• Non ci sono risultati.

GLI SVILUPPI PRINCIPALI FINO AGLI ANNI OTTANTA 11.1 – Il consolidamento nel mercato

TERZA PARTE: LA RIORGANIZZAZIONE PER UNA FABBRICA NUOVA

CAPITOLO 11: GLI SVILUPPI PRINCIPALI FINO AGLI ANNI OTTANTA 11.1 – Il consolidamento nel mercato

La fase di sviluppo della Fiat durante gli anni Cinquanta ha visto l’azienda incrementare nettamente la propria diffusione nel panorama automobilistico italiano, europeo e internazionale. Grazie ad una serie di circostanze – di natura interna, piuttosto che di natura politica o strutturale del settore dei trasporti – si è potuto registrare un deciso aumento nella quota di vendite di auto, e grazie ad un’adeguata manovra commerciale connessa a un preciso piano produttivo, si assisterà anche nel corso degli anni Sessanta al consolidamento dell’egemonia commerciale dell’azienda torinese nel parco circolante automobilistico. Durante questo periodo la Fiat si configura come la realtà automobilistica europea più avanzata. Alla fine di questo decennio la produzione torinese eguaglierà quella della Volkswagen, con un deciso incremento delle esportazioni e delle immatricolazioni interne: proprio grazie alla spinta da parte del mercato interno la Fiat riuscirà a passare da 500.000 vetture prodotte nel 1960 a oltre 1.500.000 nel 1970, facendo assumere all’azienda un rilievo a livello europeo particolarmente importante, grazie anche ad una serie di acquisizioni avvenute nel corso del tempo, come quella di Autobianchi nel 1968 e di Lancia nel 1969 (marchio nato nel 1906), dalla quale la Fiat erediterà un prezioso patrimonio di conoscenze ed esperienze, derivate dalla politica aziendale Lancia fortemente orientata alla produzione di automobili per un target ristretto, raffinato, qualitativamente superiore a quello della concorrente torinese, ma che alla fine degli anni ’60 è costretta a ricorrere alla Fiat per risanare i gravi problemi finanziari66.

L’analisi si concentrerà anche sugli sviluppi aziendali durante gli anni Settanta, durante i quali le politiche dell’azienda dovranno rendicontare alla crisi petrolifera, che dì fatto influenzerà in maniera consistente i piani strategici aziendali, oltre alla gamma prodotti sensibilmente adattata alle mutate esigenze dei mercati e al potere d’acquisto dei consumatori.

Spostando, poi, l’attenzione sugli anni Ottanta, ultimo decennio d’analisi in questa sede, verrà focalizzata l’attenzione sulle novità introdotte a livello interno, sia per quanto riguarda la gestione e l’organizzazione del lavoro, sia in ambito commerciale. Importante, poi, l’analisi sulle fasi e le circostanze che hanno condotto l’azienda a proporsi come potenziale acquirente dell’Alfa Romeo, che culminerà poi con la sua acquisizione avvenuta durante la seconda metà del decennio.

All’inizio degli anni Sessanta il Paese era in fase di rapida trasformazione. Le gravi perdite e i danni subiti durante il secondo conflitto mondiale erano ormai stati sanati, e il processo d’industrializzazione procedeva con un andamento sempre più spedito.

Nei primi mesi del 1960 in Europa si viveva una situazione di positivismo, alimentata dall’andamento estremamente favorevole dei mercati a partire dal decennio precedente; non solo, dal momento che negli Stati Uniti finalmente si iniziava ad intravedere una possibile fase di ripresa dell’economia, si era certi che tale influsso si sarebbe riversato poi anche in Europa, quindi il clima nel quale si volgevano i nuovi piani aziendali della Fiat non poteva che essere dei migliori. La situazione italiana era già avviata alla piena attività – grazie alla riuscita dei piani delle grandi aziende automobilistiche, che avevano innescato una “piccola rivoluzione sociale”, ossia “avevano messo le quattro ruote agli italiani” – entrata a regime con una ripresa anche delle esportazioni, e questo faceva intendere che sul piano strategico si sarebbe profilato un programma di apertura ai mercati attraverso cooperazioni con altre aziende. Si era assistito ad un

122

progressivo incremento del tasso di motorizzazione italiano, ma tuttavia questo risultato lasciava ancora parecchio margine di miglioramento e perfezionamento. La vendita di automobili Fiat all’estero era stata incentivata grazie ad un regime protezionistico favorevole, che non poteva venire ulteriormente forzato: in Germania le esportazioni erano decollate, e anche in America si erano piazzate oltre 40 mila vetture, e proprio grazie a questo ora l’azienda disponeva dei capitali necessari per procurarsi le merci di cui necessitava dagli Stati Uniti.

La scommessa di Valletta, in questo lasso di tempo, era quella di riuscire a vendere più automobili a sempre più clienti italiani, in un contesto sociale in cui il reddito medio della popolazione risulta essere pari a circa la metà di quello di altri europei (francesi, tedeschi, inglesi).

A livello produttivo l’azienda aveva oltrepassato le 500.000 vetture vendute, raggiungendo così il 4,7% delle vendite internazionali di auto, e l’obiettivo era quello di elevare da 2 a 4 mila i mezzi prodotti giornalmente, e ciò sarebbe reso possibile grazie ad un’elevata automazione degli impianti già funzionanti, i quali sarebbero stati perfezionati nei tempi di lavorazione e negli spostamenti dei materiali: questo avrebbe, dì fatto, innescato un aumento del numero di addetti macchina, che già alla fine degli anni Cinquanta raggiungeva quasi il 60% delle maestranze, segno che la conversione dell’azienda verso il tipico stabilimento produttivo fordista nella sede operativa di Mirafiori era già iniziata. L’azienda, quindi, ricercava sempre di più personale da adibire al montaggio delle vetture, ed infatti nel corso del 1960 i dipendenti crebbero di 15 mila unità, toccando i 107 mila dipendenti; molti di essi provenivano dalle regioni del sud Italia, e il flusso migratorio divenne rapidamente dilagante in tutto il nord. Questo ingente processo di immigrazione all’interno delle mura di Torino richiese, oltre all’allargamento degli stabilimenti Fiat, la costruzione di nuove abitazioni per ospitare i lavoratori e le rispettive famiglie, nonché tutta una serie di strutture ricreative ed assistenziali, legate a quell’afflusso di persone, che contribuì in maniera preponderante a far registrare alla città nel 1961 oltre un milione e mezzo di abitanti.

La crescita della Fiat era accompagnata a quella di altre imprese in rapida evoluzione, tra cui la Olivetti, la Pininfarina, la Bertone e la Vignale, queste ultime specializzate nella carrozzeria, le quali contribuiranno ad accrescere il prestigio automobilistico italiano, allestendo alcuni modelli di vetture con un design ricercato e personale.

La fase positiva del mercato era la spinta che alimentava i piani di Valletta di incrementare le vendite e avviare l’azienda verso la produzione di massa, certo che questo era il momento migliore da sfruttare a proprio vantaggio per poter consolidare il marchio a livello internazionale. Tuttavia, l’azienda, per poter crescere ulteriormente, andava riattrezzata con nuove macchine transfer, andava ampliata la rete delle imprese e delle attività complementari, nonché si rendeva assolutamente necessario addestrare gli operai alle nuove tecnologie produttive e alla programmazione dei macchinari. Questo richiedeva, per contro, una verticalizzazione e un’integrazione ancor più marcate dell’azienda: andavano contenuti al massimo i costi, allargati razionalmente gli stabilimenti e controllate costantemente le aziende subfornitrici. Lo sviluppo dimensionale dell’azienda, secondo Valletta, poteva (anzi, doveva) avvenire decentrando alcune officine da Torino per spostarle verso alcune zone del Mezzogiorno, ma la sua concezione non venne mai accettata dai dirigenti, i quali non vedevano alcun altro stabilimento produttivo Fiat se non ubicato all’interno delle mura di Torino, per le consuete motivazioni tecniche (ossia la ormai consolidata presenza di personale addestrato a seguire la produzione, la rete di imprese subfornitrici, le scuole professionali). Effettivamente, a scoraggiare una simile ipotesi, vi era il fatto che al sud si sarebbe riscontrata una carenza d’infrastrutture, oltre a un’inadeguata preparazione tecnica per il montaggio di vetture. Tuttavia, il rilevante fenomeno migratorio aveva fatto sì che lo sviluppo del settore secondario fosse avvenuto in maniera più che proporzionale a quello del terziario, pertanto le opere edilizie per accogliere nuove persone all’interno della

123

città procedevano con ritmo inferiore alle reali necessità del momento. Le condizioni in cui si trovavano a lavorare gli operai erano tra le migliori: infatti, un operaio specializzato percepiva 381 lire, dieci volte quello corrisposto dalla Olivetti, e comunque superiore anche agli stipendi in Lancia; tutto questo garantiva un posto di lavoro sicuro e ottime prospettive a livello retributivo. A livello aziendale il fatturato, tra il 1954 e il 1960, era cresciuto del 98%, i profitti netti del 200%, i salari medi del 38%, mentre il rapporto fatturato- dipendenti era passato da 3.873.000 a 5.860.000 lire67. La fase espansiva della Fiat era saldamente

sostenuta da Valletta, il quale, per timore che eventuali aumenti di importazioni – avvenuti tra il 1961 e il 1962, per effetto di una riduzione di dazi e contingentamenti – potessero innescare una riduzione di esportazioni, stabilì che per assicurare la sopravvivenza dell’azienda era necessario raggiungere il milione di automobili prodotte in un anno; a suo giudizio, era indispensabile potenziare ulteriormente i reparti produttivi, e concentrare la produzione su vetture di piccola cilindrata. A questi propositi servirono gli investimenti disposti dagli azionisti pari a 100 miliardi, i quali posero come condizione necessaria che anche il governo, a fronte di questa manovra “di fiducia” nei suoi confronti, avrebbe dovuto privilegiare delle politiche a favore del settore automobilistico italiano, considerato anche che in Italia vi era un’auto ogni 20- 25 abitanti, contro Francia, Germania e Inghilterra dove lo stesso indice si abbassava a 10. Veniva richiesto, pertanto, di ridurre bolli e tasse sui carburanti per abbattere i costi di manutenzione delle automobili, nonché venisse ammodernata la rete stradale e predisposta la costruzione di autostrade.

Nel frattempo si rinsaldarono i rapporti con l’Unione Sovietica, dove a seguito di una visita a Mosca, venne siglato un accordo per la fornitura di petrolio all’Italia, al quale seguì una commissione di sei motocisterne alla Ansaldo, la quale si sarebbe rivolta alla Fiat per la costruzione dei motori. Questo fu un primo tentativo per commerciare con l’estero, a seguito del quale venne concordata l’opportunità per l’azienda di esporre, a mezzo di tecnici specializzati e campionature apposite, presso alcuni padiglioni allestiti nel Parco Sokolniki tutta la produzione Fiat, nonché i sistemi organizzativi dell’intera azienda. Questi tentativi di commercializzazione ebbero seguito solo dopo aver a lungo intrattenuto un incontro con il presidente americano John Kennedy, il quale non mostrò particolari fastidi dì fronte alle linee strategiche del professore.

11.2 – Tensioni nelle fabbriche e la fine dell’era di Valletta

Nei primi mesi del 1962 la situazione era delle migliori, la domanda tirava e il tasso di disoccupazione inferiore del 3%, non erano assolutamente indicatori della crisi che poi si sarebbe verificata all’interno della Fiat. Essa si verificò in concomitanza con la scadenza di numerosi rinnovi contrattuali, e s’innescò un clima di turbolenze dovute a più motivazioni convogliate nel fatto che le dimensioni aziendali si siano evolute in maniera talmente vasta e disorganizzata, che da una parte veniva esposto il disagio da parte delle maestranze di origini meridionali di adattarsi al regime di fabbrica, dall’altro il risentimento di altri operai specializzati, che si ritenevano declassati rispetto alle loro personali competenze od aspirazioni. Tutto ciò si tradusse in uno sciopero delle federazioni di categoria avvenuto il 13 giugno per il rinnovo del contratto nazionale; in risposta a questo imprevisto blocco di alcuni settori, venne stabilito di trasferire di posto alcune teste calde, mentre seguì l’ammonizione di ulteriori punizioni nel caso in cui si fossero verificato altri scioperi all’interno degli stabilimenti. Tuttavia, ciò non bastò a placare le rivolte, scoppiate in seguito, alle quali aveva aderito fino all’80% della forza lavoro Fiat, capeggiate dalla Fiom all’ingresso degli stabilimenti di Mirafiori. A risposta di questi continui scioperi, il 26 e 27 giugno 1962 venne disposta la chiusura delle fabbriche, giustificata da Valletta come un mero tentativo di assicurare l’incolumità delle minoranze tra le

124

maestranze, sottoposte ad atti intimidatori all’ingresso dello stabilimento. La linea di condotta di Valletta trovò ampia contestazione sia da Confindustria che dalla Cisl e Cgil; la prima intendeva dimostrare che il governo di centro-sinistra non faceva nulla per contenere le tensioni, anzi contribuiva ad alimentarle, le seconde giudicavano gli sforzi di Valletta come tentativi di alterazione e mascheratura della realtà. Ciò nonostante, tra il 7 e il 9 luglio si verificarono episodi di violenza tra metalmeccanici in sciopero e forze dell’ordine: lo sciopero, innescato non appena si ebbe notizia che Fiat stava per siglare un accordo separato con la Uil e la Sida per placare lo sciopero preannunciato dalla Fiom e dalla Fim, portò a blocchi totali degli stabilimenti. In breve tempo oltre settemila operai si riunirono in piazza Statuto per assaltare la sede della Uil. Vani furono i tentativi pacifici di convincere gli operai a calmarsi, e le tre giornate finirono con un bilancio tragico dal punto di vista dei danni provocati e dalle persone rimaste ferite nello scontro. 84 furono gli operai licenziati, e 36 vennero condannati a pene anche superiori a un anno. La chiusura degli stabilimenti, se da parte di Valletta venne ritenuto un tentativo di voler assicurare l’incolumità delle maestranze, venne da tutti percepito chiaramente come segnale d’impotenza dì fronte alle rivendicazioni. Fu così che dopo otto anni di assenza tornarono a sedere al tavolo dei negoziati i rappresentanti della Fiom. Il culmine della vicenda si ebbe nell’ottobre dello stesso anno, quando tutti e quattro i sindacati (Cisl, Cgil, Uil e Sida) siglarono un accordo con la Fiat: venne introdotta la contrattazione degli incentivi, previsto l’intervento dei sindacati nella definizione dei tempi di lavoro e del rispettivo metodo di rilevazione, nella percentuale dei rimpiazzi nelle varie postazioni delle linee di montaggio, mentre venne mantenuto immutato l’orario di lavoro. Con la Confindustria, invece, venne siglato un accordo nel febbraio 1963, dove venne introdotto un nuovo sistema contrattuale basato su tre livelli distinti: nazionale, di settore e aziendale (negli ultimi due settori le materie di competenza e le procedure sarebbero dovute esser definite preventivamente in un accordo interconfederale). La situazione creatasi nel panorama politico-sociale non era esattamente come quanto prospettato da Valletta, non solo per le perdite scaturite dagli scioperi sindacali ma anche per lo sforzo finanziario sostenuto per rinnovare i contratti. Fu una deludente scoperta notare come il centro sinistra non avesse operato secondo le aspettative. In tutta Italia da quando aveva preso consistenza l’apertura a sinistra si aveva assistito ad una lenta ed inesorabile fuga di capitali all’estero, mentre anche in Borsa vi erano segnali scoraggianti per un futuro non più roseo come un tempo. Per i piccoli risparmiatori aveva manifestato i suoi influssi il disegno di legge sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, che aveva di fatto represso la spinta agli investimenti privati; inoltre, si era innescata una spirale salari-prezzi per effetto degli incrementi salariali, che aveva richiesto un intervento di politica monetaria di stretta creditizia per mantenere sotto controllo la situazione.

Anche in fatto di concorrenza estera i timori erano quelli di una possibile perdita di posizione: dopo un periodo di rischio di sovrapproduzione nel settore auto, le importazioni avevano iniziato a diffondere nel panorama italiano migliaia di vetture di marchio straniero, al punto che alla fine del 1962 rappresentavano il 30% delle immatricolazioni italiane. La produzione Ford e General Motors si era allargata nell’Europa settentrionale, e questo rappresentava motivo di allarme da parte dei vertici Fiat, seppure la produzione fosse comunque in crescita. Tuttavia, venne comunque ribadito al governo di salvaguardare l’industria automobilistica italiana, intervenendo perché all’interno del Mercato europeo comune (entrato in vigore il 1 gennaio 1958, ed era l’agglomerato di Paesi della comunità europea all’interno del quale vigeva la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali) venissero impediti episodi di eccessiva diffusione di prodotti esteri che avrebbero finito per arrecare danni economici alle aziende facenti parte del Mec. Con questo ci si riferiva principalmente a Ford e General Motors, le quali dalle loro succursali europee ubicate in Germania e Inghilterra avevano già sfornato oltre un milione di veicoli nel solo 1961. Anche a livello interno Valletta lamentava il fatto che il governo non intraprendesse alcuna azione per rilanciare le vendite, partendo da

125

una riduzione delle imposte sui redditi; lo stesso problema venne sollevato al nuovo governo Moro, ma quest’ultimo aveva come obiettivo primario la contrazione della forbice tra consumi pubblici e privati, e non fece altro che innescare misure politiche di segno contrario, e solo in seguito riviste alcune aliquote impositive, giudicate comunque come misure inadatte e insufficienti. Viste le problematiche con il governo, si spostò l’attenzione sulla produzione all’estero, in particolare con la messa in funzione in Jugoslavia di una fabbrica per la produzione di auto su licenza Fiat; lo stesso si era riproposto in Argentina e in Turchia. Anche in Unione Sovietica si portava avanti un piano per la produzione di trattori, che prese avvio nel 1963, e in seguito lo stabilimento venne adibito alla produzione di autovetture.

Queste mosse permisero alla Fiat di giungere nel 1965 in una situazione di ripresa; inoltre a livello nazionale l’aumento delle esportazioni e il conseguente calo delle importazioni aveva favorito il ribilanciamento della bilancia dei pagamenti, così affluirono nuovi capitali nelle banche. Valletta tornò all’attacco contro il governo per attivare la costruzione di migliori reti stradali, proprio mentre veniva ultimata l’Autostrada del Sole di 755 chilometri, che collegava Roma a Firenze.

Sempre nello stesso anno Valletta si recò nuovamente a Mosca, dove ebbe l’occasione di visitare lo stabilimento convertito alla produzione di automobili, e colse l’opportunità di negoziare con Kossighin, premier dell’Unione Sovietica, un rapporto di collaborazione per il potenziamento della produzione automobilistica. Venne siglato poco dopo un accordo con cui si stabilì la produzione da 1.500 a 2.000 vetture al giorno di vetture, da avviare all’interno di un nuovo edificio progettato e realizzato dalla Fiat; la stessa avrebbe dovuto provvedere, in seguito, a trasferire l’esperienza produttiva negli stabilimenti e la predisposizione di una rete di assistenza e di vendita delle vetture e dei pezzi di ricambio.

Solo alla fine di lunghe trattative, studi per definire l’ammontare dei costi di progettazione e realizzazione e contrattazioni per ottenere un finanziamento per l’acquisto delle risorse necessarie, venne firmato a Torino il 4 maggio 1966 un protocollo d’intesa tra Valletta e il ministro sovietico dell’industria automobilistica Alexandr Tarassov che prevedeva la costruzione e completamento dello stabilimento situato a Togliattigrad per la produzione delle vetture Zhiguli, versione derivata dalla Fiat «124». Contestualmente venne siglato l’accordo tra l’Istituto Mobiliare Italiano e la Banca di Stato dell’Urss per finanziare una parte dell’opera, per un ammontare di 200 miliardi. Il costo dei macchinari, fabbricati e automezzi ammontava a 706 miliardi di dollari, 311 dei quali provenienti dall’Italia, 341 di provenienza locale e 54 da altri Paesi occidentali68. Il

prestigioso risultato conseguito dal professor Valletta fu l’ultimo di una lunga serie di allori, quando giunto sulla soglia degli ottant’anni decise che fosse giunto il momento lui di lasciare il timone dell’azienda al successore del senatore, Gianni Agnelli. Fu così che al professore venne attribuito il titolo di presidente onorario e delegato speciale del Cda, mentre le redini dell’azienda confluirono in capo a Gianni Agnelli affiancato dall’ingegner Gaudenzio Bono. Agnelli era da anni vicepresidente Fiat nonché rappresentante del gruppo azionario di maggioranza, e fino ad allora aveva seguito solo a distanza le vicende avvenute all’interno dei cancelli dell’azienda. Gli era sufficiente essere consapevole di possedere (con il resto della famiglia originaria) tra il 65 e il 75% dell’Ifi e la maggioranza delle azioni Fiat, non aveva mai espresso il desiderio di voler partecipare in maniera più attiva alla conduzione imprenditoriale. L’avvocato, come veniva diffusamente contraddistinto, all’atto del passaggio del testimone, venne visto con diffidenza da molti esponenti politici e anche dalla Confindustria. Nell’ultimo periodo aveva iniziato ad affiancare le riunioni all’estero di Valletta, ma tra i due le differenze caratteriali erano troppo marcate per poter nascondere il netto contrasto mentale: Valletta veniva descritto come un uomo energico, molto impegnato, sempre attento ad ogni rapporto che interferisse con l’azienda, talvolta assumendo atteggiamenti quasi