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IL LUNGO CAMMINO VERSO GLI ANNI DEL BOOM 6.1 – Sulla scia degli anni Vent

SECONDA PARTE: GLI SVILUPPI AZIENDALI E IL BOOM ECONOMICO

CAPITOLO 6: IL LUNGO CAMMINO VERSO GLI ANNI DEL BOOM 6.1 – Sulla scia degli anni Vent

Nel lungo processo di evoluzione della Fiat, a partire dagli esordi sulla piazza torinese per passare poi alla costruzione di uno degli stabilimenti automobilistici più avanzati d’Europa, arrivando poi alla diversificazione della gamma per interfacciarsi con un target allargato di potenziali acquirenti, è ben riscontrabile come questo fenomeno di avanzamento sia stato il frutto di un’oculata ed attenta analisi strategico-progettuale ed ottima interazio3ne fra potenzialità interne e opportunità del contesto storico- economico a cui ciascun evento coerentemente si verifica.

Si è messo in risalto come i tentativi dell’azienda di raggiungere una posizione apicale all’interno del contesto economico del Paese siano stati accompagnati da una serie di eventi che hanno di fatto contribuito ad aumentarne la notorietà, la crescita dimensionale e permesso l’evoluzione tecnica degli impianti, associata ad un progressivo aumento delle assunzioni per sopperire alle crescenti esigenze del mercato, soprattutto durante il periodo della guerra. Importante, a questo proposito, è la responsabilità sociale in capo all’azienda nei confronti delle maestranze, che si sono difese nel corso degli anni in tutte quelle fasi in cui le esigenze aziendali contrastavano le esigenze degli operai, scatenando rivendicazioni interne, poi soppresse a seguito di accordi con il sindacato.

La Fiat, tuttavia, viene facilmente identificata come un’azienda prevalentemente esportatrice nei primi anni della sua esistenza: le commesse interne, infatti, vengono registrate prevalentemente per soddisfare esigenze belliche, mentre è all’estero (in particolare nel nord Europa) che la Fiat esporta autovetture e automezzi. E’ doveroso precisare che politiche di dumping verso l’esterno sono usualità di tutte le case automobilistiche, ma quelle della Fiat rivestono una posizione particolare, in quanto l’offerta della casa rispecchia appieno le peculiarità di una produzione internazionale30. Questo pone in evidenza come

l’omogeneità dei gusti sotto il profilo prettamente tecnico degli europei si allineasse con quello degli italiani, e con i principali acquirenti internazionali (salvo il Nord America dove gli standard erano orientati verso autovetture di maggiori dimensioni). Tuttavia le scelte in materia di commercializzazione saranno fortemente condizionate da una serie di variabili esogene al mercato dei trasporti, tra cui imposte sulla circolazione, costo dei carburanti, costo delle polizze assicurative, che porteranno a diversificare le politiche di vendita nei vari Paesi. Al culminare degli anni Venti, per effetto di un allargamento della gamma, si innescherà un processo di diffusione interno che sarà orientato a fronteggiare la concorrenza interna di altri marchi (Alfa Romeo e Lancia in primis) per consolidare il primato del marchio nello scenario nazionale quale primo produttore di autovetture. Si vedrà come questo sarà possibile solo in parte, dovuto appunto all’agguerrita concorrenza – la quale può godere di potenzialità specifiche, difficilmente elaborabili in Fiat – e alle complesse vicende che si verificheranno a livello interno.

Nel sorgere degli anni Trenta il dilagare della crisi economica scoppiata inizialmente negli Stati Uniti invade a pieno regime anche il nostro Paese, facendo barcollare l’intero sistema bancario nazionale. Le ripercussioni di ciò finirono con influenzare negativamente lo sviluppo e i piani aziendali di tutte le industrie, in special modo le grandi aziende, tra cui la Fiat, la quale decise di reggersi in piedi da sola attingendo alle riserve sino a quel momento disponibili a bilancio, e andando a contenere al massimo

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investimenti e costo del personale31. Simultaneamente, però, venne raggiunto un accordo con l’Urss per

esportare camion, trattrici, châssis, e già con questa operazione la Fiat rivestiva oltre il 30% delle esportazioni italiane verso l’Unione Sovietica. Le commesse saranno destinate ad aumentare nel corso del tempo, con ordinativi tra il 1930 e il 1931 per un totale di 5 milioni di dollari, in particolare concentrati su commesse di cuscinetti a sfera, per i quali si siglerà un accordo per la costruzione di uno stabilimento a Mosca, oltre alla costruzione di una fonderia di leghe leggere, le quali sarebbero tornate utili per la costruzione di motori d’aviazione. Questi risultati rappresentarono per Fiat motivo di orgoglio e successo nell’ambito dei rapporti commerciali con l’estero, anche se a livello interno il restante 41% di vendita totale dell’azienda andava sempre più calando. La recessione bloccava qualsiasi progetto di sviluppo, pertanto Agnelli presentò un documento nel quale teorizzava la sua visione della crisi, nonché le misure necessarie affinché si scatenasse una spinta ai consumi e una ripresa economica: il suggerimento lasciato passare da Agnelli fu quello di ridurre la settimana lavorativa a 32 ore, e simultaneamente incrementare proporzionalmente il salario; così facendo si sarebbe assorbito un buon numero di disoccupati mantenendo un buon potere d’acquisto da parte dei lavoratori, i quali attraverso il risparmio avrebbero rimesso in moto i consumi e la domanda di beni. La visione di Agnelli risulta assai attuale ancora oggi: il pensiero si fonda su una visione ampia, una concezione allargata di imprenditore, il quale riflette a livello macroeconomico sulle possibili ritorsioni ed effetti di un intervento salariale sulla domanda di beni. Giocando sul margine d’azienda proponeva una soluzione per uscire dallo stallo economico. Tuttavia, le affermazioni di Agnelli vennero fortemente respinte dal governo.

A tal punto, la risposta del vertice Fiat venne plasmata su quello che meglio sapevano fare: sul prodotto. Venne presentata nel 1932 la vettura che passerà alla storia come la “vetturetta ultrautilitaria”, la Balilla: messa in vendita inizialmente a 10.800 lire, in seguito ribassata a 9.900 con allestimento meno lussuoso, era l’auto più economica presente sul mercato. Considerando lo stipendio medio dell’impiegato attestato sulle mille lire al mese, restava comunque non alla portata di tutti, ma era il miglior compromesso in termini di prezzo e di costi di esercizio, tant’è che Marinetti la definirà espressione di “italica ingegnosità” e di “vibrante dinamismo”32. Intensa sarà la campagna di marketing promossa attorno all’ultima nata di casa

Fiat, come l’indimenticabile cartellone pubblicitario che recitava “l’eleganza della Signora”.

Da parte del governo, venne concessa l’esenzione della tassa di circolazione per un anno, facendo superare le dieci mila unità vendute in un solo anno, non male come risultato. Si consideri che il parco circolante di automobili nel 1932 toccava quota 227.000, e sebbene il piano Balilla faceva ben sperare a livello di

31 V. Castronovo, Fiat 1899-1999, Un secolo di storia italiana, Rizzoli, pg. 445 32 V. Castronovo, Fiat 1899-1999, Un secolo di storia italiana, Rizzoli, pg. 469

Fiat Balilla in una campagna pubblicitaria dell’epoca; stampaggio della Balilla al Lingotto; Balilla in esposizione – Fonte: Centro Storico Fiat, Museo dell’Automobile

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prospettive future, era innegabile che il motivo per cui la Fiat risentisse in misura così evidente della crisi fosse per il fatto di avere circa 1/6 del parco circolante di Francia e Inghilterra, ed inoltre la sua produzione prettamente standardizzata accusava flessioni non appena i volumi produttivi andavano al dì sotto di quanto preventivato. Se a questo si associa l’innalzamento delle tariffe doganali e l’apprezzamento della lira, le esportazioni subirono un drastico calo, passando dal 70% al 22% della produzione nell’arco di pochi anni. La dirigenza Fiat, in questo delicato momento storico, non si perse d’animo, e si concentrò in un altro settore, contiguo ai mezzi di locomozione: fu così che nel 1932 presentò la «Littorina», convoglio in grado di superare i 100 Km/h, adatto a tamponare i danni provocati dalla crisi nel settore automobilistico e a tenere a galla il marchio, in risposta al Regime che prestava sempre particolare attenzione alla velocità ed efficienza dei trasporti.

6.2 – La necessità di un intervento e i nuovi progetti

L’intervento del governo nella situazione di crisi dilagante veniva sempre più invocata a chiare lettere da parte degli industriali, fin tanto che si rese necessario varare un piano d’intervento per salvare le banche da un tracollo ormai inevitabile. Fu così che alla fine del 1932 venne creato l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale): così facendo, venivano riversate sullo Stato le perdite delle banche e delle maggiori industrie che più avevano subìto gli effetti della crisi.

Dal canto suo, la Fiat inizierà a riconquistare un buon numero di vendite a partire dall’anno seguente, superando le 30 mila unità vendute, a testimonianza del fatto che da parte degli acquirenti si stava riguadagnando quella fiducia che da tempo mancava nei mercati. A livello interno, si assisteva progressivamente ad un ricambio della massa operaia, in funzione di una minore mole di assunzioni corredata da un’organizzazione interna orientata alla creazione di gruppi di operai non specializzati, istruiti “on the job”, ai quali conferire un salario inferiore a quello di operai specializzati, e garantendo così anche maggiore serenità negli ambienti di lavoro e controllo di repressioni interne. Il fatto di essere rimasta a galla e aver ripreso a lavorare con più sicurezza sarà motivo di vanto da parte del senatore, a maggior ragione venendo a sapere che le principali competitors, tra cui Citroën ma soprattutto Alfa Romeo, erano state costrette a ricorrere al salvataggio per evitare la chiusura dei battenti; in particolare, l’azienda milanese riuscirà a salvare la produzione grazie appunto all’intervento dell’Iri. Anche la Sip entrerà nel giro di salvataggio promosso dall’Iri, e così diventerà obiettivo di acquisizione da parte della Fiat, che avrebbe promosso una proposta di acquisto non appena l’Istituto avesse coperto le ingenti passività dell’azienda. Era necessario, tuttavia, un intervento calibrato per rilanciare le esportazioni, come detto poc’anzi fortemente represse dal perseguimento di stringenti politiche protezionistiche; si ricorda che l’industria automobilistica occupava 400 mila persone, per un turnover fiscale pari a quasi un miliardo di lire derivante dalla commercializzazione dei prodotti, e impiegava 50 mila tonnellate d’acciaio l’anno e oltre 10 mila di ghisa, contribuendo all’attivo della bilancia commerciale del Paese per 82 milioni di lire33.

La Fiat, in sostanza, aveva tutte le carte in regola per poter contrattare con l’esecutivo un sistema per rilanciare le esportazioni. Fu così che venne concesso un rimborso degli oneri fiscali sulle auto esportate, mentre a ciò seguì l’affermazione del principio di reciprocità – proposto precedentemente dallo stesso Agnelli – con il quale lo Stato s’impegnava a fissare dei prezzi di scambio equi, tali da garantire ai vari produttori la copertura dei costi di produzione e realizzare un markup adeguato.

Una spinta notevole dall’interno si manifestò nel 1935, con l’invasione italiana nell’Etiopia, annunciata dal capo di Stato maggiore Badoglio e avente come scopo l’imposizione italiana nell’intera Etiopia. Vennero

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perciò commissionate d’urgenza mitragliatrici e mezzi, tuttavia per vincoli tecnici – ossia necessità di riallestire le strutture e fare spazio per le nuove produzioni – si dimostrò un’impresa talmente ardua che il governo dovette inizialmente rifornirsi di veicoli Ford per affrontare la missione. Immediate furono le nuove assunzioni in Fiat, e venne lanciato in produzione il nuovo Fiat «634 N», che sarà provvidenziale per la riuscita della spedizione; la vicenda fece totalizzare un ammontare di 855 milioni di lire di fornitura militare da parte di Fiat.

A questa vicenda seguì l’intervento da parte dello Stato per dare respiro alle esportazioni: nel 1936 la lira venne svalutata di oltre il 40%, e in aggiunta venne abolito l’embargo della Società delle Nazioni nei confronti dell’Italia: ciò diventò il trampolino di lancio per puntare sull’aumento delle esportazioni, e in Fiat si tradusse in un aumento del 70% delle esportazioni registrate l’anno seguente. Grazie a questo fu possibile un incremento salariale e venne introdotto per la prima volta il diritto agli assegni familiari, oltre alla concessione del sabato pomeriggio libero.

Dopo il fortunato lancio della Balilla, verso la fine degli anni Trenta vide prendere forma un altro progetto che si rivelerà poi vincente: il varo della nuova Fiat «500»: la vettura più piccola mai prodotta dalla Fiat entrerà nel cuore degli italiani fin da subito, con le sue linee moderne e il motore economo e funzionale, verrà ribattezzata “Topolino”. La revisione della gamma coinvolse anche la Balilla, che subì un aggiornamento estetico, oltre una riduzione del prezzo, e questi due modelli in particolare rappresentavano per molti la “prima esperienza” alla guida. Nel frattempo, però anche la concorrenza diventava sempre più agguerrita, in particolare assumeva sempre più spessore la presenza di Simca, che proponeva modelli simili a quelle italiane, ma tuttavia non conquistarono le sperate attenzioni del pubblico italiano, ben più predisposto all’acquisto delle neonate di casa Fiat. Anche all’estero le due vetture piacquero, tanto che nel 1937 il 40% della produzione venne destinato all’esportazione, e il mercato inglese stava diventando un ottimo mercato di sbocco.

La politica estera di Fiat non accennava a flettersi, anzi: a seguito di un’ulteriore visita negli Stati Uniti nel 1934, verrà siglato un accordo internazionale con il quale veniva concesso alla Fiat di commercializzare determinati modelli nell’oltreoceano, mentre d’altro canto veniva appoggiata la commercializzazione delle grosse auto americane da parte delle agenzie torinesi. Questo accordo assumerà valore a partire dal 1936, in simultanea con un rapporto di cambio più favorevole e il basso costo del lavoro. Infine vi era interesse da parte dei risparmiatori americani di acquistare titoli Fiat, che avrebbe garantito afflusso di capitali da impiegare in nuovi progetti.

6.3 – Il nuovo stabilimento

A seguito del suo viaggio il senatore era rimasto piacevolmente impressionato di quanto aveva potuto cogliere negli stabilimenti americani; in particolare, aveva notato come la costruzione su linee orizzontali permettesse di raggiungere eccellenti standard temporali di lavorazione, nonché un miglior circolo di parti e semilavorati tra i vari reparti. Questo schema, seppur molto interessante, era sicuramente impraticabile nelle strutture torinesi; infatti, il Lingotto organizzato a piani, rifletteva esattamente la concezione opposta, in quanto improntato in reparti di lavorazione per linee verticali. Fu così che prese avvio l’idea di realizzare un nuovo stabilimento, in un’area inutilizzata nella zona di Mirafiori, da organizzare secondo lo schema di ciclo produttivo in linea orizzontale: questo avrebbe permesso un incremento di produttività e un miglioramento logistico interno. Ciò avrebbe sicuramente consentito di superare il livello massimo di produttività raggiunto al Lingotto, pari a 2 veicoli per addetto. Inoltre si tentava di perseguire una politica di abbattimento dell’approvvigionamento esterno di componenti e semilavorati, e il nuovo schema

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orizzontale avrebbe permesso, grazie ad un diverso layout, una maggiore internalizzazione dei processi. Grazie agli introiti derivati dalla guerra in Etiopia, fu possibile investire in questo nuovo progetto.

Il nuovo stabilimento venne progettato dall’ingegner Vittorio Bonadé Bottino, il quale studiò approfonditamente gli stabilimenti Ford precedentemente progettati dallo studio americano Albert Kahn Inc., grazie a sopralluoghi e visite presso tali strutture. Era stato lo stesso Agnelli a riferire ai suoi collaboratori «Guardate bene come fanno gli americani, ma poi fate in modo diverso», certo che il suo nuovo stabilimento avrebbe avuto in comune con quelli americani la disposizione interna, ma avrebbe dovuto essere ulteriormente perfezionato. Confortanti erano le prerogative del senatore una volta concluso lo stabilimento: si parlava di nuove assunzioni, per toccare quota 22 mila dipendenti (tremila in più del Lingotto), ed in particolare bisognava riassumere operai esperti per poter rapidamente istruire i lavoratori e prendere abilità nell’utilizzo delle nuove macchine, e questo poteva essere assolto in parte dalla scuola aziendale interna; le nuove assunzioni erano contestualmente sospinte da una produzione in crescita e pari a 64.000 unità nel 1937, con la copertura del 2% della produzione automobilistica internazionale e del 7% in Europa34. La struttura del Lingotto, seppur inizialmente innovativa, appariva già

tecnologicamente superata; le tre linee parallele (motore, châssis e carrozzeria) non avrebbero permesso la costruzione di modelli più complicati, anzi già tanta era diventata la confusione al suo interno, dovuta al numero crescente di componenti e la carenza di meccanizzazione per assistere gli operai nel trasferimento dei pezzi pronti per l’assemblaggio.

Nel frattempo, da parte sua, il senatore si mosse per portare a termine un importante progetto di acquisizioni: dopo aver rilevato una quota azionaria della Bastogi, gestita dall’Iri e da privati, riuscì ad acquisire la Cinzano, mentre gli venne impedita l’acquisizione della Sip. Inoltre, degno di nota è il ritorno sulla piazza dell’Alfa Romeo; citava a tal proposito l’economista Alberto Beneduce:

“Non poteva l’Iri farsi amico il gruppo Fiat senza rinunziare all’idea di riorganizzare, com’è riuscito a

riorganizzare, l’Alfa Romeo, in modo da darle una potentissima capacità produttiva al servizio dell’aviazione e al servizio del mercato automobilistico per quando le necessità dell’aviazione rallenteranno”35.

Da questo sarebbe scaturito un altro temibile avversario futuro, che avrebbe ostacolato il successo dei modelli futuri, in particolar modo di quelli alti di gamma e di vocazione sportiva, tratti distintivi incarnati nella tipica tradizione Alfa.

Negli ultimi scorci degli anni Trenta, tuttavia, verrà ulteriormente ostacolata la produzione interna per effetto di un inasprimento improvviso del costo del carburante, passato da 2,23 lire/litro a 3,43 lire/litro; venne anche introdotta un’imposta straordinaria sul capitale e incrementata dello 0,50% la tassa di scambio per le transazioni superiori a 1 lira. Tutto questo, se da una parte rispettava la perfetta traslazione dell’imposta sul consumatore, avrebbe dì fatto rappresentato un deterrente alla domanda e ai consumi. Pesanti furono le ripercussioni in termini di immatricolazioni di nuovi veicoli: dato che non vi erano particolari ingenti commesse pubbliche, nei primi mesi del 1938 si registrerà un calo di vendite di autocarri del 64% per arrivare all’85% per gli autocarri pesanti. Questo determinò l’imminente licenziamento di operai, mentre i rimanenti restavano assunti però in un clima altamente precario, e si verificò un rallentamento nella costruzione del nuovo stabilimento. Si rese necessario, pertanto, intraprendere una maggiore concentrazione in attività diverse, tanto che lo slogan “Terra, mare, cielo” attribuito alla Fiat rispecchierà appieno la strategia adottata per tamponare le vicende subìte nel campo automobilistico. Il contesto economico che si può delineare in quel periodo è di una situazione flagellata da pesanti politiche

34 V. Castronovo, Fiat 1899-1999, Un secolo di storia italiana, Rizzoli, pg. 534 35 V. Castronovo, Fiat 1899-1999, Un secolo di storia italiana, Rizzoli, pg. 542

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autarchiche, seguite da gravi carenze di materie prime e carburante, e oneri fiscali eccessivi particolarmente deterrenti per i consumi interni.

Nel 1939, intanto, veniva ultimato lo stabilimento di Mirafiori. Progettato e costruito in un momento storico particolarmente nebbioso e tormentato da continue influenze statali, era evidente come, fin dal momento della progettazione, il Regime fosse contrario a localizzare il nuovo complesso nuovamente al nord.

Ad una settimana esatta dall’inaugurazione dello stabilimento, avvenuta con la presenza di Mussolini il 15 maggio 1939, venne firmato il Patto d’acciaio, che implicava l’entrata automatica in guerra a fianco della Germania in caso di scoppio del conflitto. Questo destò preoccupazione ed irritazione non solo tra gli industriali del tempo, ma anche tra gli stessi lavoratori, che nella quotidianità sul posto di lavoro affermavano la loro avversione al patto siglato, per paura di diventare succubi al volere tedesco. Queste preoccupazioni ricadevano in capo agli industriali in quanto, inevitabilmente, le relazioni economiche ne risentirono, ed in primis le relazioni commerciali con la Polonia; ma anche quanto intrapreso con la Francia era in grave rischio, e tutto questo creava problemi anche con i rifornimenti dall’estero. Proprio nel mentre che si intraprendevano i trasferimenti dei macchinari dal Lingotto a Mirafiori, questi vennero subito afflitti da ritardi e rallentamenti; inoltre, considerata la situazione di debolezza della finanza pubblica, appesantita dalle uscite per finanziare la guerra d’Etiopia, si decise di liberalizzare la commercializzazione dei prodotti senza dover più rispettare alcun vincolo, con lo scopo di procurare quante più divise estere possibili al Regime. In vista di una possibile ondata di ordinativi di mezzi militari, si giunse ad un singolare accordo per iniziare ad organizzare la produzione per la costruzione di nuovi autoveicoli, con loro entrata in servizio