soggetto non gradito a re Giovanni, che portò alle sanzioni canoniche più gravi cioè scomunica del re e l’interdetto sull’Inghilterra; per eliminare tali sanzioni e scongiurare un’invasione della Francia, il sovrano fu costretto a piegarsi alla volontà del pontefice, accettando Langton come arcivescovo di

6 William Sharp McKechnie, Magna Carta: a commentary on the Great Charter of king John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, p. 102

7 William Sharp McKechnie, Magna Carta:a commentary on the Great Charter of king John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, p. 103

8 Sir Frederick Pollock e Frederic W. Maitland, The history of english law before the time of Edward I, Cambridge,

Cambridge University Press, 1895, pp. 116 e 472-473

9 Vincenzo Varano e Vittoria Barsotti, La tradizione giuridica occidentale vol. I, Torino, Giappichelli editore, 2010, pp. 281-282

10 William Sharp McKechnie, Magna Carta: a commentary on the Great Charter of king John, with an historical

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Canterbury e rendendo il Papa signore d’Inghilterra, il quale riconobbe Giovanni legittimo re ma in ogni caso suo subordinato11.

Questo periodo di incertezza interna ed estera, dal quale scaturì una contrapposizione tra il re e i baroni del regno, rappresenta il contesto in cui si sviluppò la Magna Carta, caposaldo del sistema costituzionale inglese.

La creazione di questo documento, che ha introdotto molti istituti, perlomeno nel loro stato embrionale, che sono giunti fino a noi, è dovuto ad una alleanza tra soggetti (ecclesiastici,

aristocrazia feudale e comunità cittadine), che in apparenza avevano interessi differenti, ma il cui scopo principale e comune si rivelò essere il ridimensionamento del potere regio. Nonostante la storiografia e i giuristi successivi all’epoca della sua formazione, anche di anni vicini, hanno indicato nel contenuto della Magna Carta un valore ideale, i suoi promotori non avevano in mente la creazione di principi generali ma piuttosto avevano in mente una carta che si potrebbe dire reazionaria12. Per loro questa carta, come le precedenti, doveva solamente essere uno strumento con

cui eliminare le pretese e gli abusi del sovrano, una riaffermazione di quelli che erano i loro privilegi precedenti ottenuti dalle generazioni anteriori, infatti molte delle clausole contenute nella Magna Carta rappresentano risoluzioni di questioni “particolari”, che riguardavano esclusivamente i protagonisti di questi eventi- i Baroni da una parte e re Giovanni dall’altra. A conferma di ciò la Carta del 1215 non fu la versione che si tramandò alle generazioni successive, ma fu modificata continuamente eliminando quelle clausole che non erano più attuali con il contesto contemporaneo e aggiungendone di nuove che risolvessero problemi contingenti. Probabilmente è questo carattere “dinamico” della Carta che permette di considerarla una delle fonti della Costituzione inglese, e ha permesso le ha permesso di non cadere nell’oblio come le precedenti.

Loro fonti ispiratrici furono le Charters of Liberties dei sovrani precedenti e in particolare quella di Enrico I, e infatti la struttura richiama quelle carte con un preambolo indicante i soggetti presenti a testimonianza dell’accettazione del re di quanto contenuto nel documento, seguito da varie

proposizioni, che in origine erano elencate senza alcuna divisione e solo in tempi più vicini a noi sono state divise in 63 articoli. Ricordiamo inoltre i richiami alle leggi e alle consuetudini dei regni precedenti come tipico delle carte che concedevano diritti dell’epoca13.

A differenza delle carte precedenti, nella Magna Carta, in ragione dell’Alleanza tra i vari ceti, abbiamo articoli che si riferiscono esplicitamente alle libertà e consuetudini proprie delle comunità cittadine riconosciute dalla corona (con un’attenzione particolare alla città di Londra) come

possiamo leggere nell’articolo 1314 e articoli in cui si fa menzione degli uomini liberi15, categoria

dalla quale si devono escludere tutti coloro che si trovavano in condizione servile (e che erano la maggioranza della popolazione), a sottolineare come non fosse un accordo solamente tra il re e la classe feudale, ma esteso ad una più ampia platea, in riconoscimento del ruolo politico sempre maggiore delle borghesie cittadine (dobbiamo ricordare l’articolo 1 dove si concedono a tutti gli

11 Alessandro Torre, Tutti gli uomini di re Giovanni, in Magna Carta, Alessandro Torre (a cura di), Macerata, Liberilibri, 2008, pp. XV-XVII

12 William Sharp McKechnie, Magna Carta: a commentary on the Great Charter of king John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, pp. 110 e 120-129; Giuseppe F. Ferrari, Le libertà e i diritti: categorie concettuali e strumenti di garanzia, in P. Carrozza, A. Di Giovine, G.F. Ferrari (a cura di), Diritto costituzionale comparato, Lecce, Editori Laterza, 2009, p. 1007

13 William Sharp McKechnie, Magna Carta: a commentary on the Great Charter of King John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, pp. 120-129 ; William S. Holdsworth, A history of english law vol. II, Londra, Methuen and Co., 1922, pp. 207-210; Alessandro Torre, Tutti gli uomini di re Giovanni,

in Alessandro Torre (a cura di), Magna Carta, Macerata, Liberilibri, 2008, pp. XXXI-XXXII

14 William Sharp McKechnie, Magna Carta:a commentary on the Great Charter of king John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, p. 117 e Alessandro Torre, Tutti gli uomini di re Giovanni, in Alessandro Torre (a cura di), Magna Carta, Macerata, Liberilibri, 2008, pp. XVII-XVIII

15 William Sharp McKechnie, Magna Carta:a commentary on the Great Charter of king John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, p. 114; William S. Holdsworth, A history of english law vol. II, Londra, Methuen and Co., 1922, p. 211

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uomini liberi le libertà concesse, l’articolo 15 e il 6016, ma anche nel preambolo dove in conclusione

si fa menzione di “altri nostri leali sudditi).

Il testo, che vedeva tra i promotori anche l’arcivescovo di Canterbury, che fu il protagonista dello scontro tra il sovrano e la Santa Sede e che fu colui che suggerì la carta di Enrico I come strumento per ottenere le proprie pretese da parte di re Giovanni, fu firmato a Runnymede , località che si poneva a metà tra Windsor dove aveva la sua capitale re Giovanni e Staines, dove si erano acquartierati i baroni, il 15 giugno 1215.

Tra le varie clausole possiamo individuare un contenuto eterogeneo.

Innanzitutto alcune norme contenevano garanzie a favore del clero; tra queste dobbiamo ricordare l’articolo 1 in cui si afferma esplicitamente che “ la chiesa inglese sarà libera e che i suoi diritti saranno integri e le sue libertà inviolate”17, andando a ripristinare quella libertà illimitata stabilita

nel 1136 da re Stefano e che era venuta meno con le Constitutions of Clarendon di Enrico II; inoltre nello stesso articolo re Giovanni prometteva di non intromettersi nelle nomine delle cariche

ecclesiastiche, cosa che aveva scaturito il contrasto tra monarchia e papato, ponendo una conclusione a tale contesa. La totale autonomia concessa alla chiesa dal primo articolo della versione originale scomparve già con le successive stesure del 1216 e del 1217 in seguito al rafforzamento della posizione dell’aristocrazia feudale18.

Agli ecclesiastici fu riconosciuto anche un ruolo nell’Amministrazione della giustizia, come risulta dall’articolo 55 in cui si richiedeva la presenza dell’arcivescovo di Canterbury, e di altri

ecclesiastici da lui indicati, nelle questioni riguardanti eventuali esazioni ritenute ingiuste, ma anche questa prescrizione sarà eliminata nelle successive revisioni19.

Altre norme contengono garanzie che possono essere considerate a favore della classe baronale. La maggior parte di queste norme avevano lo scopo di tutelare le posizioni economiche e giuridiche, non solo dei maggiori feudatari, ma anche dei vassalli minori nei confronti delle pretese esose ed illegittime della corona: in particolare, abbiamo norme che regolavano la successione nei feudi o tutelavano i diritti degli eredi minori., ma ci sono anche norme che limitavano il potere del re nell’ambito della tassazione, come gli articoli 12 e 14, che impedivano al sovrano di imporre esazioni straordinarie senza l’approvazione del Commune Concilium, formato dai principali personaggi del regno provenienti dalla chiesa e dall’aristocrazia feudataria20.

Molto più importanti, anche per ciò che hanno lasciato nel sistema giuridico del Common Law, sono le clausole relative all’amministrazione della giustizia: sono, infatti, numerose le clausole che hanno introdotto, almeno in forma primitiva, istituti che oggi sono pienamente consolidati nel sistema di Common Law e non solo.

In primo luogo guardiamo agli articoli 17 e 18, il primo dei quali stabilisce che i procedimenti di Common Pleas (quei procedimenti in cui non sono coinvolti interessi del sovrano) non

“seguiranno” più il re ma si terranno in un luogo fisso, andando a porre la prima pietra per la stabilizzazione delle corti; fino ad allora infatti il centro della giustizia, soprattutto dopo le riforme di Enrico II, era la corte del sovrano, che all’epoca non aveva un luogo fisso ma si muoveva in continuazione rendendo la dispensazione della giustizia macchinosa, grazie a questo articolo invece la si rende più accessibile. L’articolo 18 stabilisce che in presenza di determinati procedimenti di

16 Alessandro Torre, Tutti gli uomini di re Giovanni, in Alessandro Torre (a cura di) Magna Carta, Macerata, Liberilibri, 2008, p. LII

17 Magna Carta, articolo 1

18 William Sharp McKechnie, Magna Carta: a commentary on the Great Charter of king John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, pp. 191-195; Alessandro Torre, Tutti gli uomini di re Giovanni, in Alessandro Torre (a cura di), Magna Carta, Macerata, Liberilibri, 2008, pp. XL-XLI

19 Alessandro Torre, Tutti gli uomini di re Giovanni, in Alessandro Torre (a cura di), Magna Carta, Macerata, Liberilibri, 2008, p. XLII

20 William Sharp McKechnie, Magna Carta: a commentary on the Great Charter of king John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, pp. 115-117, 231-240 e 248-255; Alessandro Torre, Tutti gli uomini di re Giovanni, in Alessandro Torre (a cura di), Magna Carta, Macerata, Liberilibri, 2008, pp.

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interesse prettamente locale, Nova Disseisina (rimedio contro recenti spossessamenti), Morte Antecessoris (rimedio a favore di un erede che fosse stato spossessato della terra) e Ultima Presentacione (indica l’ultimo possessore di una terra e colui che ha diritto a indicare il parroco della chiesa che si riferisce a quella terra) -le cosiddette Petty Assizes introdotte da Enrico II- dovessero svolgersi nella contea in cui vi è l’interesse verso il procedimento, permettendo una maggior possibilità di accesso alla giustizia, e, soprattutto, andando a sfilare la pronuncia della giustizia alle corti feudali, come era usuale fino ad allora, affidandola a giudici itineranti e quattro cavalieri della contea stessa, rappresentando una ulteriore vittoria della giustizia reale su quella feudale, dal momento che i giudici itineranti erano inviati dal re. Questa norma è sintomo della professionalizzazione di coloro che erogano la giustizia, processo che fa i suoi primi passi in questo contesto. A conferma di ciò possiamo individuare altre clausole contenute nella Magna Carta, come l’articolo 24 per cui il re si impegnava a non nominare giudici che fossero funzionari regi e ancora di più l’articolo 45, secondo cui coloro che venivano nominati giudici dovessero conoscere la legge. Bisogna guardare ad altri tre articoli che esprimono un principio che è ancora vigente negli

ordinamenti moderni; sono gli articoli 20, 21 e 22. Queste norme, in particolar modo l’articolo 20, esprimono il principio della proporzionalità della punizione rispetto al reato; anche in questo caso tale principio non era espresso solamente a favore dei conti e dei baroni (articolo 21) o degli ecclesiastici (articolo 22) ma anche a favore di tutti gli uomini liberi, rappresentando un limite al rischio di indebito arricchimento del re.

L’articolo 20 affermava anche che la comminazione della pena non dovesse arrivare al punto da privare i soggetti dei propri mezzi di sussistenza, con un chiaro vantaggio anche delle casse dello stato mantenendo una fonte di incasso tributario. Infine l’articolo 20 concludeva affermando che nessuna “ammenda sia comminata se non sulla base di una attestazione prestata sotto giuramento da uomini retti del vicinato”21 rappresentando questa parte un antesignano del Trial by Jury. Questo

articolo si riferiva anche ai cosiddetti “villani”, soggetti che nel sistema feudale erano considerati servi nei confronti del loro signore ma liberi uomini per gli altri e che erano esclusi da molte altre norme in cui si fa riferimento agli uomini liberi, tuttavia questo articolo aveva valore nei confronti di questa categoria esclusivamente per quelle situazioni in cui la punizione sarebbe stata comminata dall’autorità regia, lasciando in vigore, nei casi in cui la punizione era prerogativa del loro signore feudale, la pratica tradizionale, come si dice esplicitamente nell’articolo 16 della versione del 1217. Un altro gruppo di articoli, che esprimono concetti ancora oggi presenti e rilevanti, è quello formato dagli articoli 38, 39 e 40. Sia l’articolo 38 che l’articolo 40 rappresentavano una tutela nei confronti della possibile arbitrarietà dei funzionari regi e dei dispensatori della giustizia, infatti nel primo caso si richiedeva una testimonianza attendibile per incriminare qualcuno, mentre nel secondo si fissava il diritto di chiunque di ottenere un giudizio e soprattutto di ottenerlo in tempi ragionevoli.

Ben più rilevante è l’articolo 39 (che nella versione definitiva del 1225 diventerà l’articolo 29); nelle intenzioni dei baroni questo articolo aveva un carattere fortemente reazionario, poiché voleva sottrarre al sovrano la possibilità di giudicare i membri dell’aristocrazia, ma nei fatti questa volontà si concretizzò solo in parte: nei procedimenti civili essi continuarono ad essere giudicati da

magistrati reali grazie all’escamotage ideato da Peter des Roches nel 1233 secondo cui i giudici del re, qualunque fosse lo status d’origine, dovessero essere considerati pari dei baroni. In questo articolo possiamo individuare la nascita del Trial by Jury, infatti si afferma esplicitamente che nessun uomo libero (ancora una volta dobbiamo notare che anche questo articolo non si riferisce solo alle classi dirigenti dell’epoca ma anche la classe emergente della borghesia) potrà essere punito se non in seguito ad un legittimo giudizio di suoi pari o sulla base della legge del regno. In questi articoli possiamo individuare i primi passi del Due Process of Law, ovvero del giusto processo.

Queste norme, fondamentali per la salvaguardia delle libertà concesse, non saranno cancellate nelle stesure successive, rendendo questo documento resistente a differenza delle carte precedenti a

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prescindere dal rispetto effettivo del testo, caratteristica che ha reso la Magna Carta così importante per la storia dei diritti nel Regno Unito.

Un breve accenno deve essere fatto in riferimento agli articoli 41 e 42 che introducevano il

principio di libera circolazione, correlato dalla previsione dell’incolumità dei viaggiatori, non solo per gli inglesi ma anche per i viaggiatori stranieri. Questi articoli avevano un’importante valenza pratica in quanto si facilitavano gli scambi commerciali, sottolineando il carattere pragmatico e non solo teorico della Magna Carta22.

Infine, non possiamo non menzionare una norma molto particolare per l’epoca, l’articolo 61. Questo articolo aveva come scopo introdurre uno strumento di garanzia, non solo delle libertà introdotte dalla Magna Carta, ma, più in generale, anche per tutte le leggi e le consuetudini del regno.

Questo strumento era un comitato formato da 25 baroni, al quale erano affidati poteri molto incisivi: qualora il sovrano non avesse rispettato quanto da lui concesso nella Magna Carta e non emendasse il proprio comportamento, in seguito a denuncia presentata da almeno quattro membri del comitato, entro 40 giorni, si prevedeva una sorta di diritto ad opporsi al comportamento illegittimo del

sovrano; l’articolo 61 parlava chiaramente del dovere dei 25 baroni, con l’eventuale aiuto “degli uomini dell’intero regno” di far recedere il sovrano dal comportamento tenuto con ogni mezzo possibile.

Molti hanno visto in questo comitato il predecessore di quello che poi diventerà il parlamento inglese. Questo istituto tuttavia non durò alle stesure del 1216 e del 1217, molto probabilmente perché il suo ruolo di garante delle leggi e delle libertà non era più necessario durante gli anni della minore età di Enrico III, quando la reggenza fu affidata ai baroni, alcuni dei quali erano tra coloro che avevano partecipato alla stesura della carta. Con le lotte tra corona e baroni ci furono tentativi di reintrodurre questo istituto, finché alla fine del tredicesimo secolo non si predilesse la formula del parlamento, quindi un organismo collegiale più ampio nel numero di membri e nell’ambito di formazione, in quanto anche soggetti della borghesia potevano essere eletti23.

Nonostante la grande attenzione e riverenza con cui guardiamo oggi la Magna Carta, la sua vita durò tuttavia molto poco. Pochi mesi dopo la sua stesura re Giovanni proclamò che egli non era obbligato al rispetto delle clausole della Magna Carta poiché queste gli erano state estorte con la forza, riportando l’Inghilterra in una fase di guerra civile, fase in cui il comitato dei baroni ebbe un ruolo molto attivo nell’organizzazione dell’opposizione nei confronti del sovrano, come d’altronde la Magna Carta prevedeva.

Questa decisione del re di disattendere alle promesse fatte non si deve, però, considerare una scelta unilaterale, ma dobbiamo individuare un ruolo del pontefice in questa situazione, nonostante tra i promotori del documento dobbiamo annoverare l’arcivescovo di Canterbury, uomo oggetto delle lotte tra la corona e la Santa Sede, e la presenza tra i testimoni, indicata nel preambolo, di un uomo vicino al pontefice, suo nunzio apostolico, ovvero Pandulf vescovo di Norwich. Papa Innocenzo III non vedeva di buon occhio tale documento, ritenendolo un attacco al ruolo di signore feudale dell’Inghilterra e per fare pressione sul re, affinché disconoscesse l’atto, arrivò a minacciarlo con sanzioni canoniche oltre che scomunicare i baroni che sostenevano il documento24.

Nonostante il mancato rispetto materiale e la breve vigenza della carta dobbiamo individuarne come caratteristica importante, che le ha permesso di distinguersi dalle carte precedenti e di essere

22 William Sharp McKechnie, Magna Carta: a commentary on the Great Charter of king John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, pp. 261-282, 284-294 e 369-407; Alessandro Torre, Tutti gli uomini di re Giovanni, in Alessandro Torre (a cura di), Magna Carta, Macerata, Liberilibri, 2008, pp.

XLIV-LVIII

23 William Sharp McKechnie, Magna Carta: a commentary on the Great Charter of king John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, pp. 465-477; Alessandro Torre, Tutti gli uomini di re Giovanni, in Alessandro Torre (a cura di), Magna Carta, Macerata, Liberilibri, 2008, pp. LXII-LXVI; Barbara

Guastaferro, Magna Carta, Common Law constitutionalism e mutamenti della funzione giurisdizionale, in

www.edizioniesi.it, 2016, pp 3-5

24 Alessandro Torre, Tutti gli uomini di re Giovanni, in Alessandro Torre (a cura di), Magna Carta, Macerata, Liberilibri, 2008, pp. XX-XXIV

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considerata il punto di partenza di molti diritti che sono giunti fino a noi, la dinamicità che le ha permesso grazie alle varie stesure di adattarsi alle diverse situazioni e cambiamenti.

La situazione cambiò molto velocemente. Poco più di un anno dopo l’accettazione della Magna Carta e quindi il suo rifiuto, nell’ottobre 1216, Giovanni Senzaterra morì, lasciando il trono al figlio ancora minorenne, Enrico III, il quale fu affidato a reggenti provenienti dalla classe baronale, tra i quali alcuni avevano partecipato alla stesura della Carta.

Inizia fin dal 1216 la lunga serie di confirmationes, che andarono a modificare anche in maniera pesante la struttura e il contenuto ma non lo spirito che ormai era ben radicato nei soggetti che lo avevano voluto.

La prima delle conferme, che fu piuttosto una nuova stesura dato che da 63 articoli si passa a 42, vede una riaffermazione del potere della classe feudale, che aveva in mano la reggenza, a discapito delle prerogative della chiesa e della corona contenute nella versione originaria. Poco tempo dopo questa seconda versione ce ne fu una terza, nel 1217, a suggellare la conclusione di quella che è stata chiamata “Prima guerra dei baroni”. Di questa nuova stesura dobbiamo però sottolineare una separazione del contenuto, vengono meno quelle clausole e quei riferimenti che riguardano le foreste e, in generale, le risorse terriere, che furono inserite in una seconda, specifica, carta nota come “Carta de Foresta” che fu complementare con la carta principale.

Una terza versione fu redatta con la maggiore età di Enrico III, nel 1225, in una versione nota come “Carta Parva” poiché di lunghezza ridotta, che possiamo considerare la versione definitiva,

utilizzata come riferimento nei secoli successivi. Inizia a partire da questa conferma/riedizione una pratica che sarà seguita anche dai successori di Enrico III, promettere una conferma della carta per ottenere in cambio dai baroni del regno la possibilità di fissare un contributo speciale ai sudditi, e lo stesso sovrano un decennio circa dopo, nel 1237, riconfermò nuovamente la carta che pochi anni prima lui stesso aveva concesso in cambio dei ricavati derivanti da una tassazione speciale. È a partire da questo momento che la Magna Carta entra definitivamente nella disciplina del Common Law, poiché le sue clausole sono direttamente utilizzabili di fronte alle corti.

Anche sotto Edoardo I abbiamo una nuova conferma della Carta, nel 1297 in un periodo di nuova tensione relativa agli ingenti tributi richiesti, tensione che portò non solo ad una riconferma della Carta ma anche l’emanazione di una importante norma per la storia inglese, lo Statutum de Tallagio non Concedendum, che affermava chiaramente che il re non poteva richiedere nuove esazioni che non avessero ottenuto il consenso di tutti, ecclesiastici, nobili, cavalieri, borghesi e uomini liberi, come afferma il primo articolo dello statuto; ricordiamo che sono gli anni di nascita del parlamento istituito ufficialmente nel 1295. A differenza delle conferme precedenti non comportò importanti modifiche andandosi a stabilizzare sulla versione del 1225 e fu accompagnato dalla dichiarazione del re in cui affermava di essere vincolato a tale atto25.

A conferma, poi, dell’importanza che la Magna Carta aveva assunto nella società inglese, dobbiamo menzionare uno statuto del 1368 nel quale si afferma la nullità di quelle leggi che fossero contrarie alla Magna Carta26.

Oltre alle Confirmationes di cui sopra altre ne susseguirono (Edward Coke, grande giurista e parlamentare inglese, ne contò 32) fino al 1423 quando, alle soglie di una nuova guerra civile, Enrico VI si accodò per l’ultima volta ai suoi predecessori.

25 William Sharp McKechnie, Magna Carta: a commentary on the Great Charter of king John, with an historical

introduction, Glasgow, James Maclehose and Sons, 1914, pp. 139-159; Alessandro Torre, La Magna Carta:un fondamentale contributo alla costruzione della Common Law e dello stato inglese, in Alessandro Torre (a cura di), Common Law, protagonisti e idee nella storia di un sistema giudiziario, Santarcangelo di Romagna, Maggioli

editore, 2015, pp. 42-45, 51-52 e 59-60

26 Barbara Guastaferro, Magna Carta, Common Law constitutionalism e mutamenti della funzione giurisdizionale, in

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3. XV-XVI SECOLO

Per poco più di un secolo non ci furono grandi rivolgimenti. I sovrani continuarono a confermare la Magna Carta fino al 1423, quando sul trono sedeva Enrico VI, sotto il cui regno iniziò la guerra civile, nota sotto il nome di Guerra delle Due Rose, che prende il nome dagli stemmi delle famiglie che si contendevano il trono, entrambe discendenti dalla dinastia dei Plantageneti. Le famiglie in questione erano quella dei Lancaster, alla cui dinastia apparteneva Enrico VI, e la famiglia degli York, discendente da Edoardo III d’Inghilterra.

Questo conflitto durò 30 anni e dopo alterne vicende la guerra civile si concluse in seguito alla battaglia di Bosworth, combattuta il 22 agosto 1485, in cui si scontrarono gli eserciti di Riccardo III, rappresentante della famiglia degli York, che aveva preso il potere in seguito alla morte del fratello, usurpando il trono ai propri nipoti, ed Enrico Tudor, appartenente ad una famiglia che discendeva dalla dinastia dei Lancaster. Quest’ultimo ebbe la meglio salendo al trono come Enrico VII e dando inizio all’epoca Tudor.

Durante i regni dei sovrani di questa dinastia dobbiamo ravvisare un rafforzamento del ruolo del sovrano (in particolar modo durante i regni di Enrico VIII ed Elisabetta I), attraverso l’utilizzo delle prerogative regie, strumento che tante problematiche portò in seguito; utilizzo che fu, però, sempre accettato dalle controparti costituzionali dell’epoca, in particolare dal parlamento che durante questi regni mantenne il proprio ruolo di controllore del sovrano in materia tributaria e che perfezionò i propri procedimenti d’intervento (elemento che permise in seguito al parlamento di tenere testa al sovrano nelle fasi più acute del suo scontro con il sovrano nel diciassettesimo secolo). Ciò che è certo è che nessun sovrano di questo periodo mise in discussione il ruolo del parlamento o la sua esistenza, accettando il fatto che ormai la costituzione inglese prevedesse una collaborazione tra questi due organi dello stato (sebbene la corona si trovasse ancora in una posizione di predominio). Il regno di Enrico VIII deve essere ricordato soprattutto per lo scisma della chiesa inglese dalla chiesa cattolica romana, creando la chiesa anglicana che prevedeva, e ancora oggi prevede, il sovrano a capo della stessa: anche in passato i sovrani inglesi cercarono di rendere la chiesa inglese meno dipendente da Roma, ma Enrico VIII decise di arrivare al livello estremo nei suoi rapporti con il Papa, separazione totale tra la chiesa anglicana e la Santa Sede. La contrapposizione con coloro che decisero di rimanere fedeli alla Santa Sede col tempo sfociarono anche in episodi di vera e propria intolleranza e persecuzione, dovuti anche a complotti ideati dai cattolici con l’appoggio del Pontefice per far tornare l’Inghilterra tra le nazioni cattoliche, soprattutto durante il regno di Elisabetta I, considerata dai cattolici figlia illegittima di Enrico VIII e quindi non legittimata a regnare (nota è la questione legata a Maria Stuart, regina di Scozia, parente di Elisabetta I e

considerata dai cattolici la legittima regina d’Inghilterra in quanto fedele al credo di Roma). Questa intolleranza si tramutò a livello giuridico in restrizioni dei diritti politici e civili che rimasero fino al diciannovesimo secolo.

4. I PRIMI SOVRANI STUART

La dinastia Tudor si estinse all’inizio del diciassettesimo secolo.

L’ultima regina appartenente a questa dinastia fu Elisabetta I, la quale morì nel 1603, nubile e senza figli. Il rischio che la sua morte aprisse nuove lotte per la conquista della corona la portarono ad indicare come suo successore un suo lontano parente, cioè il re di Scozia (figlio di Maria Stuart), Giacomo VI, che d’ora in avanti sarà meglio noto come Giacomo I d’Inghilterra. Nonostante il sovrano fosse lo stesso i due paesi rimasero separati; la loro unione avvenne solo un secolo dopo circa.

Gli anni di governo dei primi re Stuart si caratterizzarono per una costante lotta tra il parlamento e la corona, in particolar modo in relazione alla possibilità del re di governare esclusivamente tramite

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le prerogative regie, come era già accaduto in larga parte durante i regni Tudor, esautorando il parlamento da quelli che erano i suoi compiti.

Fin dall’inizio del regno di Giacomo I emersero tensioni con il parlamento che nei regni precedenti erano impensabili: il parlamento rivendicava tutta una serie di poteri e prerogative, derivategli dai regni precedenti, che invece il re riteneva che spettassero alla sua persona. Giacomo I era vicino ad una visione assolutista del potere, in cui il sovrano era al centro del governo del paese ed era libero di prendere decisioni senza alcuna restrizione legittima da parte di un altro organo dello stato. Questa posizione, che oggi è ovviamente retrograda e oscurantista, era, tuttavia, vista come una nuova e moderna teoria politica per l’epoca, al posto della visione medievale dello stato, in cui il sovrano gestiva lo stato con la partecipazione di assemblee a cui partecipavano rappresentanti delle diverse classi sociali, che era vista dai sostenitori della teoria assolutista come una modalità

antiquata e che aveva portato le nazioni solo all’anarchia e non ad una situazione di stabilità e forza. Inoltre la teoria sostenuta da Giacomo I era, nella pratica, il modello a cui iniziarono ad ispirarsi gli stati del continente (basti pensare che il diciassettesimo secolo, in Francia, vide l’ultima

convocazione per oltre un secolo degli stati generali nel 1614 e fu il secolo di Luigi XIV). Quindi questa lotta intestina tra diversi poteri costituzionali inglesi deve essere vista come un conflitto tra il nuovo, che per assurdo era la posizione del re, e il vecchio sistema di governo, rappresentato dal parlamento, spalleggiato dai common lawyer, per il mantenimento dello stato così come era nato e formatosi nei secoli medievali27.

Tra le varie questioni oggetto di scontro tra le due parti particolarmente sentita era quella relativa all’imposizione fiscale, in particolar modo su chi spettasse stabilire nuove tasse, se esclusivamente al re oppure se questo doveva necessariamente avere il consenso del parlamento. Secondo il

parlamento la costituzione (non scritta) inglese prevedeva che il re potesse imporre nuove tasse solo con il suo intervento, che doveva dare il consenso alle nuove imposizioni; il re tuttavia non la vedeva allo stesso modo, stabilendo la sua libertà di movimento nella ricerca di risorse per lo stato in ragione delle prerogative regie.

Ci furono vari tentativi di conciliazione tre le due parti, ma nessuno di questi andò a buon fine, perciò la mossa successiva di Giacomo I fu quella di sciogliere il parlamento nel 1610 il quale non fu riconvocato per undici anni (con una sola eccezione nel 1614). Il re era convinto che grazie alle sue prerogative sarebbe comunque riuscito a trovare risorse per portare avanti l’operato del

governo. Così non fu e nel 1621 il re fu costretto a convocare un nuovo parlamento per poter imporre nuove tasse ed ottenere le risorse necessarie al funzionamento dello stato.

Anche con questo nuovo parlamento si ripeté la stessa situazione conflittuale che c’era stata con il precedente; in questo caso il conflitto scoppio sulla politica estera, in particolar modo sulla

possibilità delle Camere di occuparsene: il re sosteneva che la politica estera era una prerogativa della corona (alla stessa conclusione era giunta anche Elisabetta I, che aveva proibito alla Camera dei Comuni di occuparsene, senza che ci fosse alcuna protesta da parte della stessa); inoltre il re sottolineò che i privilegi di cui il parlamento godeva provenivano dal re e non erano stabiliti per sempre, precisando una sorta di subordinazione dei poteri del parlamento rispetto a quelli della corona. La risposta del parlamento non si fece attendere: i parlamentari presentarono una Protestation in cui affermavano che i loro privilegi discendevano dai sudditi inglesi.

A questa risposta, Giacomo I decise di sciogliere nuovamente il parlamento, dopo neanche un anno dalla sua convocazione e fece arrestare alcune tra le figure principali del partito parlamentare (tra questi Coke e Pym). Ma nel 1624, ancora una volta impossibilitato a governare senza risorse e impossibilitato ad ottenere tali risorse senza la cooperazione del parlamento, fu costretto non solo a convocare il parlamento, ma anche a fare delle concessioni relative alla politica estera: solo così ottenne i finanziamenti necessari al perseguimento delle sue politiche28.

27 William S. Holdsworth, A history of english law vol. VI, Londra, Methuen and Co., 1922, pp. 70-74

28 Ann Lyon, Constitutional history of the United Kingdom, Londra, Cavendish Publishing, 2003, pp. 202-204; William S. Holdsworth, A history of english law vol VI, Londra, Methuen and Co., 1922, pp. 49-55

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Nonostante questo continuato clima di conflitto e le provocazioni che si susseguirono da entrambe le parti e nonostante la convinzione di Giacomo I di regnare “per grazia di Dio”, egli accettò alcuni compromessi che la particolare situazione inglese gli presentava, riuscendo a non arrivare ad un punto tale in cui non fosse più possibile tornare indietro. Questa sua capacità non la dimostrò il suo successore29.

Nel 1625 Giacomo I morì e gli succedette il figlio Carlo I, il quale mantenne un atteggiamento nei confronti del parlamento uguale a quella del padre.

Nel 1626, sulle orme del padre, dissolse il parlamento, e per riuscire ad ottenere le risorse

necessarie per lo svolgimento dell’attività di governo guardò alle stesse misure extraparlamentari di Giacomo I. Queste misure consistevano principalmente nella richiesta di prestiti forzati ai sudditi. Queste misure furono fortemente contrastate da una larga parte della popolazione e portarono al famoso “Darnell’s Case” o “Five Knights’ Case”30 del 1627: cinque cavalieri (Thomas Darnell,

John Corbet, Walter Earle, John Heveningham e Edmund Hampden) si rifiutarono di pagare il prestito, e su ordine del re furono imprigionati e la loro richiesta al King’s Bench per un Writ of Habeas Corpus fu rifiutata, poiché, secondo il giudice, la possibilità di imprigionare un suddito senza il controllo di un giudice rientrava nelle prerogative regie nel caso di sicurezza nazionale, e il re era l’unico che poteva valutare quando fosse necessario. Il problema tuttavia, in questo caso, non era se il re (o il suo consiglio) potesse fare imprigionare o meno un suddito, cosa che non era in alcuna maniera contestata (anche il parlamento, infatti, aveva un tale potere) e che era avvenuta nei regni precedenti, ma piuttosto dai parlamentari e common lawyer era contestata la mancanza delle motivazioni per l’arresto che impediva un effettivo controllo da parte dell’autorità giudiziaria: negli ordini di arrestare i cinque cavalieri infatti si indicava solo “per speciale mandatum regis”, senza ulteriore specificazione, ma i giudici sostennero la tesi della prerogativa regia31.

L’effetto della decisione del “Darnell’s Case” venne meno nel periodo del Long Parliament, nella fase più acuta del conflitto tra corona e parlamento, quando questo abolì le corti legate al sovrano, aumentando la giurisdizione delle corti di Common Law32.

Poiché nel marzo 1628 Carlo I fu costretto a convocare un nuovo parlamento, sempre per il problema dell’assunzione dei fondi necessari, alla decisione di questo caso seguì un dibattito parlamentare molto acceso per decidere come controbattere al contenuto della sentenza, e per trovare un modo con cui evitare gli abusi della corona (a cui prese parte anche uno dei difensori dei cavalieri imprigionati, Selden, che era anche uno dei Leader del parlamento),la questione di scontro riguardò in particolar modo il tipo di provvedimento da prendere: il parlamento si divise tra coloro che preferivano lo strumento della Petition e chi invece voleva una vera e propria legge, in modo da vincolare formalmente al rispetto delle norme del regno anche il re.

Alla fine prevalse la linea della Petition, anche perché in caso contrario si rischiava di aprire uno strappo ancora profondo tra questi due organi, poiché difficilmente Carlo I avrebbe dato il proprio assenso ad una tale legge. Per la precisione i parlamentari subordinarono l’approvazione di nuovi fondi a favore del re all’accoglimento del documento da loro presentato.

Nacque la Petition of Right del 1628.

Con questo documento i parlamentari vollero risolvere alcune dei problemi che affliggevano il paese all’epoca, eliminando alcune storture e abusi del sistema portate avanti dal governo del re: possiamo leggere nell’atto, tra le richieste principali, l’imprigionamento senza l’indicazione dei motivi e la possibilità di liberazione su cauzione, l’aumento e l’imposizione di nuove imposte senza il consenso del parlamento o l’utilizzo in tempo di pace della legge marziale per punire i sudditi.

29 Ann Lyon, Constitutional history of the United Kingdom, Londra, Cavendish Publishing, 2003, p. 198 30 Darnell’s Case, 3 How. St. Tr. 1 (K. B. 1627)

31 Anna Lyon, Constitutional history of the United Kindom, Londra, Cavendish Publishing, 2003, pp. 207-208; Frances Helen Relf, The Petition of Rights, Minneapolis, The University of Minnesota, 1917, pp. 1-10 32 William S. Holdsworth, A history of english law vol. VI, Londra, Methuen and Co., 1922, p. 112

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Il contenuto della Petition non introduceva niente di nuovo nella normativa inglese dell’epoca, semplicemente ribadiva principi antichi, già esistenti nel sistema inglese33.

Nella Petition of Right si fa rifermento alla Magna Carta, che torna ad essere una protagonista del contesto politico-giuridico inglese, dopo essere stata dimenticata in seguito alle guerre civili del quindicesimo secolo; si fa inoltre menzione dello Statutum de Tallagio non concedendo di Edoardo I, nonché ad ogni altra legge e libertà del regno.

I parlamentari non chiedevano nuove libertà o nuove limitazioni al potere della corona ma solamente il rispetto di quello che i testi “costituzionali” dell’Inghilterra già concedevano34.

Carlo I accettò tali condizioni, senza però troppa convinzione. Le tensioni tra le due controparti rimasero alte, e infatti poco tempo dopo, il 4 marzo 1629, Carlo I prese la decisione di sciogliere di nuovo le camere facendo arrestare alcuni dei leader del partito parlamentare e, come successe durante il regno del padre, il parlamento non fu riconvocato per undici anni.

Come l’arresto dei parlamentari oppositori dimostra, la Petition non pose fine agli abusi della corona. Il cavillo che i giuristi schierati con il sovrano trovarono fu che il documento preparato dal parlamento ribadiva semplicemente dei diritti e delle norme che erano già esistenti e non poneva niente di nuovo. Nella discussione che precedette la formazione della Petition of Right, i

parlamentari, incerti sulla forma che l’atto dovesse avere scelsero una Petition, al posto di una legge che avesse un valore generale, questa scelta si ripercosse sul suo utilizzo nelle corti, in quanto i giudici interpretarono questo documento in maniera ristretta, applicandolo solo alle situazioni che erano esplicitamente richiamate35.

La Petition of Right non può, però, essere considerata un fallimento sulla strada delle libertà e dei diritti; anche se nell’immediato il suo contenuto non portò alla risoluzione effettiva dei problemi e degli abusi che voleva risolvere, deve essere considerata un documento importante per i principi in esso contenuti e che furono pochi decenni dopo sviluppati nel Bill of Rights (non possiamo inoltre dimenticare che Edward Coke considerava il documento come una parte della Magna Carta). Nel 1640, dopo 11 anni dall’ultima riunione, il parlamento fu convocato: questo durò tre settimane, dal 13 aprile al 5 maggio 1640, e per questo è conosciuto come Short Parliament, sempre perché lo scopo principale del parlamento era l’eliminazione degli abusi da parte del governo, e solo in seguito all’accoglimento di tale richiesta il parlamento avrebbe votato nuovi fondi per il governo. A questo parlamento ne seguì presto un altro, nel novembre dello stesso anno, che è stato chiamato Long Parliament, poiché rimase in carica per vent’anni, dal 1640 al 1660, passando attraverso ostacoli e alterne vicende. Il Long Parliament fu capeggiato da John Pym, un oppositore delle prerogative regie e leader del partito parlamentare. Ancora una volta l’attenzione del parlamento si rivolse ai soprusi perpetrati dal governo inglese e dalla corona nei confronti dei sudditi inglesi, contravvenendo a quelle che erano le leggi del paese. La risposta del parlamento, come in passato, fu mettere sotto accusa i ministri, i consiglieri e i sostenitori del re, in particolar modo il conte di Strafford prima e successivamente nel 1645 William Laud, Arcivescovo di York; fu presentato un Bill of Attainder, con il quale coloro che erano accusati e condannati per reati molto gravi, come il tradimento, venivano privati dei loro diritti civili.

33 Ann Lyon, Constitutional history of the United Kingdom, Londra, Cavendish Publishing, 2003, pp. 207-209; Frances Helen Relf, The Petition of Rights, Minneapolis, The University of Minnesota, 1917, pp. 20-43; William S. Holdsworth, A history of english law vol. VI, Londra, Methuen and Co., 1922, pp. 102-103; Salvatore Bonfiglio,

Fra antica costituzione e costituzionalismo moderno, in Salvatore Bonfiglio (a cura di), The Petition of Right,

Macerata, Liberilibri, 2009, pp. XIX-XXXII

34 Ann Lyon, Constitutional history of the United Kingdom, Londra, Cavendish Publishing, 2003, pp. 207-209; William S. Holdsworth, A history of english law vol VI, Londra, Methuen and Co., 1922, pp. 102-103; Salvatore Bonfiglio, Fra antica costituzione e costituzionalismo moderno, in Salvatore Bonfiglio (a cura di), The Petition of

Right, Macerata, Liberilibri, 2009, pp. XXII-XXVII

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Contemporaneamente il parlamento presentò una proposta molto rivoluzionaria per l’epoca, in quanto affermava il principio secondo cui la convocazione, la proroga e la scioglimento del parlamento non fosse una prerogativa del sovrano: questa legge prende il nome di Triennal Act. Secondo questa legge tra la dissoluzione di un parlamento e la convocazione di un altro non

possono trascorrere più di tre anni, nel caso questo succedesse le autorità locali si muoverebbero per svolgere delle elezioni per la formazione del nuovo parlamento e in casi estremi, se anche le

autorità locali fossero inerti in tal senso, spetterebbe agli stessi elettori agire; inoltre la legge prevedeva che un parlamento non poteva essere prorogato per più di tre anni; nel caso di mancato rispetto della norma, questo parlamento si sarebbe sciolto automaticamente e sarebbero seguite nuove elezioni. Paradossalmente, chi non rispettò la norma fu lo stesso Long Parliament che aveva approvato questa legge, che fu prorogato per un periodo complessivo di 20 anni. Una volta che nel 1660 dopo il periodo del Commonwealth la dinastia degli Stuart ritornò al trono il Triennal Act fu, temporaneamente, cancellato.

Dopo il Bill of Attainder nei confronti di Strafford nel 1640 la situazione si evolvette molto velocemente fino ad arrivare alle 19 Propositions, presentate al re dal parlamento nel 1642, con le quali venivano presentate una serie di richieste che andavano a svuotare la corona delle sue

prerogative e dei suoi poteri e il re della sua libertà di movimento; queste richieste furono viste, ed erano a tutti gli effetti, come un attacco alla sovranità del re e, secondo i costituzionalisti realisti, un attacco alla costituzione dell’Inghilterra così com’era stata fino a quel momento, basandosi cioè su un sistema di governo misto (in cui, senza dubbio, la corona aveva un peso maggiore del

parlamento). La risposta di Carlo I non si fece attendere e, com’era prevedibile, consistette in un netto rifiuto36.

5. LA RIVOLUZIONE INGLESE

Il 1642 è convenzionalmente l’anno in cui si dà inizio alla prima rivoluzione inglese, in cui il parlamento, spalleggiato dal New Model Army, riuscirono ad ottenere gran parte del potere in Inghilterra a discapito della corona. Carlo I non si arrese fino al 1646 quando, ritenendo la sconfitta inevitabile, si consegnò ai suoi nemici e fu condotto di fronte al parlamento.

Nel frattempo si venne a creare una spaccatura tra i parlamentari, che all’epoca erano espressione del conservatorismo, e il suo esercito, guidato da Oliver Cromwell, che invece stava prendendo la strada del radicalismo. In questi anni emerse, in particolare, un gruppo, chiamato “i Livellatori” che aveva come ideologo John Lilburne; il 28 ottobre 1647 l’esercito presentò un documento al

parlamento, l’Agreement of the People, un documento su cui i Livellatori avevano avuto una forte ispirazione: l’Agreement infatti chiedeva lo scioglimento del Long Parliament e la sua durata biennale, una costituzione di stampo repubblicano, libertà religiosa, suffragio universale e l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Questa proposta fu bocciata dal parlamento. Nel 1648 ci fu un nuovo scoppio del conflitto, Carlo I era riuscito a riunire un nuovo esercito, ma fu di nuovo sconfitto. I comandanti dell’esercito, nel frattempo, agirono contro il parlamento, la mattina del 6 dicembre 1648, Thomas Pride e Lord Grey of Proby esclusero con la forza tutti quei parlamentari che essi ritenevano contrastare con la posizione dell’esercito (rimasero solo circa 110 parlamentari), creando quello che è noto come Rump Parliament, e così riunito questo gruppo decise di creare una commissione per processare il re. Il sovrano fu ovviamente dichiarato colpevole delle accuse di tradimento e fu considerato un nemico pubblico, e condannato a morte. L’esecuzione di Carlo I avvenne il 30 gennaio 1649. Con la sua morte, iniziò per l’Inghilterra il primo ed unico periodo repubblicano della sua storia, che durò poco più di un decennio.

Questo periodo vide il potere di un unico uomo forte, Oliver Cromwell, già comandante

dell’esercito nel periodo precedente, che assunse il titolo di Lord Protettore del Commonwealth,

36 Ann Lyon, Constitutional history of the United Kingdom, Londra, Cavendish Publishing, 2003, pp. 209-210 e 213-219; William S. Holdsworth, A history of english law vol. VI, Londra, Methuen and Co., 1922, pp. 118-141

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agendo di fatto come un monarca, anche a causa dell’assenza di un vero e proprio rivale. I vecchi alleati dell’esercito, i livellatori, che chiedevano al nuovo governo misure ancora più radicali rispetto a quelle già prese, furono arrestati e John Lilburne fu processato per tradimento e quindi mandato a morte. Si instaurò soprattutto all’inizio della vita del nuovo gruppo dirigenziale un regime oppressivo, repressivo di ogni dissenso e incredibilmente intollerante.

Cromwell morì il 3 settembre 1658, lasciando il potere a suo figlio. Tuttavia il Commonwealth non sopravvisse molto alla morte del suo principale e probabilmente unico leader, e nel maggio del 1660 la dinastia degli Stuart, nella persona di Carlo II, fu restaurata37.

6. GLI ULTIMI STUART

La restaurazione degli Stuart fu, però, preceduta dalla Dichiarazione di Breda. Il contenuto

rappresentava una sorta di programma sugli intenti di Carlo II una volta riconosciuto ufficialmente sovrano d’Inghilterra: nella dichiarazione veniva stabilita una amnistia per tutti coloro che avevano avuto un ruolo nella rivoluzione e successivamente nel governo del Commonwealth, con l’unica eccezione di coloro che avevano partecipato al processo di suo padre e avevano eseguito la condanna a morte; i proprietari che si erano visti sequestrare le proprietà vennero rassicurati sul recupero delle stesse se ciò fosse stato possibile (cioè se non fossero state vendute e fossero state perdute per abusi del precedente regime repubblicano); e Carlo II inserì nella dichiarazione la promessa di una tolleranza religiosa generale (promessa che, come vedremo, non poté rispettare). Con la fine del regime e il ritorno degli Stuart il parlamento (che era ancora il Long Parliament del 1640, chiamato per questo periodo Convention Parliament) fu impegnato a far tornare il regno ad una situazione che rispecchiava quella esistente nel 1641, nonostante ormai molte cose fossero cambiate dall’epoca nella percezione del potere e dei suoi detentori, cercando però un compromesso con le linee guida contenute nella Dichiarazione di Breda; le eccezioni non mancarono.

Innanzitutto i procedimenti giudiziari iniziati durante il periodo del Commonwealth furono continuati, né furono invalidate eventuali ordinanze emesse per il loro svolgimento; dal punto di vista religioso l’atto di tolleranza promesso dal re a favore dei cattolici, che erano stati tra i

principali sostenitori di Carlo I e in generale del ritorno degli Stuart sul trono, ma avrebbe favorito anche i protestanti non conformisti, non fu attuato.

Una volta risolti i problemi inerenti al cambio al vertice del potere, il parlamento che era in carica, con alterne vicende, dal 1640, alla fine del 1660 fu sciolto e fu immediatamente convocato un nuovo parlamento. Tra le prime decisioni prese dal Cavalier Parliament, com’è conosciuto, ci fu l’abolizione del Militia Act, con cui nel 1641 il parlamento aveva preso il controllo delle milizie, che consegnava nuovamente il comando delle milizie al re, e implicitamente diede al sovrano, di nuovo, il potere di scegliere i propri consiglieri e i detentori delle cariche dello stato. Nello stesso anno il parlamento approvò una legge che permetteva di punire, sulla base del Writ of Praemunire Facias, tutti coloro che sostenevano l’esistenza di un potere legislativo del parlamento separato dal potere legislativo della corona; inoltre furono approvate norme che rendevano difficile il presentare petizioni al sovrano e imponevano uno stretto controllo sulla stampa. Nel 1664 abbiamo anche una modifica del Triennal Act, la cui impostazione fu mantenuta ma furono eliminate le clausole che permettevano il rispetto (almeno sulla carta, data l’esperienza ventennale del Long Parliament) della norma, infatti vennero meno i meccanismi che permettevano la convocazione del parlamento tramite canali alternativi rispetto al potere centrale, il motivo di una tale modifica era dato dalla contrarietà di una tale soluzione con quelli che erano i diritti del re.

Ben presto emersero motivi di incomprensione e di contrasto tra il parlamento e la corona, sebbene il comportamento di Carlo II fosse molto diverso rispetto a quello tenuto dal padre e dal nonno; Carlo II cercò di controllare il parlamento e di allargare il proprio potere ad un punto tale da essere

37 Ann Lyon, Constitutional history of the United Kingdom, Londra, Cavendish Publishing, 2003, pp. 221-234; William S. Holdsworth, A history of english law vol. VI, Londra, Methuen and Co., 1922, pp. 142-163

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