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Per molti anni il fenomeno pubblicità, e, di conseguenza, la sua incidenza nell’economia moderna, non furono oggetto di studio da parte dei grandi economisti. Nessuno dei padri fondatori della macroeconomia, come Quesnay o Adam Smith, Ricardo o Malthus, ha mai inserito la pubblicità tra gli elementi costitutivi dei mercati. Le ragioni che spinsero i teorici del XIX secolo a non occuparsi degli effetti indotti dalla pubblicità sul mercato, furono sostanzialmente due:

1. in primo luogo, le ricerche svolte in quegli anni miravano soprattutto alla scoperta e comprensione delle leggi fondamentali che guidavano i flussi di beni e servizi nel sistema produttivo, e allo sviluppo della teoria della concorrenza perfetta; 2. in secondo luogo, per gli studiosi del tempo, la pubblicità non ricopriva un ruolo

importante all’interno di queste teorie, ritenendone quindi inutile l’analisi. Come Pigou (1924) sottolineò, “in regime di concorrenza perfetta la pubblicità non ricopre alcun ruolo, perchè il mercato acquista, al prezzo di equilibrio, tutto ciò che un piccolo venditore vuole vendere”. Ovviamente se un’impresa è competitiva, utilizzerà la pubblicità per spostare la sua curva di domanda verso l’alto imponendo un prezzo di mercato più elevato. Se però riteniamo vere le assunzioni tradizionali riguardanti preferenze fisse sui prodotti e informazione perfetta dei consumatori, non ci sono ra- gioni per credere che quest’ultimo risponda positivamente alla pubblicità, inducendo lo spostamento della curva di domanda voluto dall’impresa.

In secondo luogo, solo in tempi abbastanza recenti la pubblicità è stata utilizzata ampiamente nel commercio. Negli ultimi anni del XIX secolo e nei primi del XX, si assistette ad una corsa del mercato verso l’innovazione e la tecnologia, queste ultime incentivate da una rete di trasporti e comunicazione in forte espansione. In questi anni nacquero i concetti di economia di scala e di distribuzione e produzione di massa, e

3.2. DA MACRO A MICROECONMIA 43

l’impresa iniziò a sentire la necessità di pubblicizzarsi al fine di stimolare la domanda e combattere la concorrenza.

Solo verso l’inizio del nuovo secolo gli economisti iniziarono ad interessarsi alla pub- blicità, ai suoi effetti e al comportamento delle singole imprese all’interno del mercato: la microeconomia divenne quindi una materia rilevante e degna di studio.

Le opere dei primi microeconomisti, sebbene analizzino solo in modo superficiale le relazioni di causa-effetto cha generano e alimentano le attività promozionali e pubblici- tarie di una impresa, forniscono la base da cui prendono le mosse tutte le successive teorie.

L’analisi economica delle attività promozionali e della pubblicità, ebbe inizio grazie alle opere di Alfred Marshall (1890, 1919). Egli riconobbe che la pubblicità poteva svol- gere due ruoli distinti all’interno dell’economia: uno “costruttivo” e uno “combattivo”. La pubblicità era un costo aggiuntivo rispetto al costo totale di produzione di un bene, ma era nel pieno interesse dell’impresa sostenerlo al fine di informare i consumatori sulle caratteristiche dei prodotti in vendita (ruolo costruttivo). Nell’opera Industry and

trade, del 1919, l’autore approfondisce l’argomento, dipingendo in modo estremamente

positivo il ruolo svolto dalla pubblicità all’interno del sistema economico: la pubblicità è uno strumento nelle mani dell’azienda, utilizzabile per far presentare al pubblico le caratteristiche e l’utilizzo di un nuovo prodotto; essa consente al consumatore di in- dividuare, senza fatica e spreco di tempo, ciò che gli permette di soddisfare i propri bisogni. Quando però l’impresa utilizza tale strumento al mero fine di combattere la concorrenza (ruolo combattivo), inondando il mercato di messaggi relativi ai propri prodotti senza lasciare spazio a quelli rivali, si finisce per generare uno spreco di risorse che può condurre ad un aumento dei prezzi per il consumatore stesso. La classificazione offerta da Marshall fu illuminante per i successivi teorici che si cimentarono nell’argo- mento, ma esso non perseguì l’obiettivo di integrare la pubblicità all’interno della teoria microeconomica.

Negli anni trenta, gli economisti cercarono di avvicinare le teorie neoclassiche alla realtà del mondo economico che, ora, comprendeva anche pubblicità e promozioni. Robinson (1933) e Chamberlin (1933) ritenevano che, in assenza di elementi di distor- sione, le forze operanti nei mercati conducessero inevitabilmente verso il monopolio o la concorrenza perfetta anche se nella reltà, la maggior parte dei mercati si trovavano in una situazione intermedia. Gli autori cercarono quindi di creare delle teorie economiche che fossero in grado di spiegare, e individuare, le ragioni di tale fenomeno. Chamberlin formulò la sua teoria sulla competizione monopolistica, in cui modellò le spese pub- blicitarie come dei costi di vendita (selling cost) in grado di aumentare l’inclinazione

della curva di domanda dell’azienda, per il prodotto differenziato rispetto a quelli già presenti sul mercato. In accordo con quanto già evidenziato da Marshall, Chamberlin riteneva che la pubblicità svolgesse soprattutto un ruolo informativo, permettendo al consumatore di conoscere la maggior parte dei prezzi imposti sul mercato per prodotti omogenei, producendo quindi un aumento dell’elasticità alla domanda. Sia Chamberlin che Robinson ritenevano però che essa fosse anche un elemento di disturbo e persua- sione, in grado di rendere il prodotto unico agli occhi del consumatore, enfatizzandone caratteristiche, reali o fittizzie, che nessun altro prodotto possedeva, e capace di alterare preferenze e bisogni dei consumatori. In quest’ottica il produttore divenne un monopo- lista, perchè riconosciuto come unico soggetto economico in grado di svolgere quella particolare produzione, e più esso riusciva a discriminare il prodotto e più forte diveni- va il suo potere di mercato, anche se ciò comportava una diminuzione dell’elasticità: la pubblicità è in grado di diminuire la sensibilità dei consumatori al prezzo, rendendoli disposti a pagare di più, pur di ottenere ciò che il messaggio pubblicitario gli ha indotti a desiderare. Il consumatore diviene un attore passivo del sistema economico, spin- to da forze esterne che non è in grado di controllare e che gli impongono determinati atteggiamenti d’acquisto. In questo senso Robinson evidenzia che la pubblicità può rappresentare anche una barriera all’entrata.

Ekelund and Saurman (1988) consolidarono le tesi di Chamberlin e Robinson, dipin- gendo la pubblicità come uno strumento in grado di creare desiderio verso il prodotto, aumentare la domanda e il potere di mercato dell’azienda produttrice. Di fronte a questo scenario le imprese potevano decidere di mantenere inalterato il prezzo, aumentando la quantità venduta, o aumentare il prezzo, mantenendo la quantità a livelli costanti. Gli autori ritenevano che per esigenze proprie del ciclo produttivo, e per ovvie ragioni di convenienza, l’impresa potesse scegliere di aumentare il prezzo, ottenendo, tra l’altro, maggiori profitti.

Da questi primi studi nacquero principalmente due correnti di pensiero, ancora oggi largamente dibattute, che diedero origine ad altrettante teorie: la teoria del potere di mercato e quella dell’informazione (Marbach and Fabi (2000)).

Purtroppo, nessuna chiarisce in modo definitivo il contributo della comunicazione aziendale ai risultati economici dell’impresa, nonchè alla persuasione dei clienti.