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trovano anche costrette a sostenere dei costi unitari più elevati.

Galbraith (1958, 1967) e Packard (1958) offrono una visione completamente negativa della pubblicità.

Galbraith accusa la pubblicità di essere una oscura forza persuasiva, capace di modi- ficare i desideri degli individui o di crearne di nuovi, necessaria all’impresa per poter col- locare sul mercato, tendente alla saturazione, il crescente numero di beni prodotti, spes- so futili o non rispondenti alle esigenze dei consumatori. Galbraith critica indiscrimina- tamente tutta la società dei consumi, distratta da frenetici comportamenti d’acquisto che distolgono da altre attività di natura più nobile, connesse ad esempio alla cultura o all’arte. Le famiglie incrementano i propri debiti per acquistare prodotti di ogni genere, fino a determinare una diminuzione dei consumi e un decremento della produzione, con le gravi conseguenze che una recessione economica di grande portata può creare. An- cora più inquietante è l’analisi svolta da Packard: il pubblicitario è un essere abilissimo nell’arte della manipolazione del consumatore, con tecniche a metà tra l’ipnosi e la psicoanalisi egli riesce a plagiare gli individui a vantaggio dell’una o dell’altra impresa, mettendo la conoscenza della mente umana a servizio delle strategie di mercato.

La teoria del mercato è quindi molto critica nei confronti della pubblicità, del suo ruolo all’interno del mercato e del suo effetto sulle capacità di influenzare la mente umana. Gli autori che la condividono considerano lo strumento pubblicitario un ele- mento di disturbo, indesiderabile e controproducente, perchè essi condividono implici- tamente un concetto di concorrezza di tipo marshalliano, caratterizzata da un equilibrio statico, raggiungibile solo in una situazione di perfetta omogeneità del prodotto (prodot- ti perfettamente sostituibili) e di perfetta informazione. La pubblicità, per i sostenitori di questa teoria, è infatti creata e diffusa al preciso scopo di attribuire ad un bene carat- teristiche di unicità, in realtà quasi impercettibili, che rendono ogni marca monopolisti- ca rispetto ad una qualsiasi variante presente sul mercato. Tale processo si realizza associando a ciascuna marca valori intangibili che ne aumentano la desiderabilità o il prestigio, e spingono il consumatore verso l’acquisto di un bene o servizio in grado di soddisfare bisogni originariamente inesistenti, trasformati però dall’abile mente del pubblicitario in desideri irrinunciabili.

3.4

La teoria dell’informazione

Mentre nella teoria del potere di mercato si ritiene che la pubblicità svolga un ruo- lo “combattivo” all’interno dell’economia, per ricordare il termine usato da Marshall,

la teoria dell’informazione si sviluppa attorno al concetto che la pubblicità è infor- mazione. I sostenitori della teoria dell’informazione, rivalutano quindi il ruolo assunto dalla pubblicità, e le riconoscono addirittura effetti benefici per l’economia.

Nel mondo reale si osserva che consumatori e produttori non possiedono mai in- formazioni complete sul mercato e, di conseguenza, sui prodotti, ma investono con- tinuamente risorse, quali tempo e denaro, alla ricerca della perfetta informazione. La pubblicità è, in questo senso, fonte “gratuita” di informazioni per i soggetti economici. Attraverso di essa i consumatori possono conoscere le alternative di prodotti e prezzi proposti sul mercato e, allo stesso tempo, i produttori possono valutare la bontà delle scelte produttive poste in essere, interpretando in modo più corretto gusti, desideri e bisogni futuri degli acquirenti. Infine, attraverso la pubblicità una nuova impresa può farsi conoscere e rendere noto al pubblico le caratteristiche del bene prodotto. La pub- blicità è quindi perfettamente in accordo con il regime di concorrenza perfetta e, allo stesso tempo, ne permette e garantisce l’evoluzione.

All’inizio degli anni sessanta due illustri rappresentanti della scuola austriaca, e con- vinti predicatori della teoria dell’informazione, invalidarono in gran parte le disastrose conclusioni tratte da Galbraith e le cupe affermazioni di Packard. Hayek (1949) e Kirzn- er (1973) ritenevano ingiusto considerare la pubblicità uno strumento atto a creare biso- gni inesistenti, dato che, nella realtà, la gran parte dei bisogni sono non indispensabili, e il singolo messaggio pubblicitario non è in grado di fare una pressione così forte sul consumatore da indurlo ad effettuare l’acquisto. La creazione di sempre nuovi bisogni è invece da attribuire all’ambiente culturale, che determina personalità, opinioni e valori degli individui, tenendo comunque presente che l’esistenza di bisogni variegati non è da considerare in modo negativo sebbene sia indice di una società complessa. I bisogni e i gusti dei consumatori non possono quindi essere influenzati dal singolo messaggio pub- blicitario, ma, semmai, tale ruolo può essere attribuito all’insieme di tutte le campagne pubblicitarie poste in essere dal produttore, la cui entità rimane comunque difficile da valutare perchè ad esse vanno aggiunte le pressioni indotte dal sistema socioculturale nel suo complesso.

Secondo Stigler (1961), i consumatori sono per definizione ignoranti, in quanto non possiedono informazioni complete su prezzi imposti e prodotti venduti sul mercato. Nonostante ciò, l’autore non pensa che questo soggetto possa essere monopolizzato e influenzato nelle sue scelte d’acquisto dalla pubblicità. Pur non possedendo informazioni complete, il consumatore è un soggetto razionale, che conosce e cerca di organizzare al meglio le risorse di cui dispone. Purtroppo tutte le risorse da lui utilizzabili sono costose e limitate: il denaro, ad esempio, richiede, normalmente, la prestazione di un dato

3.4. LA TEORIA DELL’INFORMAZIONE 49

numero di ore lavorative e il tempo libero ha lo stesso prezzo della remunerazione che si potrebbe ottenere trascorrendolo lavorando. Persino la conoscenza non è gratuita: se un consumatore volesse conoscere il prezzo praticato per un prodotto da tutti i distributori ubicati in una determinata area geografica, dovrebbe personalmente visitare ogni punto vendita, annotarsi l’informazione ricercata, e quindi effettuare l’acquisto nel luogo più conveniente e, come si può notare, tale ricerca richiederebbe un enorme dispendio di tempo, risorsa scarsa e costosa. É qui che la razionalità del consumatore entra in gioco. Al fine di massimizzare l’utilità ricavabile dalle risorse disponibili, egli accetterà di tollerare un certo grado di ignoranza del mercato. É chiaro che in questo contesto la pubblicità viene vista come uno strumento capace di fornire informazioni utili, e soprattutto, gratuite, relative ai prezzi dei prodotti presenti sul mercato.

Tale ragionamento, può essere, secondo l’autore, generalizzato anche al caso di pub- blicità che non forniscono informazioni dirette riguardanti i prezzi praticati sul mercato, perchè il consumatore effettua le sue decisioni d’acquisto anche sulla base di altri fattori, quali, ad esempio, la qualità, le prestazioni e il potenziale utilizzo del prodotto, su cui comunque il messaggio pubblicitario informa. Una delle conseguenze dell’utilizzo del mezzo pubblicitario è che il costo marginale del consumatore non è più rappresentato dal tempo speso per la ricerca, ma è associato al rischio di acquistare un prodotto non conforme a quanto pubblicizzato e desiderato. Possiamo concludere, quindi, che per Stigler ciò che regola il potere nelle economie di mercato è la conoscenza.

In uno studio empirico condotto da Telser (1964), si analizza la relazione esistente tra pubblicità e concentrazione all’interno di 42 aziende produttrici di beni di largo consumo. L’analisi condotta mediante l’utilizzo di una regressione lineare tra concen- trazione e intensità pubblicitaria ha permesso di concludere che la correlazione tra le due variabili è “insensibile”. Inoltre analizzando la relazione esistente tra pubblicità e stabilità delle quote di mercato, l’autore nota che un’attività pubblicitaria maggiore tende ad essere associata ad un più basso livello di stabilità. Nel complesso Telser ri- tiene comunque che la pubblicità faciliti l’entrata di nuove imprese nel mercato e che non costituisca una barriera all’entrata.

l’analisi condotta da Nelson (1970), conduce a ritenere che il contenuto informati- vo della pubblicità è chiaro sia quando, ovviamente, essa contiene informazioni dirette riguardanti le caratteristiche peculiari del prodotto, che quando fornisce solo infor- mazioni indirette. A partire da tale affermazione egli ritiene che sia possibile classificare i beni in due gruppi:

• experience goods.

Nel primo gruppo rientrano i beni caratterizzati da bassa frequenza d’acquisto e prezzo relativamente alto, come ad esempio i capi d’abbigliamento, per i quali il con- sumatore sente la necessità di ottenere maggiori informazioni relativamente alla qualità del prodotto. A causa della natura del bene in questione, l’acquirente sarà molto critico nei confronti delle informazioni che potrà ottenere da fonti esterne, e inoltre egli avrà la possibilità di valutare, già prima dell’acquisto, la corrispondenza tra caratteristiche pubblicizzate e reali. Rispetto a questa realtà, l’azienda non avrà quindi alcun interesse a fornire delle informazioni ingannevoli.

Gli experience goods, sono beni ad alta frequenza d’acquisto, come ad esempio la maggior parte degli alimenti o gli elettrodomestici, per i quali il consumatore possiede già un’ampio spettro di informazioni derivanti da esperienze passate. Per questi beni l’informazione addizionale ha un valore relativamente piccolo, in quanto la perdita derivante dall’acquisto di un prodotto di bassa qualità è modesta. In questo caso il margine di manovra della pubblicità ingannevole è molto più ampio, tenendo però sem- pre presente che, qualora l’acquirente non riscontri la qualità e le prestazioni definite nel messaggio pubblicitario, difficilmente l’acquisto verrà ripetuto in futuro, a scapito della stessa azienda produttrice. La classificazione qui fornita, fonda quindi le sue radici sull’ammontare di informazione necessaria per giungere alla decisione d’acquisto.

Nell’articolo del 1974, e sulla base della classificazione sopra esposta, Nelson affer- ma che il consumatore è in grado di verificare le informazioni fornite dal messaggio pubblicitario, e ciò consente da un lato di invalidare, almeno in parte, la tesi di Stigler secondo la quale il costo marginale è costituito dal rischio di acquistare un bene con caratteristiche non conformi a quelle pubblicizzate, e dall’altro consente di affermare che l’azienda è scoraggiata dal pubblicizzare qualità irrealistiche.

In uno studio condotto da Kopalle and Loehmann (1995), emerge che il consuma- tore razionale assume un atteggiamento scettico e prudente nei confronti dei messaggi pubblicitari che attribuiscono qualità esagerate al prodotto, creandosi delle aspettative su qualità o caratteristiche, comunque inferiori. Il consumatore assume quindi un at- teggiamento scettico e di autodifesa soprattutto nei confronti dei messaggi pubblicitari relativi agli experience goods. Il comportamento adottato dal consumatore scoraggia e limita eventuali tentativi del produttore di attribuire qualità esagerate o comunque superiori alle aspettative. Esistono però dei beni, definiti credence goods, per i quali risulta difficile valutare la bontà della scelta anche dopo l’acquisto: si tratta, ad esem- pio, di prestazioni mediche o pezzi di ricambio per automobili. Chi acquista tali beni