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Lo sviluppo della teoria della mente: quando

PARTE 1: Revisione della Letteratura

2. La Teoria della Mente e le sue applicazioni

2.2 Le prospettive teoriche

2.2.3 Lo sviluppo della teoria della mente: quando

Nella maggior parte degli studi di psicologia evolutiva degli ultimi 30 anni è tradizionalmente accettato il fatto che il bambino verso i 4 anni è in completo possesso della teoria della mente. Tale risultato è basato sul fatto che solo a partire da questa età i bambini sono capaci di attribuire “false credenze” (Vianello, 2009).

Tuttavia indagini recenti hanno affermato che questa capacità è presente nel bambino già molto tempo prima, identificando le strutture che permettono lo sviluppo della teoria della mente già in bambini neonati, che vengono chiamate “precursori” della teoria della Mente. Poco tempo dopo la nascita e ancor di più verso i 3 mesi, nonostante i comportamenti osservati siano limitati, i bambini sorridono e vocalizzano maggiormente quando guardano un volto umano rispetto a quando vedono un oggetto, ciò indica una maggiore sensibilità agli stimoli sociali, in particolar modo nei confronti delle figure di accudimento, verso cui questo tipo di comportamenti si incrementano (Legerstee, 1992; Legerstee & Varghese, 2001).

Tra i 9 e i 12 mesi le ricerche hanno portato alla luce dei risultati che indicano l’inizio della consapevolezza di stati mentali, come ad esempio le intenzioni e i desideri. Un dato importante è che a partire dal primo anno di vita in poi, i bambini iniziano a distinguere gli oggetti inanimati dalle persone, comprendendo che quest’ultime sono agenti intenzionali, ossia soggetti che agiscono per il raggiungimento dei propri obiettivi. I bambini in questo periodo di vita comunicano, oltre che con il linguaggio, anche attraverso il gesto dell’indicare, che gli permette di condividere con l’adulto l’attenzione su un oggetto (Camaioni, Volterra & Bates, 1976). Camaioni infatti distingue due modi per indicare, il primo viene detto “imperativo” poiché attraverso il gesto il bambino tratta l’adulto come puro “mezzo” per ottenere ciò che desidera. La seconda modalità è detta “dichiarativa” ed emerge verso il 13 mesi e permette al bambino e all’adulto di co-orientare l’attenzione verso lo stesso oggetto.

Quanto sopra riportato sembra implicare un interesse verso gli stati interni dell’adulto, visto non solo come agente o mezzo per raggiungere l’obiettivo ma anche come soggetto dotato di stati mentali (come l’attenzione) che il bambino è capace non soltanto di riconoscere, ma anche di influenzare e modificare (Camaioni, 1993; Tomasello et al, 2005).

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Numerosi studi hanno dimostrato che a partire dai 12 mesi di età lo sguardo implica una relazione tra un individuo e l'oggetto del suo sguardo (Woodward et al, 2001).

È attraverso il contatto visivo con l’adulto che il bambino riesce a riconoscere e comprendere lo stato mentale dell’adulto, riuscendo a creare una connessione psicologica tra il comportamento che il bambino mette in atto per raggiungere un obiettivo e la reazione emozionale dell’adulto (Flom, Lee & Muir, 2007; Vaish & Benigno, 2006).

Tramite la capacità di comprensione delle espressioni positive o negative di un adulto nei confronti di un oggetto, il bambino regola il suo comportamento in situazioni ambigue o potenzialmente pericolose (Philips et al, 2002).

Meltzoff e Prinz (2002) hanno sostenuto che a 18 mesi il bambino è già capace di riconoscere le intenzioni e i desideri che si nascondono sotto espressioni e movimenti specifici del corpo: “a 18 mesi di età i bambini possono capire le espressioni legate al desiderio e al disgusto di un adulto, riconoscendole come distinte dai propri sentimenti e modificare di conseguenza il loro comportamento”; questo dato porta ad inferire l’esistenza precoce di una Teoria della Mente primitiva (Repacholi & Gopni, 1997). In un recente articolo Buttelmann, Carpenter, & Tomasello (2009) hanno messo in atto un nuovo paradigma di falsa credenza adatto ai neonati, che sfrutta una modalità di risposta comportamentale più attiva: l’aiuto. Uno sperimentatore mostrava inizialmente ai bambini di 18 mesi come chiudere e aprire due scatole, lasciandole aperte. Un secondo sperimentatore entrava successivamente nella stanza, mostrando ai bambini un giocattolo e, dopo averlo riposto all’interno di una scatola, ha lasciato la stanza. A questo punto il primo sperimentatore sposta il giocattolo all’interno di un'altra scatola, bloccando entrambe le scatole. Il secondo sperimentatore, una volta rientrato, si dirige verso la scatola in cui aveva riposto il giocattolo ma, essendo quest’ultima bloccata, non era in grado di aprirla. Deluso e triste, lo sperimentatore si sedeva a terra continuando a fissare le scatole. A questo punto, lo sperimentatore chiede ai bambini di essere aiutato. La maggior parte dei neonati si avvicinava alla scatola che conteneva il giocattolo. Questo comportamento suggerisce la capacità del bambino di ritenere che lo sperimentatore avesse una falsa credenza circa la scatola in cui il giocattolo si trovava, pertanto i bambini aprivano la scatola che conteneva realmente il giocattolo nel tentativo di aiutare lo sperimentatore a raggiungere il suo obiettivo.

I risultati hanno dimostrato che già a 18 mesi i neonati prendono in considerazione, con successo, la credenza dell’adulto nel tentativo di raggiungimento dell’obiettivo.

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Inoltre tra i 18 e i 24 mesi di vita iniziano a svilupparsi le attività di tipo simbolico, evidenti chiaramente nel gioco, che si consolideranno durante i tre anni. Il gioco simbolico è tradizionalmente considerato un’abilità meta-rappresentazionale, perché richiede la capacità di trasformare oggetti e azioni in maniera simbolica. Si parla quindi di “gioco simbolico”, poiché i bambini fingono quando usano un oggetto per rappresentare un oggetto diverso (Winner, 1988), per esempio una spazzola potrebbe essere utilizzata come microfono, (anche se il bambino al tempo stesso sa che è veramente una spazzola) oppure ancora possono maneggiare un oggetto inanimato come fosse vero (Lewis & Ramsay, 2004).

È possibile affermare dunque che i “precursori” dimostrano che una teoria della mente è già presente nei primi mesi di vita; infatti i comportamenti di questi bambini sembrano implicare una comprensione primitiva delle menti e delle emozioni proprie e degli altri e si è osservato che quando questa comprensione non è riuscita, come nei bambini autistici, lo sviluppo socio-affettivo e socio-cognitivo è compromesso (Baron & Cohen, 1989, 1991; Baron-Cohen & Holroyd, 1993; Baron-Cohen & Jollife, 2001).

A partire dai due anni di età si nota un incremento della capacità nel comprendere gli obiettivi, i desideri e le emozioni degli adulti. I bambini sono diventati buoni lettori delle espressioni emozionali degli adulti, con una crescente consapevolezza degli stati mentali degli altri, ma tali competenze si estendono anche alle loro interazioni con i coetanei. Infatti, la competenza sociale dei minori con i coetanei sembra ritardata da diversi mesi ad un anno rispetto a quella con gli adulti (Brownell, Ramani & Zerwas, 2006)

Un recente studio (Nichols, Svetlova & Brownell, 2010) riporta l’utilizzo di un paradigma di riferimento sociale per osservare come i bambini di 12, 18 e 24 mesi riescono a modificare il proprio comportamento nei confronti dei giocattoli sulla base dell’interpretazione degli stati emozionali positivi e negativi che il giocattolo suscita nei coetanei. I bambini di 12 mesi riducono il gioco con i giocattoli verso i quali un coetaneo aveva espresso emozioni positive o negative, rispetto al gioco verso cui il coetaneo ha espresso emozioni neutrali. I diciotto mesi rispondono in maniera confusa e incoerente, mentre i bambini di 24 mesi hanno giocato per un tempo maggiore, dopo aver visto un coetaneo mostrare reazioni affettive negative nei confronti del giocattolo. Indipendentemente dalla loro età, lo studio di evidenzia come i bambini con fratelli riducono il tempo di gioco con i giocattoli verso cui i fratelli hanno mostrato paura,

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mettendo in atto una tipica risposta di riferimento sociale. I risultati di questo studio mostrano come i cambiamenti nello sviluppo siano fattori importanti nella comprensione sociale e nell'interazione tra pari durante il secondo anno di vita. Durante il terzo anno di vita avvengono delle progressioni a livello delle capacità di comprensione degli stati mentali, in particolare è in questo periodo che i bambini iniziano a inferire stati mentali, quali i desideri e le credenze (Wellman & Henry, 1990,1991; Wellman & Liu, 2004). I compiti usati per valutare la capacità del bambino di tenere in considerazione desideri e credenze di un soggetto e quindi riuscirne a prevedere le azioni, si chiamano compiti di vera credenza (Wellman & Henry, 1991). Al bambino viene raccontata una storia che illustra il desiderio e le credenze del soggetto protagonista e per considerare la prova come superata il bambino deve tenere in considerazione sia il desiderio che la credenza del soggetto della storia, per anticiparne i comportamenti e le azioni, di conseguenza i bambini a questa età riescono a capire che “non solo gli agenti saranno diretti verso le cose che desiderano, ma anche le loro azioni

saranno vincolate dalla loro credenze” (Wellman & Liu, 2004). Si può inoltre aggiungere che proprio verso il terzo anno di vita avviene lo sviluppo

della comprensione delle emozioni. In questi anni, prescolari, la maggior parte dei bambini non solo sono in grado di nominare e discriminare le espressioni facciali per la felicità, la tristezza, la rabbia e la paura presentati attraverso cues visivi (Russell & Bullock, 1985; Cutting & Dunn, 1999), ma iniziano a capire come fattori esterni influenzano le emozioni di altri bambini (Pons, Harris & Rosnay, 2004). Per esempio riescono a prevedere che un bambino proverà tristezza quando perde il suo giocattolo o felicità quando riceve un regalo.

In letteratura si riscontra un accordo praticamente unanime sul fatto che i bambini siano in possesso di una teoria della mente ufficialmente all’età di 4 anni (Baron & Cohen, 1985; Perner et al, 1987; Wellman, Cross & Watson, 2001).

Questo dato è stato ottenuto tramite i risultati ottenuti dalla somministrazione dei compiti di “falsa credenza” (Wimmer & Perner, 1983). Questi vengono suddivisi in compiti di “falsa credenza” di primo ordine, elaborati da Wimmer e Perner (1983), basati sulla capacità di previsione dei comportamenti e delle azioni di un soggetto in base alle sue credenze; e in compiti di “falsa credenza” di secondo ordine, che si basano sulla capacità di prevedere gli stati mentali di un’altra persona relativamente a quelle di una terza persona (“Io penso che tu pensi che lei pensi”) (Perner & Winner, 1985).

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Tra i compiti di falsa credenza di primo ordine più famosi e conosciuti si può citare l’esperimento di “Sally ed Ann” dello “spostamento inatteso” (Wimmer, Perner, & Leekman, 1987) in cui un bambino assiste ad una scenetta in cui Sally, davanti gli occhi di Ann, ripone un giocattolo all’interno di una cesta e lascia la stanza. Successivamente Ann prende il giocattolo e lo sposta, all’interno di una scatola chiusa, si chiede dunque al bambino dove Sally cercherà il giocattolo. Il bambino che indicherà la cesta, luogo in cui Sally aveva posato il gioco, ignorando quindi il secondo spostamento messo in atto da Ann, dimostrerà la sua competenza meta-rappresentativa, essendo capace di comprendere il funzionamento della mente altrui.

Un compito di falsa credenza di secondo ordine molto famoso è invece l’esercizio della “scatola ingannevole” (Perner et al, 1987).

“Si mostra al bambino una scatola di smarties chiusa e gli si chiede cosa pensa ci sia all’interno della scatola. Dopo la risposta, ovviamente dicendo Smarties o caramelle, gli si mostra che in realtà la scatola contiene matite e si richiude la scatola.

Si informa poi il bambino che sta per arrivare una persona a cui verrà mostrata la scatola chiusa. Si chiede quindi di dire cosa risponderà la persona quando gli verrà posta la stessa domanda sul contenuto della scatola”.

La seconda domanda posta al bambino è quella cruciale, poiché se il bambino risponderà “smarties” dimostrerà di comprendere lo stato mentale altrui e di essere capace di mettere da parte la propria conoscenza della realtà per immedesimarsi nel punto di vista dell’altro.

Recenti studi (Saxe & Wexler, 2005; Kobayashi et al, 2007) hanno dimostrato come i bambini di età inferiore ai quattro anni non riescano a risolvere i compiti di falsa credenza, principalmente a causa di connessioni neurali ancora immature, mostrando come i domini del linguaggio e della memoria ancora poco strutturati causassero difficoltà nel memorizzare i dettagli e nel comprendere le consegne.

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