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Madri detenute con figli convivent

CAPITOLO TERZO

3.2 Genitori detenut

3.2.2 Madri detenute con figli convivent

Con la riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 è stata concesso alla madre detenuta di poter tenere con sé in cella il figlio fino all’età di tre anni: “alle madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido”79, sancendo legalmente il diritto di svolgere il proprio ruolo genitoriale. Inoltre la revisione di questa legge, L. n. 62/2011,

78Essere madri in carcere in www.assistentisociali.org 2014, consultabile al link

http://blog.assistentisociali.org/2013/04/11/essere-madri-in-carcere/ . 79 Art. 11, 9° comma Ordinamento Penitenziario.

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prevede che le donne madri di bambini fino a sei anni di età non debbano scontare la pena in carcere.

La decisione di far vivere il figlio in carcere spesso è dovuta al fatto che a volte non ci sono soluzioni alternative: pensiamo a madri sole o a madri extracomunitarie, quindi prive di una rete familiare che possa occuparsi del bambino.

Altre volte invece la scelta di portare con sé il figlio avviene per una situazione di emergenza ad esempio per il figlio nato in carcere o per la presenza di altri figli già affidati ai propri familiari o a causa dell’eccessiva lontananza della famiglia originaria dal carcere.

In situazione del genere la scelta di volere il minore la “dietro le sbarre” viene motivata dalla madre dal desiderio di veder crescere il proprio bambino nonostante l’ambiente non proprio idoneo e per evitarne l’affidamento a terzi che rimarrebbe l’unica soluzione possibile.

Non bisogna pensare che la scelta di condividere con il proprio bambino la pena detentiva facendolo diventare un piccolo innocente recluso sia facile per una madre che vive da una parte una volontà egoistica di stare con il bambino, dall’altra la possibilità di affidarlo a terzi che possano occuparsene sicuramente in modo più adeguato ma con la paura di poterlo perdere definitivamente.

È per questo che l’Amministrazione penitenziaria deve verificare l’idoneità della madre prima di concederle il beneficio e successivamente assicurarle il necessario sostegno grazie alla presenza di figure professionali.

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In conseguenza di ciò sono stati attuati diversi regolamenti a tutela del rapporto madre-figlio come ad esempio lo speciale servizio per l’assistenza sanitaria alle gestanti ex art. 19 DPR n. 230/2000 che prevede l’assistenza da parte di ginecologi e pediatri, la presenza di camere aperte per facilitare lo spostamento presso gli ambienti destinati alle attività ricreative dei minori.

Dunque la legge italiana prevede che la madre possa convivere con il proprio figlio fino al terzo anno di età di quest’ultimo, dopo di che i bambini vengono affidati a familiari, istituti o famiglie affidatarie per tutto il periodo della carcerazione della madre, a meno che non sussistano le condizioni per poter accedere alle misure alternative alla detenzione previste dalla legge.

Stando ai dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria al 31 dicembre 2018 i bambini in carcere con le proprie madri erano 52:

Regione Italiane presenti Figli al seguito Straniere presenti Figli al seguito TOTALE PRESENTI TOTALE FIGLI AL SEGUITO Calabria 1 1 / / 1 1 Campania 10 11 3 3 13 14 Lazio 4 5 4 4 8 9 Lombardia 1 1 7 8 8 9 Piemonte 4 5 3 3 7 8 Puglia / / 1 1 1 1 Sicilia 1 1 1 1 2 2 Veneto 2 3 5 5 7 8 TOTALE 23 27 24 25 47 52

Detenute madri con figli al seguito presenti negli istituti penitenziari italiani distinte per nazionalità e Regione80. Situazione al 31 dicembre 2018.

80 Fonte: Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Ufficio del Capo del Dipartimento – Sezione Statistica.

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I bambini che vivono in carcere sicuramente subiscono una deprivazione affettiva, relazionale e sensoriale in un ambiente limitativo sia negli spazi che nelle opportunità e attività che un bambino dovrebbe normalmente poter svolgere all’esterno, per non parlare dell’assenza di contatti quotidiani con altri bambini con cui poter socializzare e crescere adeguatamente, ma soprattutto l’assenza della figura paterna.

Tutti gli studi di psichiatria e psicoanalisi81 sono unanimi nel dimostrare l’importanza del padre nella sana crescita di un bambino fin dai suoi primissimi mesi di vita, pertanto l’organizzazione penitenziaria deve essere strutturata in modo da favorire con maggiore frequenza possibile gli incontri per la triade madre-padre-bambino.

D’altra parte è anche vero che il vivere lontano dalla figura materna potrebbe avere delle gravi conseguenze sulla crescita e sullo sviluppo del bambino, forse addirittura più gravi del crescere in un istituto penitenziario: è per questo che molti Paesi hanno previsto questa possibilità di convivenza per i bambini molto piccoli.

Inoltre le madri detenute non godono di un trattamento diverso rispetto alle altre donne in carcere, per cui i bambini si ritrovano a dover subire le esperienze di depersonalizzazione e appiattimento dei bisogni naturali collegati all’assenza di stimoli. Cancelli, sbarre, chiavistelli producono sempre una risposta emotiva soffocata, dunque la prima cosa da fare sarebbe migliorare tali condizioni: infatti tanto più queste sono degradate, maggiori saranno le conseguenze sul neonato.

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Un altro aspetto da migliorare è la limitazione negli spazi che il bambino vive poiché la libertà di movimento è una condizione indispensabile per la sua crescita e limitarla rappresenta un ostacolo alle esigenze di esplorazione del mondo che ogni bimbo ha.

Le condizioni carcerarie hanno delle conseguenze negative anche sul rapporto madre-figlio che incontra diverse difficoltà. Prima di tutto la componente ansiogena della madre è amplificata dal pensiero che una “cattiva gestione” del minore possa comportare ripercussioni negative da parte dell’Istituzione. Inoltre il bambino percepisce l’impotenza della madre a poter prendere decisioni, per cui il suo bisogno di una figura autorevole e rassicurante resta insoddisfatto.

La madre in carcere poi si comporta in modo contraddittorio: da un lato esaspera il controllo sul bambino poiché la sua educazione rifletterà la sua rispettabilità sociale anche all’esterno ed in futuro, allo stesso tempo diventa molto permissiva per compensare il senso di colpa che prova82. Un momento particolarmente difficile e drammatico è la separazione del bambino della madre al compimento del terzo anno di età. A volte queste donne non riescono a programmare quali siano le prospettive di vita per i loro bambini e, quando non è possibile affidarli ai propri parenti, l’unica ipotesi alternativa risulta essere l’istituzionalizzazione presso case famiglia o l’affidamento; a ciò si aggiunge il timore della madre detenuta di non riuscire più ad avere con sé il figlio al momento delle dimissioni a causa dei provvedimenti espressi dal Tribunale dei Minori.

82Crocellà M., Coradeschi C. Nati in carcere. Dalla prigione alla condizione sociale,

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- Infanzia negata83?

È inutile negare che in carcere i bambini vivano una situazione angosciante e di sofferenza e i volontari che vi lavorano faticano a spiegare gli sguardi tristi e i comportamenti di questi piccoli detenuti, bambini che chiedono autorizzazione per qualsiasi cosa al Personale Penitenziario, proprio come fanno le loro mamme. I bambini crescono circondati da muri e sbarre, mancano i colori e gli odori, la loro immaginazione non riesce ad andare oltre l’orizzonte interrotto dal muro di cinta. Imparano presto a parlare piano, a piangere piano, a correre piano, sono pervasi da rigide regole e divieti. Tra le prime parole che imparano a pronunciare oltre “mamma” e “papà”, ci sono “chiavi”, “agente”, “aria”.

Bambini dietro le sbarre che trascorrono i loro primi giorni di vita, i giorni più preziosi secondo gli esperti dell’infanzia, in una cella e crescono in luoghi dove le porte restano sempre chiuse, le finestre hanno le sbarre e gli adulti portano la divisa.

Nei bambini che vivono all’interno degli istituti penitenziari è stata osservata una sorta di regressione o ritardo nello sviluppo, poiché l’ambiente risulta poco stimolante in termini di esplorazione, gioco, movimento, socializzazione. È stato osservato come essi preferiscano giochi ripetitivi e già strutturati (ad esempio aprire e chiudere le porte) e come essi abbiano problemi nell’instaurare relazioni sociali, dovuto al legame simbiotico, iperprotettivo e teso che hanno con la madre, assorbono le tensioni e gli stili di vita del carcere, subiscono l’inevitabile mancanza di una figura maschile stabile che comporta problemi

83Farano D. La maternità in carcere. Aspetti problematici e prospettive alternative in La rivista di servizio sociale, 1998.

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identificativi e catalizzano il senso di maternità dalle altre donne detenute, quindi per un certo verso è come se avessero tante mamme.

Tutto ciò porta il bambino a manifestare disagio, rabbia e insicurezza84. Inoltre il minore che abbia vissuto in stato di reclusione mostra altre difficolta specifiche, quali svezzamento tardivo, inappetenza, assenza di autonomia nel mangiare, alterazioni del sonno, apatia, irrequietezza Queste difficoltà potrebbero provocare disturbi o addirittura ritardi nello sviluppo cognitivo e linguistico85.

Il sovraffollamento ed il contatto forzato tra etnie e culture diverse creano, inoltre, situazioni tese e stressanti che incidono sul rapporto madre-figlio e sono poi causa di infezioni respiratorie, intestinali, cutanee osservate in questi bambini86.

Ci sono ulteriori elementi di rischio, nonché fattori di stress traumatico aggiuntivo, che possono incidere sul benessere psicofisico del bambino: l’aver assistito all’arresto, se non addirittura al reato del genitore, la lunghezza del periodo di detenzione, la condizioni detentive più o meno dure per la madre.

Un discorso a parte merita la nascita del bambino in carcere. È risaputo che i periodi pre-parto e post-parto rappresentano un momento di ansia per qualsiasi donna, ma per quelle che vivono in carcere viene accentuato dal sentimento di inadeguatezza e impotenza: il contesto sociale di deprivazione, i contatti familiari instabili, l’isolamento, la precaria

84Biondi G. Lo sviluppo del bambino in carcere, FrancoAngeli Milano, 1994.

85Poehlmann J. Children’s family environments and intellectual outcomes during

maternal incarceration in Journal of Marriage and Family, n. 67 december 2005.

86La condizione della donna detenuta in Autonomie locali e servizi sociali. Fascicolo 3, dicembre 2007.

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condizione fisica e mentale, il pensiero che il bambino possa essere affidato all’esterno, caratterizzano lo stato depressivo della futura mamma detenuta. Questa condizione può provocare un parto prematuro, una maggiore mortalità dei nati, la presenza di patologie tipiche carcerarie come la tossicodipendenza da stupefacenti o da alcool, la TBC.

A questo proposito è stato dimostrato87 come i neonati siano invece protetti nel caso di madre dipendente da alcool o droghe che abbia trascorso la gravidanza in carcere, grazie all’impossibilità di usare droghe, la sana alimentazione, la maggior cura prenatale. I neonati in tali casi risultano maggiormente in salute rispetto a quelli nati da madri entrate in carcere nel periodo finale della gravidanza.

È per tutti questi motivi che sarebbe preferibile far vivere la madre con il bambino presso altre strutture esterne al carcere, ma purtroppo a volte il tipo di reato commesso, la recidività e la legge non lo permettono.

Al compimento dei tre anni, quando dovranno lasciare il carcere e quindi anche la mamma, la maggior parte di questi bambini oltre ad essere già segnati dai primi anni vissuti in detenzione, vivrà seri problemi riguardanti il distacco e la separazione dalla madre.